Pallottino Massimo
L’Asia è vicina? I casi del Bangladesh e del Myanmar
2024/2, p. 13
In questi due paesi, una piccola porzione del continente più popolato del mondo, si sviluppano dinamiche che in qualche modo ci riguardano in molti modi, anche se facciamo fatica a riconoscerlo.

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L'Asia è vicina?
I casi del Bangladesh e del Myanmar
In questi due paesi, una piccola porzione del continente più popolato del mondo, si sviluppano dinamiche che in qualche modo ci riguardano in molti modi, anche se facciamo fatica a riconoscerlo.
C’è un posto del mondo dove abitano 4,7 miliardi di persone, e dove sembrano avere inizio e termine gran parte dei processi di trasformazione che stanno toccando il pianeta. Ma se dobbiamo misurare la sua importanza in base allo spazio dedicato ad esso nel dibattito in Italia, potrebbe sembrare che questi 4,7 miliardi di persone contino poco, forse meno di un pandoro di una nota influencer… Eppure, rischiamo di capire poco del mondo in cui viviamo, se non cogliamo quanto avviene nel continente asiatico: dinamiche che si sviluppano secondo modalità che in molti casi sfuggono alle nostre categorie ‘occidentali’, ma i cui esiti molto probabilmente presto o tardi toccheranno anche noi. Anche i motivi di tensione e conflitto che maturano in questo immenso continente possono comportare molte conseguenze per tutti noi: eventi che si svolgono in paesi da noi geograficamente lontani, ma potenzialmente vicini se adottiamo quello sguardo globale che è sempre più necessario per misurarci con le sfide che questo tempo ci propone. La lontananza geografica rende più distante ogni notizia: conflitti e motivi di tensione realmente ‘dimenticati’, proprio perché lontani.
La pulizia etnica del popolo Rohingya
È il caso della vicenda dei Rohingya, una popolazione originaria dello stato del Rakhine, in Myanmar, ma musulmana, come la maggioranza della popolazione del confinante Bangladesh: si tratta di una delle popolazioni più perseguitate al mondo. Questa comunità ha affrontato discriminazioni sistematiche e violenze per lungo tempo, e lo stesso governo del Myanmar (paese a maggioranza buddhista) non ha mai neanche accettato di riconoscerla come minoranza etnica. La crisi è diventata però davvero esplosiva a partire dal 2017, quando un’operazione militare condotta dalle forze di sicurezza del Myanmar portò a un massiccio esodo di Rohingya verso il Bangladesh, a seguito di quella che è stata descritta dalle stesse Nazioni Unite come una vera e propria ‘pulizia etnica’, in ragione delle prove emerse di uccisioni indiscriminate e stupri sistematici e distruzione di interi villaggi. Questi eventi costrinsero centinaia di migliaia di Rohingya a fuggire attraverso il confine del Bangladesh, cercando rifugio in campi sovraffollati e precari, nella zona di Cox’s Bazar. Attualmente più di 800 mila persone vivono nel complesso di campi più grande al mondo, situato in quella che prima del loro arrivo era una riserva naturale.
In Bangladesh c’è il campo profughi più grande del mondo
Bangladesh è uno dei paesi più popolati al mondo, e anche uno tra i più colpiti dal cambiamento climatico: più di 170 milioni di abitanti che vivono in un paese grande più o meno la metà dell’Italia, esposto a venti monsonici sempre più forti, e tifoni sempre più frequenti. Non è dunque una sorpresa che il governo del Bangladesh resista in ogni modo all’idea di stabilizzare i rifugiati Rohingya sul proprio territorio: un atteggiamento che però lascia nella precarietà centinaia di migliaia di persone, che non hanno alcuna prospettiva prevedibile di tornare nel loro paese. Il risultato è una distesa di baracche a perdita d’occhio, chiusa ermeticamente a qualsiasi visitatore esterno ogni sera, e dove non sono rare violenze e incendi che si propagano con rapidità tra i rifugi in bambù. L’ultimo, il 7 gennaio ha provocato lo sfollamento di oltre 7.000 persone e la distruzione di almeno 800 case, solo pochi giorni dopo che un incendio a Capodanno aveva distrutto più di 20 case, aumentando ancora le preoccupazioni per l’incuria e la mancanza di sostegno in un contesto di crescente insicurezza nel campo profughi più grande del mondo. Nonostante gli sforzi della comunità internazionale per porre fine alla crisi, la situazione dei Rohingya rimane critica, con sfide legate all'accesso agli aiuti umanitari, alle condizioni nei campi profughi e al futuro incerto per questa popolazione sfollata.
Myanmar: una nazione profondamente divisa
I tentativi di trovare un accordo con il governo del Myanmar per il rientro dei profughi non hanno fino ad ora avuto alcuno sbocco: anche perché in molti casi non c’è più alcun posto in cui tornare: villaggi distrutti, e territori agricoli ‘ricolonizzati’ da parte dell’esercito birmano, non lascerebbero alcuno spazio a chi dovesse tornare nel luogo da cui è fuggito solo pochi anni fa. Il Myanmar vive a sua volta una situazione interna di estrema difficoltà, da quando la giunta militare nel 2021 interruppe bruscamente la lenta transizione del paese verso la democrazia. In molte città si sviluppò da allora un movimento di opposizione, e i movimenti di resistenza armata (che non avevano mai deposto completamente le armi durante la fase di democratizzazione) hanno progressivamente guadagnato il controllo di un territorio sempre più ampio; fino al cessate il fuoco del 12 gennaio ottenuto grazie alla mediazione della Cina, ma già ripetutamente violato. Il dilagare del conflitto interno rappresenta una forte preoccupazione di carattere umanitario: l’ONU stima che da ottobre siano oltre 660.000 le persone sfollate a causa dell’aumento dei combattimenti, portando il numero totale a oltre 2,6 milioni. Ma non è questo il solo ostacolo in un futuro cammino di pacificazione della società birmana. Si tratta infatti di una società comunque profondamente divisa, ed è ancora vivo il ricordo della tiepida opposizione di Aung San Suu Kyi, premio Nobel e leader carismatica dell’opposizione, alle persecuzioni nei riguardi della minoranza Rohingya.
La vivace minoranza cristiana in Bangladesh
Quale ruolo può giocare la chiesa in paesi come il Bangladesh o il Myanmar, dove i cattolici sono una esigua minoranza? In Bangladesh i cristiani sono lo 0,4% della popolazione, tre quarti dei quali cattolici: animano una presenza in tutto il paese, con una Caritas nazionale dove i laici giocano – inusualmente – un ruolo centrale, e che cerca di intercettare le vecchie e le nuove povertà di questo paese complicato, da cui provengono tra l’altro migliaia di migranti presenti nel nostro paese. Ed è così che si sviluppano iniziative accanto ai ‘profughi ambientali’ interni, coloro che fuggono dalla zona costiera soggetta ai tifoni rifugiandosi nelle città dell’interno e creando enormi agglomerati di baracche costruite abusivamente su terreni spesso insalubri e soggetti ad inondazioni, dove manca qualsiasi servizio. Caritas Bangladesh è anche una delle poche organizzazioni autorizzate a lavorare nei campi dei Rohingya, a Cox’s Bazar. Ed è proprio nella sede della Caritas Bangladesh che si trova la centrale di confezionamento e spedizione dei prodotti del commercio equo e solidale che noi stessi acquistiamo in tutta Italia: una possibilità di produrre e commerciare all’interno di una relazione giusta e rispettosa, una vera rivoluzione che mette la giustizia al di sopra di una prospettiva di puro guadagno. E – attenzione – tutto questo avviene in Bangladesh, un paese dove il sistema di divisione del lavoro internazionale ha generato orrori come quello del Rana Plaza, un vero e proprio ‘alveare’ dove centinaia di persone erano rinchiuse a lavorare per l’industria del fast fashion (moda veloce) che si acquista in qualsiasi centro commerciale: il crollo nel 2013 causò 1.138 morti e oltre 2.600 feriti e invalidi per la vita, il più grande disastro dell’industria della moda.
Il Myanmar e i legami commerciali con l’Italia
Diversa la situazione in Myanmar, dove la maggior parte dei 6,3% di popolazione (su un totale di circa 54 milioni di abitanti) si trovano proprio nelle regioni Kachin, Chin and Kayin, tra le più colpite dal conflitto in corso. Questi numeri rendono i cristiani il secondo gruppo per importanza, quasi totalmente buddhista, mentre i cattolici sono circa l’1% della popolazione. È birmano uno dei ‘nuovi cardinali’ di papa Francesco, il card. Charles Maung Bo: ed era la sua voce, quasi solitaria, a reclamare pace, diritti e democrazia anche nel momento di difficile transizione democratica (poi interrotta dal golpe del 2021), fino a portare papa Francesco proprio in questa autentica periferia, nel 2017. È un cammino faticoso, in cui occorre favorire qualsiasi sforzo di pace in una situazione segnata da profonde lacerazioni: un conflitto che si è allargato dalle zone periferiche del paese toccando alcuni centri importanti e mettendo sempre più in pericolo la popolazione civile; ma dove la reazione della comunità internazionale si presenta con il piano di risposta umanitaria delle Nazioni Unite meno finanziato del pianeta. L’interesse del caso del Myanmar è anche dettato dai forti legami commerciali da parte di imprese italiane con il paese, in particolare nel settore dell’esportazione di legname di pregio, il teak utilizzato per la realizzazione dei ponti delle imbarcazioni di lusso, nota ‘eccellenza italiana’, come si usa dire. L’export di legname è una delle fonti di reddito più importante per la giunta al potere nel paese, dato che è l’esercito ad avere il monopolio della produzione e del commercio di questa materia prima. Essa viene rivenduta anche in Italia attraverso un percorso tortuoso, che permette a chi utilizza questo materiale di dichiarare la propria estraneità alla giunta! Ed è la stessa estraneità che può dichiarare il produttore italiano di proiettili per armi leggere e il produttore di elicotteri che dichiarano di non avere alcuna relazione con l’esercito birmano, nonostante i prodotti citati risultino regolarmente utilizzati (questa volta in violazione evidente all’embargo sulle armi in vigore da molti anni). Per il teak e per le armi, vale il vecchio adagio pecunia non olet, che arriva puntuale anche dopo triangolazioni fantasiose.
G. MASSIMO PALLOTTINO
responsabile dell’Ufficio Asia e Oceania di Caritas italiana