Ferrari Matteo
Dall’ascolto alla conversione
2024/2, p. 9
Completiamo con questa seconda parte, la presentazione della relazione che dom Matteo Ferrari ha pronunciato al momento della sua elezione a Priore di Camaldoli e Priore Generale della Congregazione Camaldolese dell’Ordine di San Benedetto, il 22 novembre scorso.

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CARATTERISTICHE DELLA COMUNITÀ SINODALE
Dall’ascolto alla conversione
Completiamo con questa seconda parte, la presentazione della relazione che dom Matteo Ferrari ha pronunciato al momento della sua elezione a Priore di Camaldoli e Priore Generale della Congregazione Camaldolese dell'Ordine di San Benedetto, il 22 novembre scorso.
Una comunità in stato di conversione
La seconda caratteristica di una comunità dallo stile sinodale è il fatto di essere in stato di conversione. È una diretta conseguenza dell’ascolto. La seconda parola del vocabolario sinodale è “conversione”. Il Documento preparatorio del Sinodo parla di una “conversione sinodale” che la comunità ecclesiale è chiamata a vivere «come forma, come stile e come struttura della Chiesa» (DP 2). Il processo sinodale chiede a tutti di vivere quella dinamica fondamentale della vita cristiana che è la conversione che nasce dall’ascolto della Parola e della comunità; «per “camminare insieme” è necessario che ci lasciamo educare dallo Spirito ad una mentalità veramente sinodale, entrando con coraggio e libertà di cuore in un processo di conversione senza il quale non sarà possibile quella “continua riforma di cui essa [la Chiesa], in quanto istituzione umana e terrena, ha sempre bisogno” (UR, 6; cfr. EG 26)» (DP 9).
Come comunità monastica sappiamo che il termine “conversione” sta al centro della nostra tradizione e della nostra spiritualità. Scriveva il card. Mario Grech in una lettera indirizzata a tutti i monasteri: «Un vero cammino sinodale non può prescindere dalla disponibilità a lasciarci convertire dall'ascolto della Parola e dall'azione dello Spirito Santo nella nostra vita. La vita monastica e contemplativa ricorda a tutta la Chiesa che l'invito alla conversione sta al cuore dell'annuncio stesso di Gesù, che percorreva i villaggi della Galilea dicendo: «Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino» (Mt 4, 17)» (28 agosto 2021).
Abbiamo bisogno di una profonda conversione che, alla luce della Parola di Dio e della fede, ci conduca a trasfigurare il volto delle nostre comunità e della Congregazione perché siano luoghi nei quali risplende la gioia del Vangelo. Siamo consapevoli delle nostre fragilità e delle nostre ferite, ma anche dei grandi doni di cui siamo custodi e che non possiamo sprecare. La parabola dei talenti (Mt 25, 14-30) ci insegna che cosa sia tradizione autentica. Interessante l’uso del verbo “consegnare” (paradidomi). È il verbo della “tradizione”. Per il Vangelo non c’è autentica tradizione se ci si accontenta di custodire gelosamente e passivamente ciò che si è ricevuto come in un museo, se lo si sotterra. Vera tradizione è investire ciò che si è ricevuto per poterlo riconsegnare arricchito e vivente alle generazioni future.
Una comunità ospitale
Una comunità dallo stile sinodale è poi una comunità ospitale. Oggi quella dell’ospitalità è un’urgenza per la comunità cristiana, proprio a partire dallo stile stesso di Gesù. Solamente una Chiesa ospitale, capace come il suo Signore di ospitare e di lasciarsi ospitare, può oggi annunciare il Vangelo agli uomini e alle donne del nostro tempo. Parlando dell’itinerario di Gesù, del suo stile, Christoph Theobald parla di una sua «ospitalità incondizionata». Ed egli afferma: «Questa ospitalità, narrata in modo così concreto nei racconti evangelici, consente di “rimpatriare» tali racconti nell’attualità delle nostre «Galilee”» (Urgenze pastorali. Per una pedagogia della riforma, EDB, Bologna 2019, 70). Sempre Theobald afferma: «Secondo tutta la tradizione biblica e cristiana, soltanto l’“altro” può farmi uscire dalla mia miseria spesso nascosta anche a chi mi è più vicino e, come un “angelo”, farmi scoprire il valore inestimabile della mia esistenza» (Il popolo ebbe sete, 66). Il riferimento all’angelo rimanda all’ospitalità di Abramo (Gn 18,1-14) e al passo della lettera agli ebrei invita a non trascurare l’ospitalità: «Non dimenticate l’ospitalità; alcuni, praticandola, senza saperlo hanno accolto degli angeli» (Eb 13,2).
L’ospitalità intesa in questo modo cambia radicalmente il nostro modo di entrare in relazione con gli altri, che viene percepito e che crea un clima sincero di reciproca accoglienza.
Noi siamo abituati ad ospitare, ma siamo capaci di lasciarci ospitare? Il brano dell’accoglienza di Marta e Maria nel Vangelo di Luca (Lc 10,38-42) ci mostra come la vera accoglienza consista nella comprensione che la vera ospitalità consiste in primo luogo nell’ascolto, nella consapevolezza di non avere primariamente da dare qualcosa, ma soprattutto da ricevere.
Il tema dell’ospitalità tocca tutte le nostre comunità e ci interroga sul nostro modo di viverla. Innanzitutto occorre essere consapevoli che “il soggetto” che pratica l’ospitalità è la comunità nel suo insieme. L’ospitalità non può essere affidata al solo “foresteriario”, ma tutta la comunità deve sentirsi interpellata dalla presenza degli ospiti che «non mancano mai in monastero» (RB 53). Non dimentichiamo che l’accoglienza è una caratteristica originaria di Camaldoli. Basta pensare al Liber Eremitice Regule dove si afferma, a proposto del Cenobio di Camaldoli: «il dovere dell’ospitalità deve essere osservato in ogni modo a Fonte Buono… infatti quella dimora è stata edificata soprattutto per adempiere al dovere dell’ospitalità e, per quanto in seguito sia stata adattata alla norma cenobitica, col crescere della congregazione, in nessun caso si deve trascurare l’ospitalità. Non c’è niente di più gradito infatti ai fratelli dell’eremo , niente di più apprezzato tra gli omaggi che l’eremo suole rendere, che l’accoglienza di tutti gli ospiti, specialmente dei poveri e dei pellegrini» (LER XXXVII, 3-5). La Regola di Benedetto ci insegna che la prima condivisione con l’ospite che giunge in monastero riguarda la preghiera e la lettura delle Scritture: «prima preghino insieme… si legga davanti all’ospite per edificarlo la Legge» (RB 53,4-8). Una intelligente rilettura della Regola e della tradizione camaldolese ci insegna una pratica dell’ospitalità che sia edificazione non solo per gli ospiti ma anche per l’intera comunità.
Una comunità che vive la povertà
Una comunità sinodale è una comunità che vive la povertà. Anche la situazione economica delle nostre comunità e del mondo in cui viviamo ci spinge come comunità monastica ad interrogarci sulla povertà e sulla sobrietà. Occorre riscopre il valore del lavoro nella vita monastica come “amico dell’anima”, che ci rende compagni di viaggio di tutti gli uomini e tutte le donne verso il regno dei cieli. Non dimentichiamo le parola di Benedetto nella Regola: «i monaci sono veramente tali, quando vivono del lavoro delle proprie mani come i nostri padri e gli Apostoli» (RB 48,8).
C’è una “bellezza” della sobrietà e della povertà, della semplicità, che chiunque giunge in una nostra comunità dovrebbe poter respirare, ma soprattutto che dobbiamo respirare noi. Dovremo necessariamente, spinti anche dalle contingenze economiche, ripensare il nostro stile di vita, le nostre scelte. Tutto questo, se vissuto positivamente, può diventare una vera benedizione per la nostra vita monastica. Questa sobrietà e essenzialità ci dovrà condurre anche ad una maggiore attenzione ai poveri del nostro tempo, alla condivisione.
Una comunità che vive la comunione
Un’altra caratteristica di una comunità dal volto sinodale è la comunione. È questa la meta e la sola “verifica” del processo sinodale. Certo si tratta di un traguardo che sta sempre davanti a noi. Non siamo mai arrivati alla meta della comunione ma siamo sempre incamminati verso di essa. Solamente nell’esperienza della comunione la Chiesa può essere “evangelizzante”, può annunciare il Vangelo agli uomini e alle donne di oggi. Infatti, praticare la sinodalità è oggi per la Chiesa il modo più evidente per essere “sacramento universale di salvezza” (LG 48), “segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano” (LG 1)» (DP 13).
Per una comunità monastica vivere la comunione è questione di vita o di morte. Solo se testimoniamo la comunione nella vita fraterna possiamo pensare che la risposta alla chiamata del Signore per la nostra esistenza sia fonte di vita per noi e per gli altri.
La comunione va vissuta soprattutto nelle cose semplici e ordinare della vita. La vita cristiana infatti deve ricominciare dalle semplici cose di ogni giorno: lo stare a tavola, lo svolgimento dei servizi comunitari, il lavoro quotidiano, la preghiera liturgica, le nostre parole. Solo se impariamo a prenderci cura di questi ambiti concreti della nostra vita, potremo coltivare la comunione.
In questa prospettiva va valorizzato il capitolo conventuale che non si deve riunire unicamente per prendere decisioni, ma come momenti di confronto fraterno nel quale la comunità cresce insieme. Il capitolo deve divenire un luogo di ascolto nel quale tutti devono poter intervenire e sentirsi ascoltati ed accolti: tutto ciò che riguarda la vita della comunità deve essere discusso e deciso da tutti, come quando nelle Rodulphi Constitutiones viene descritto il processo che ha portato la comunità monastica a destinare il cenobio di Fonte Buono, oggi Camaldoli, alla formazione dei più giovani e alla cura dei più deboli: «quando i fratelli, che avevano meditato in cuor loro queste idee, le ebbero esposte davanti a tutti, gli altri le approvarono di comune accordo e noi tutti le abbiamo confermate» (RC IV,1).
Oltre al capitolo conventuale, dovremo pensare anche altri momenti di incontro e di ascolto formali e informali. A livello di Congregazione, anche sfruttando la possibilità di incontri a distanza, potremo istituire incontri periodici tra i priori, i maestri, gli economi. Tutte le comunità possono riflettere su incontri comunitari periodici che permettano la condivisione delle attività di ogni monaco e l’andamento dei vari aspetti della vita comunitaria. […]
Conclusione
Madre M. Ignazia Angelini mi ha ricordato in un messaggio che il giorno in cui sono stato eletto Priore generale veniva proclamato nella liturgia un Vangelo particolare: «quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: “Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare”» (Lc 17,10). Non è il Signore che ci chiama così. Non è Dio che ci dice «tu sei un servo inutile». Ma egli ci invita a considerare noi stessi, dopo aver obbedito alla sua Parola, come dei «servi non necessari». È la beatitudine di essere «servi non necessari», «semplicemente servi», il cui unico dovere non è rivendicare qualcosa, ma obbedire alla volontà di Dio e accogliere tutto come un dono. Il servo «non necessario» non deve preoccuparsi della quantità dei suoi meriti, deve solo ascoltare la voce del suo Signore e cercare di fare la sua volontà, sapendo che la sua identità consiste nell’essere semplicemente servo, un servo non necessario. E un giorno con stupore quel servo si accorgerà che il suo padrone si cingerà i fianchi gratuitamente e si metterà a servirlo.
Questa immagine che la liturgia ci ha donato riguarda tutti: tutti siamo «servi inutili», non necessari che dobbiamo cercare semplicemente di obbedire alla Parola del Signore. Una comunità sinodale è una comunità di «servi inutili» che sanno di dover camminare insieme nell’ascolto della Parola di Dio e nell’obbedienza reciproca.
DOM MATTEO FERRARI
Priore di Camaldoli e Priore Generale
della Congregazione Camaldolese
dell’Ordine di San Benedetto