Il Figlio
2024/12, p. 3
Credo in un solo Signore, Gesù Cristo, unigenito Figlio di Dio.
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SPECIALE GIUBILEO
Il Figlio
Credo in un solo Signore, Gesù Cristo, unigenito Figlio di Dio.
La via cristiana ha avuto il proprio inizio nell’esperienza di Dio che ha fatto chi ha incontrato Gesù di Nazareth. È stato prima di tutto l’incontro personale con lui a far nascere la meraviglia che apre ad alcune domande, come riscontriamo anche dai racconti evangelici (cf. Mc 4,41; Mt 21,10; più diffusamente nell’episodio tracciato anche in Lc 9,18-20). Potremmo anzi dire che essi vogliono rispondere narrativamente e con varie risorse retoriche proprio alla domanda di chi sia il Nazareno e di quale sia il suo rapporto con Dio. In che senso Dio si è reso presente nella vicenda di Gesù di Nazareth?
Le prime risposte
Ovviamente le prime risposte utilizzano gli strumenti linguistici e concettuali del mondo religioso nel quale le comunità cristiane si trovavano a vivere e dal quale traevano nutrimento e identità: quelli del mondo ebraico.
In particolare, alcune figure del Primo Testamento mantengono la loro forza ermeneutica nei confronti della predicazione di Gesù e dei suoi gesti. Prima di tutto, si interpreta la figura di Gesù attraverso la categoria del profeta. Indubbiamente era la più semplice da utilizzare e coincide con quanto la tradizione riporta di tale figura: una persona che predica e che compie gesti simbolici a nome di Dio. Vicino a questa caratterizzazione, anche se non con connotazioni messianiche, è l’appellativo dato a Gesù come maestro (rabbì), identificando con questo la sua presenza accanto ad altre figure di insegnamento. Accanto a queste, anche l’identificazione come messia – il christos, l’unto – può aver svolto un ruolo importante, nonostante la difficoltà di determinarne ulteriormente le caratteristiche e nonostante non sia stata da tutti; da una parte, infatti, il messia era variamente identificato con il profeta degli ultimi tempi (cf. At 3,22), oppure come un sacerdote (cf. Zac 4,14; 6,13), oppure ancora come re (cf. 2Sam 7,12-16); dall’altra, i movimenti apocalittici e messianici coevi a Gesù e nei quali si colloca lo stesso movimento gesuano amplificano l’attesa di un tempo di redenzione religiosa, politica e nazionale e rimandano alla figura del figlio dell’uomo presente, ad esempio, fermandosi alla sola letteratura canonica, in Dan 7,13-14.
Non pare e non sarebbe per altro plausibile che sia stata attribuita al cosiddetto Gesù terreno la qualifica di figlio di Dio nel senso che tale espressione ha nella successiva determinazione dogmatica. Infatti, solo dopo aver attraversato le vicende legate alla passione e aver sperimentato la rinnovata presenza del Risorto, è stato possibile ulteriormente acuire la domanda sulla sua identità e sulla sua relazione a Dio: perché e come la potenza divina è intervenuta in modo così forte nel far sperimentare l’irrompere del futuro escatologico di Dio nel presente? La risposta a questa più profonda domanda ha avuto un compito nell’interpretare in modo diverso lo stesso messaggio di Gesù: «Il regno di Dio è in mezzo a voi» (Lc 17,22).
La complicazione trinitaria
È questa dinamica che scatena la necessità di elaborare nuovi concetti e di fornire un diverso campo semantico a concetti antichi. Nel mondo ebraico «Dio» è riferito unicamente a YHWH; è quindi impossibile che un ebreo lo applichi a se stesso o a qualcun altro. Tanto meno lo poteva fare Gesù. Di fatto, nel Secondo Testamento, «Dio» non è mai utilizzato per indicare il Gesù prepasquale, ma indica solo «Dio Padre». Il Gesù prepasquale ha potuto comprendersi «solamente» in totale disposizione nei confronti del regno di Dio; cioè ha potuto comprendersi come «Figlio» che obbedisce al «Padre». Eventualmente possiamo dire che tale relazione si mostra in Gesù in modo così completo da non corrispondere ad alcun’altra figura (per esempio, è a disposizione del regno di Dio, persino quando questo significa «fallimento»). L’evento della crocifissione di Gesù e l’esperienza della risurrezione di Gesù mostrano agli occhi dei discepoli una «nuova» possibilità: che la relazione con il «Figlio» faccia parte dell’identità stessa del «Padre», e viceversa. In questa prospettiva la divinità della «paternità» viene messa in relazione con la divinità della «figliolanza».
Credo in un solo Signore, Gesù Cristo,
unigenito Figlio di Dio,
nato dal Padre prima di tutti i secoli:
Dio da Dio, Luce da Luce,
Dio vero da Dio vero, generato, non creato,
della stessa sostanza del Padre;
per mezzo di lui tutte le cose sono state create.
Ogni espressione di questa parte del simbolo niceno-costantinopolitano esprime quanto esprime ciascuna delle altre, utilizzando campi semantici diversi. In tal modo vengono ad arricchirsi vicendevolmente. Ciascuno di questi campi semantici proviene da una diversa discussione intraecclesiale e non è qui possibile rendere conto di ogni passaggio. Si possono solamente sottolineare alcuni aspetti. Il primo è il passaggio da un monoteismo teologico ad un monoteismo soteriologico: «un solo Signore», consente in una sola affermazione di attribuire il nome divino a Gesù ma nella prospettiva della salvezza. «Kyrios», «Signore» è infatti la traduzione greca di YHWH, di Dio in quanto entra come unico liberatore nella storia umana. Se il termine unigenito esprime l’unicità della relazione di Gesù Cristo al Padre in quanto relazione di salvezza, esso serve anche a chiarire che egli – appunto generato, non creato – non vive in una relazione di livello creaturale, ma ne condivide la vita, come una fiamma è nello stesso tempo identica e distinta dalla fiamma da cui proviene, o come un fascio di luce è nello stesso tempo identico e distinto dalla luca da cui proviene. Tuttavia – tra l’altro utilizzando e nello stesso tempo correggendo arditamente un riferimento alla personificazione femminile della Sapienza (cf. Pv 8,22-31) – per mezzo di lui tutte le cose sono state create, insinuando che tale relazione non avviene nel tempo ma fa parte della stessa vita di Dio. Solo in questo modo sembrava di poter esprimere l’unicità e l’unità di Dio (monoteismo) affermando nello stesso tempo che la salvezza sperimentata in Gesù è l’ultima, l’intima possibilità dell’unione con Dio.
La sostanza del Padre
Rispetto alle affermazioni bibliche vi è quindi un rapporto di continuità e di discontinuità, la prima testimoniata dalle citazioni o dalle allusioni scritturistiche, la seconda nella loro diversa interpretazione, la quale si era resa necessaria per poter tradurre in categorie condivise con altri l’esperienza cristiana. Con tale intenzione, si inserisce nel linguaggio cristiano e fissa dogmaticamente la centralità del pensiero relazionale, con tutto quello che ciò comporta. Più esattamente, l’essenza divina viene ad essere interpretata più come «relazione tra» che come «causa di».
Si deve tenere presente questo aspetto quando si interpreta la specificazione che sin qui abbiamo omesso: il Figlio è «della stessa sostanza del Padre». Il termine utilizzato è homousios, un termine che non ritroviamo nella Bibbia. Viene inserito perché sorto all’interno delle discussioni teologiche che hanno preparato il concilio di Nicea e che a loro volta tentavano di rendere intelligibile per il pensiero greco l’esperienza cristiana. Già tale atto ermeneutico è esemplare e dovrebbe aiutarci a superare alcune rigidità linguistiche nel ridire la fede oggi. Esso però ha anche una intenzionalità teologica e intende chiarire che non c’è un Dio creatore cattivo (il Padre per il Primo Testamento) e un Dio salvatore buono (il Figlio per il Secondo Testamento) ma un’unica relazionalità divina; che non c’è un Dio che adotta un essere umano come se fosse suo Figlio secondo la prospettiva ariana ma un unico atto d’amore generativo; che non c’è un decadimento di Dio nel mondo e nella carne umana come sosteneva il pensiero gnostico, ma una grazia completamente gratuita.
Ma come fa Dio ad avere in se stesso delle relazioni? Parlando di sostanza umana, per esempio, ciascun essere umano ha la stessa sostanza di ogni altro e perciò ci sono vari individui: ne dovremmo dedurre che ci sono vari dei, come se il Figlio abbia o anche sia un pezzo della sostanza divina? In questo modo però non solo allontaneremmo il pensiero cristiano dalla sua radice ebraica, ma Dio verrebbe ad essere come una realtà tra le altre.
Se invece parliamo in termini di ‘relazione’ non c’è un individuo, non possiamo più pensare ad un individuo isolato dagli altri o, in altre parole, se parliamo in termini di relazione la descrizione di una realtà avviene attraverso nomi che indicano una relazione senza impossessarsene. Il linguaggio relazionale trinitario (il Padre verso il Figlio, ma in modo simile avviene per quanto riguarda lo Spirito Santo) implica una maturazione nella stessa idea di Dio, che è presentato come una relazione di vita e di salvezza. Dio è relazione, o per ridefinire l’implicito contenuto del termine homousios, è amore, carità che si spende sino alla fine per l’altro: «Carissimi, amiamoci gli uni gli altri, perché l'amore è da Dio: chiunque ama è stato generato da Dio e conosce Dio. Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore. In questo si è manifestato l'amore di Dio in noi: Dio ha mandato nel mondo il suo Figlio unigenito, perché noi avessimo la vita per mezzo di lui. In questo sta l'amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati» (1Gv 4,7-10).
GIANLUCA MONTALDI