Vite in disparte
2024/12, p. 41
Una ricerca ha analizzato il fenomeno del «ritiro sociale volontario»
che si registra tra la popolazione studentesca italiana.
Per alcuni giovani di oggi la tenaglia tra paura del fallimento, attese di eccellenza e competitività, diviene schiacciante.
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RICERCHE SOCIALI
Vite in disparte
Una ricerca ha analizzato il fenomeno del «ritiro sociale volontario» che si registra tra la popolazione studentesca italiana. Per alcuni giovani di oggi la tenaglia tra paura del fallimento, attese di eccellenza e competitività, diviene schiacciante.
Constatiamo l’aumento di un numero consistente di giovani che definiamo «hikikomori», termine giapponese che deriva da hiku (tirare indietro) e komoru (isolarsi) traducibile come «ritirati sociali». L’Associazione nazionale «Hikikomori Italia», dopo anni di ricerca e studio, indica oggi un termine più appropriato: «ritiro sociale volontario cronico giovanile». Si tratta di un inquietante fenomeno dei nostri tempi. Già papa Francesco in una Lettera del 14 settembre 2017, indirizzata ai vescovi del Giappone, sottolineava, tra i gravi problemi che destano preoccupazione nel mondo, quello delle persone che «scelgono di vivere totalmente sganciate dalla vita sociale (hikikomori)».
Il disagio degli adolescenti
Nel nostro paese, a fronte della continua crescita di forme di disagio nel mondo giovanile, aumentano iniziative di informazione e prevenzione per genitori, professori e personale scolastico, promosse da agenzie educative pubbliche e cattoliche e da membri di alcuni ordini religiosi. Anche altri Stati puntano i riflettori su questo grave fenomeno che mina il futuro. Ultimo in ordine di tempo, leggiamo che il governo sudcoreano ha deciso di mappare gli «adolescenti isolati e solitari», con l’obiettivo di strapparli dalla loro reclusione volontaria e restituirli alla vita attraverso forme di accompagnamento e di sostegno. Si pensi che nel 2020 il tasso di mortalità per suicidio in Corea del Sud è stato il più alto tra i paesi Ocse, l’Organizzazione internazionale di studi economici. In questo paese, tra il 2019 e il 2020, il tasso di suicidio tra gli adolescenti è aumentato oltre il 9% e tra i ventenni quasi il 13%. Per molti analisti il ritiro sociale è una risposta radicale a una società coreana iper-competitiva, nella quale l’obbligo della prestazione inizia già nei banchi di scuola, con adolescenti costretti a studiare anche fino a 16 ore al giorno. Secondo il noto filosofo di origini sudcoreane Byung-chul Han, una «società della prestazione» conduce «all’epoca dell’esaurimento», nella quale a essere sfruttata è la psiche. In questa epoca non ci sorprende che il fenomeno stia espandendosi anche al di fuori dall’Asia (Avvenire, 13 giugno 2024)
Proteggersi dal mondo
Ci sono giovani che all’improvviso non escono più di casa, non frequentano scuola e amici e mantengono i contatti esterni attraverso internet. Il primo studio di livello nazionale su questa incredibile realtà è stato promosso dal Gruppo Abele, in collaborazione con l’Università della Strada e con il Consiglio nazionale delle Ricerche (CNR). Sono stati contattati oltre 12.000 studenti e studentesse fra i 15 e i 19 anni. Risulta che circa un 1,7% degli studenti (44.000 ragazzi e ragazze a livello nazionale) si possono definire «hikikomori», mentre il 2,6% (67.000 giovani) affermano che potrebbero attuare questa scelta. Il 2% dei ragazzi attribuisce a se stesso le caratteristiche del «ritirato sociale». Proiettando il dato sulla popolazione studentesca nella forbice tra i 15 e i 19 anni, si arrivano a contare circa 54.000 studenti. Fra i ritirati effettivi, i maschi sono la maggioranza, mentre le femmine si identificano sempre più spesso con la condizione di «hikikomori». Le ragazze sono più propense al sonno, al consumo di cibo, alla lettura e alla televisione, mentre i ragazzi si dedicano soprattutto a giocare e divertirsi con i videogiochi (è il cosiddetto gaming). Per quanto riguarda le femmine, si tratta di modalità difensive di fronte a episodi dolorosi, (crisi sentimentali, mancato raggiungimento di un obiettivo ecc.). Sul versante maschile, il ritiro sociale appare come conseguenza di esperienze che generano un senso di fallimento della propria vita. Nel complesso il ritiro sociale diventa una forma di difesa da una competizione in cui ci si sente perdenti. Inizialmente emerge un sollievo causato da uno stress costante diventato insostenibile. Gradualmente le paure, il senso di inadeguatezza, la tensione nel relazionarsi, la vergogna, portano a un livello di malessere tale che si preferisce rinunciare a un rapporto con l’esterno. Di conseguenza, ci si rintana nella propria stanza e in diversi casi si ricorre anche all’alcol e alla cannabis. In questo modo si scava nelle proprie ferite, sperimentando una forte mancanza di autostima. Si diventa sedentari e il corpo genera sovrappeso e obesità.
Trappole psicologiche e scarsa consapevolezza
I sei mesi di auto-reclusione sono considerati dagli studiosi come il tempo limite, oltre il quale un disagio potenzialmente passeggero rischia di sfociare in uno stile di vita destinato a durare per anni. Il fenomeno del ritiro sociale volontario non può essere subito etichettato come una psicopatologia, perché si finisce per delegarlo agli «specialisti», quando invece c’è bisogno subito di un coinvolgimento degli ambiti educativi primari (famiglia e scuola) e delle comunità territoriali. L’attuale assunzione della problematica da parte delle regioni è abbastanza fragile. La certificazione di ritirato sociale, di competenza delle Asl, rimane lo snodo per mantenere un rapporto con l’istituzione e la continuità degli studi, superando la rigidità della frequenza scolastica obbligatoria. A questo proposito, un primo dato sorprendente riguarda la reazione delle famiglie: più di un intervistato su 4, fra coloro che si definiscono ritirati, dichiara che i genitori avrebbero accettato la cosa apparentemente senza porsi domande. Il dato è simile quando si parla degli insegnanti. Sicuramente mantenere il ruolo di studente, senza diventare «prigioniero» dell’aula (così è vissuta questa situazione dai ritirati sociali), consentirebbe di non spezzare tutti i fili che collegano la propria esistenza sociale con la propria identità personale: I percorsi di reintegrazione avrebbero più possibilità di successo. Nell’indagine nazionale si riportano anche le risposte di un campione non rappresentativo di dirigenti scolastici, dalle quali risulta comunque che solo un quinto degli istituti coinvolti ha attivato un piano formativo per il recupero degli studenti ritirati sociali, mentre circa un terzo prevede alcune misure specifiche, come attività didattiche a scuola, ma in orario extrascolastico (17%), forme di sostegno alle famiglie (circa il 15%) e attività didattiche a domicilio (circa il 13%).
Un progetto sperimentale
Per far fronte a questa necessità, il Gruppo Abele dal 2020 ha sviluppato un progetto sperimentale denominato Nove ¾ per offrire un supporto educativo alle giovani vite e alle loro famiglie. In particolare, si cerca di supportare quelle famiglie che non riescono a trovare risposte alla chiusura e all’isolamento dei propri figli. Si è visto che non esiste un trattamento univoco e standardizzato per riportare un ragazzo «hikikomori» a ritornare nel mondo esterno. Le modalità devono essere individuate in modo personalizzato, con un sostegno che richiede lo sviluppo di diverse fasi e il contributo di livelli differenti di aiuto educativo e clinico. A partire dall’intervento domiciliare in cui un educatore incontra il giovane a casa, con l’obiettivo di costruire un rapporto di conoscenza e di fiducia iniziando un dialogo costruttivo con i genitori, in modo che possano fungere da «ponte» tra l’operatore e l’adolescente. L’uscita di casa da parte dei ragazzi è più praticabile se si crea un altro «ponte» tra la loro tana e la realtà sociale da cui sono fuggiti. Questa mediazione è attuata mediante la frequentazione di un Centro laboratoriale, che diventa così una sorta di «terra di mezzo» protetta e affidabile. Quando la persona se la sente, è invitata a iniziare attività individuali e poi di gruppo condotte da educatori o da «maestri di mestieri». Essi cercano di stimolare e «sfidare» i ragazzi sui loro interessi e sulle competenze specifiche, dentro un ambiente rassicurante che non richiede prestazioni e non desta ansia. Su questa linea si è posizionato ancora papa Francesco: la rete dei social «è un’occasione per promuovere l’incontro con gli altri, ma può anche potenziare il nostro autoisolamento, come una ragnatela capace di intrappolare. Sono i ragazzi a essere più esposti all’illusione che il social web possa appagarli totalmente sul piano relazionale, fino al fenomeno pericoloso dei giovani «eremiti sociali» che rischiano di estraniarsi completamente dalla società. Questa dinamica drammatica manifesta un grave strappo nel tessuto relazionale della società, una lacerazione che non possiamo ignorare» (2019, Messaggio per la 53ma Giornata mondiale delle comunicazioni sociali).
MARIO CHIARO