La carità eroica della Serva di Dio Giuseppina Faro
2024/12, p. 33
La fama di santità della serva di Dio Giuseppina Faro ha da subito varcato i confini siciliani e il suo esempio luminoso di vita cristiana, spinta fino all’eroismo, invita coloro che si affidano alla sua intercessione a riconoscere l’opera del Dio
mirabile nei suoi santi.
Accedi alla tua area riservata per visualizzare i contenuti.
Questo contenuto è riservato agli abbonati a
Testimoni
.
ESEMPI DI VITA CRISTIANA
La carità eroica
della Serva di Dio Giuseppina Faro
La fama di santità della serva di Dio Giuseppina Faro ha da subito varcato i confini siciliani e il suo esempio luminoso di vita cristiana, spinta fino all’eroismo, invita coloro che si affidano alla sua intercessione a riconoscere l’opera del Dio mirabile nei suoi santi.
Peppina – così come era amabilmente chiamata da tutti – nobile per natali e soprattutto d’animo, è nata il 16 gennaio 1847 nel ridente paesino di Pedara, in provincia di Catania, che con i suoi vigneti si arrampica alle falde dell’Etna, in una terra ricca di tradizioni e di fede, insieme a quella vitalità e folclore che rendono la Sicilia veramente «bedda». Una più recente biografia ha per titolo una esclamazione alquanto significativa e intensa: Lassù è volato un angelo!. Sì, perché la vita di Giuseppina, conclusasi a soli 24 anni, è stata un continuo guardare verso il Cielo additandolo con la sua profonda spiritualità.
Mettiamo in luce tre aspetti fondamentali.
L’Eucaristia fonte della carità di Giuseppina Faro
La «beata Peppina» si è distinta come testimone dell’amore fedele del Dio amorevolmente vicino ad ogni necessità. Ha infatti vissuto l’esperienza della fede in modo concreto, incarnato nel sociale, capace di rivelare il volto di una Chiesa che dal centro, l’Eucaristia, raggiunge quelle periferie esistenziali di cui tanto parla papa Francesco, ossia i poveri, gli ultimi, gli ammalati, quel popolo che, per dirla con l’allora cardinale Giuseppe Benedetto Dusmet, arcivescovo di Catania, «domanda pane e fede». Non per nulla il biografo padre Felice Maria Caruso proponeva Giuseppina Faro come modello alle donne impegnate nell’«opera di soccorso agli infermi poveri a domicilio» istituita proprio da quel benemerito Pastore oggi Beato.
Il pane, con forte richiamo all’Ostia, è l’alimento quotidiano, il segno del raccogliersi attorno ad una mensa, è il cibo di cui non si può fare a meno. E Giuseppina Faro davvero ha testimoniato il primato della comunione e della carità abbracciando nel bisognoso, sacrario della Trinità, il Signore sofferente e affamato prima di tutto di amore e di accoglienza. A Pedara ella ha profuso il suo apostolato distinguendosi per la semplicità della vita e la profonda spiritualità. Pure nel monastero benedettino di San Giuliano a Catania, dove visse per 18 mesi, non mancava, con il permesso della Madre Abbadessa, di elargire elemosine rinunciando a quei sussidi che i genitori le davano per i bisogni personali. Secondo il biografo padre Salvatore Gaeta uno dei motivi principali che spinsero la giovane ad entrare in monastero fu quello di poter stare più vicina al SS. Sacramento. Nell’elogio funebre tenuto ad un anno dalla morte, mons. Giuseppe Coco Zanghì, tra i tratti salienti della vergine pedarese, mise in risalto «la sua abitudine costante alla preghiera, la sua ubbidienza, il suo amore a Gesù nell’Eucaristia, le sue meditazioni sulla persona di Cristo».
Dunque, è dalla celebrazione eucaristica e dall’adorazione che matura la ragione dell’agire di Giuseppina Faro. Ne scaturisce di conseguenza l’imitazione di Cristo e, dunque, il far proprio il comandamento nuovo che invita ad amare come Lui ha amato. Ella viveva la sua vocazione caritatevole e assistenziale come riconoscimento del volto di Dio nei fratelli; era prima di tutto una giovane donna, una cristiana che ha saputo fare della carità il suo modo precipuo di vivere il Vangelo ponendosi alla scuola del Salvatore che ha detto: «Ero povero, infermo, nudo e mi avete soccorso perché ogni volta che avete fatto qualcosa ai miei fratelli più piccoli lo avete fatto a me» (cf. Mt 25,35-44).
Una imitazione di Cristo che, a sua volta, diventava entusiasmo coraggioso: l’esempio luminoso di Giuseppina suscitò in molte sue amiche e altre ragazze il desiderio di consacrarsi al Signore nella verginità e nella carità.
Un sacerdote della nostra diocesi era solito dire che «noi siamo ciò che contempliamo»; quindi se adoriamo il Sacramento dell’amore non possiamo non diventare amore e, siccome l’Eucaristia non soltanto la si adora ma soprattutto la si celebra e di essa ci si nutre, è pure vero che noi siamo ciò che mangiamo. Così ancora la ritrae mons. Coco Zanghì con fare retorico eppure incisivo: «Uditori, fu serafina di amore verso Dio la nostra donzella; ma ditemi, non fu insieme l’apostolo della carità in mezzo a voi, l’angelo di conforto pe’ poveri, per gli infermi, per le anime afflitte, per le desolate famiglie? […] Oh! si faccia innanzi ancora e parli chi ne ricevè istruzione nell’ignoranza, consiglio nella dubbiezza, conforto in ogni sorta di disavventura?». Peppina non soltanto portava elemosine nelle povere case, ma ci metteva del suo, prodigandosi per pulire gli ambienti, per cucinare, per medicare ferite e lavare anche sudice bende. Dall’Eucaristia, e avendo la Madonna come modello di totale e attenta disponibilità, aveva imparato questo, ossia il dono totale di sé. Ecco perché le sue visite, fatte con spirito eucaristico, assumevano anche una valenza «salvifica».
La «santa» mamma di Giuseppina Faro
La famiglia Faro era tra le più agiate e influenti di Pedara. La signora Teresa Consoli, donna di grande religiosità, proveniva da un’altra famiglia benestante del paese. Come attesta il biografo padre Felice Maria Caruso, «i genitori di Giuseppina, nonostante la loro posizione sociale, furono persone molto pie e attente ai bisogni dei poveri». Non ostacolarono mai la figlia facendosi, a loro volta, coinvolgere e ammaestrare ad un sempre maggiore impegno cristiano sostanziato di amore a Dio e al prossimo. I genitori, ai quali Peppina era sempre obbedientissima, gioivano di quanto faceva la figlia convinti della sua santità, così come uno zio che non esitava a dire «ho una nipote santa».
Peppina, che nella sua opera caritatevole e assistenziale verso i poveri e i malati distribuiva molti beni del patrimonio familiare, ebbe pure il permesso di trasformare la sua casa «in un ritrovo di anime pie» che «l’accompagnavano alla chiesa ed alle stamberghe dei poverelli». Tra queste, tante volte vi era pure la mamma. Complice della figlia, intuì la veridicità del desiderio di consacrarsi al Signore assecondandone il desiderio di una «visibilità» esterna; infatti, la giovane le chiese ben presto di poter «lasciare le vesti signorili e poter vestire da umile divota». La signora Teresa diede alla figlia il permesso di vestire secondo l’uso delle «bizzocche» fino anche a consentirle, anni dopo, di entrare nel monastero di San Giuliano a Catania.
In una lettera scritta dal dott. Antonio Papaldo, appartenente a una delle più antiche famiglie pedaresi, e datata Roma 24 gennaio 1978, troviamo una pennellata proprio sulla signora Teresa: «Forse il ricordo più interessante è quello della madre di Giuseppina. Era vecchissima e venerata da tutto il paese come donna molto caritatevole. Mi voleva bene e si divertiva tanto a sentire parlare quel piccolo fanciullo che io ero».
Il rimando sotteso non tanto dell’età, quanto alla saggezza di questa donna poiché, nel ricordo del Papaldo, la vecchiaia è associata alla venerazione, una attestazione unanime in virtù dell’essere caritatevole, come già e insieme alla figlia Peppina. Ancora: una donna che sapeva volere bene, che entrava in empatia, che sapeva ascoltare tutti sempre pronta a rispondere alle domande di quanti volevano abbeverarsi all’acqua sorgiva da cui era scaturita tanta santità. Infine, la capacità di ridere nonostante il lutto che portava in cuore – e per una mamma addolorata gli anni non passano – di farsi piccola con i piccoli; indubbiamente l’eredità lasciatale dalla figlia era prima di tutto quella grande serenità che viene dall’accettare sempre con convinta adesione il divino volere.
La «benedettina» Giuseppina Faro
L’ultima fase della vita di Giuseppina Faro è contrassegnata dalla permanenza in monastero quale naturale sbocco della sua intensa vita spirituale.
Da tempo desiderava di poter realizzare la sua vocazione monastica e appoggiata dai pii genitori che glielo permisero mettendo a condizione il raggiungimento della maggiore età (allora a 21 anni), lasciati gli agi e gli affetti di casa, si trasferì a Catania: era il 1870. Entrata in monastero dovette però alimentare la speranza della consacrazione definitiva confidando totalmente nel Signore cui nulla è impossibile. Infatti, a seguito della legge 7 luglio 1866 che affermava non essere «più riconosciuti dallo Stato gli Ordini, le Corporazioni e le Congregazioni religiose regolari e secolari, ed i Conservatori e Ritiri, i quali importino vita comune e abbiano carattere ecclesiastico», non potevano accettarsi aspiranti alla professione religiosa in quanto le varie comunità erano votate all’estinzione. Nei monasteri femminili si trovò l’espediente di accogliere le novizie come fossero educande. E Peppina divenne educanda di nome, postulante di fatto, benedettina per sempre nel cuore.
Di lei vengono rilevate soprattutto la perfetta obbedienza, l’umiltà, la radiosa serenità e una intensa propensione alla preghiera. Così scriveva padre Felice Maria Caruso: «L’abbadessa Suor Maria Concezione Costantino e Suor Maria Battistina Paternò Scammacca mi assicurarono che le più antiche moniali non videro mai nel loro monastero un’anima elevata a sì alta perfezione ed in sì stretta unione con Dio».
Delle tante virtù di Giuseppina Faro, viene evidenziato anche il suo abituale rapporto di pace con tutti. Questo ci fa cogliere un particolare accostamento con san Benedetto, oltre i tanti che non è possibile sviluppare in poche righe. La Lettera apostolica con la quale il 24 ottobre 1964 san Paolo VI proclamava il Santo di Norcia patrono d’Europa, inizia proprio con un chiaro appellativo che dà il titolo alla lettera stessa: «Pacis nuntius». Partendo dal cuore di Benedetto che ha vissuto l’ideale della serena convivenza, dell’armonia delle diversità, dell’ascolto accogliente e della fraternità piena, la pace è divenuta uno degli ideali fondamentali del monachesimo.
A causa della salute cagionevole dovette lasciare a malincuore il monastero e far ritorno alla casa paterna, continuando a vivere, come già anche precedentemente, quasi fosse in un sacro chiostro. Era il 14 aprile del 1871. Un mese dopo, il 24 maggio, morì santamente tra atroci dolori mentre tanti prodigi straordinari confermarono la fama della sua santità.
Il breve «assaggio» della vita monastica è stato per Giuseppina conferma e sigillo, preparazione al traguardo ultimo che la vide pronta nell’adesione alla volontà di Dio al cui amore nulla aveva mai anteposto. Un amore che mantenne miracolosamente caldo e flessibile il suo corpo nonostante la morte e il passare del tempo, un amore che ancora oggi ci raggiunge e riscalda nella memoria di questa sposa fedele e appassionata, vero «faro» di luce e di carità.
suor MARIA CECILIA LA MELA, OSBap