NEV Chiesa Valdese
Paolo Ricca «un uomo di visioni e progetti»
2024/11, p. 20
Sapeva costruire ponti, ispirando simpatia e generando fiucia. In ambito ecumenico lo guidava la convinzione che la fede comune dovesse per sua natura condurre all’incontro e aprirsi al dialogo, che non si alimentava con abili strategie o accorte mediazioni, ma consisteva in un passo in avanti verso l’unico Signore che tutti ci chiama.

Accedi alla tua area riservata per visualizzare i contenuti.

Questo contenuto è riservato agli abbonati a
Testimoni
.
CHIESA VALDESE
Paolo Ricca
«un uomo di visioni e progetti»
Sapeva costruire ponti, ispirando simpatia e generando fiducia. In ambito ecumenico lo guidava la convinzione che la fede comune dovesse per sua natura condurre all’incontro e aprirsi al dialogo, che non si alimentava con abili strategie o accorte mediazioni, ma consisteva in un passo in avanti verso l’unico Signore che tutti ci chiama.
L’ampia e crescente risonanza della notizia della sua morte avvenuta il 14 agosto 2024 è un segno tangibile di quanto Paolo Ricca fosse non solo noto e stimato, ma anche amato. Quante volte, nei contesti più diversi, in Italia, come in Germania o in Svizzera o in Francia o negli Stati Uniti, ci siamo sentiti dire, e dagli interlocutori più diversi: «Ho conosciuto Paolo Ricca», e spesso «Come sta Paolo Ricca?». Il protestantesimo italiano, in primis quello delle chiese riunite nella Federazione, ha per decenni avuto in lui un esponente autorevole, in ambito ecumenico, nelle relazioni con le chiese sorelle, nello spazio pubblico. L’incontro con lui come oratore o predicatore, come docente o come membro di un gruppo di lavoro, perfino se episodico, lasciava sempre una traccia e, se seguito da un colloquio, spesso faceva nascere un legame, al quale non si sottraeva, spesso coltivandolo con la corrispondenza o il telefono. Era difficile che rifiutasse un invito, anche sapendo che avrebbe dovuto affrontare la fatica di un viaggio o che lo avrebbe atteso un uditorio esiguo. Questa disponibilità lo ha caratterizzato fino agli ultimi giorni della sua vita. Sapeva costruire ponti, ispirando simpatia e generando fiducia. In ambito ecumenico, anche con interlocuzioni che altri avrebbero ritenuto impossibili, lo guidava la convinzione che la fede comune, seppur vissuta in forme diverse e a volte dissonanti se non dissenzienti, dovesse per sua natura condurre all’incontro e aprirsi al dialogo, che non si alimentava con abili strategie o accorte mediazioni, ma consisteva in un passo in avanti verso l’unico Signore che tutti ci chiama. L’incontro non è a metà strada dalle nostre posizioni attuali, ma più avanti. Per le piccole realtà protestanti ed evangeliche in Italia; per le più o meno grandi denominazioni protestanti in Europa o oltre Oceano, per il rapporto con il cattolicesimo romano. Forse traspare di meno, vista l’imponenza della sua opera di oratore e di scrittore fecondo e dalla prosa di illuminante chiarezza e di grande vigore – come del resto i suoi discorsi, dalle lezioni accademiche alle conferenze – ma Paolo Ricca è stato un uomo di visioni e progetti. Era convinto che quando si hanno posizioni di responsabilità nella chiesa, non basta gestire al meglio l’esistente, bene operare con quel che c’è, bisogna avere «un progetto», individuare ciò che manca e cercare di costruire, sensibilizzando e mobilitando chi può sostenere l’idea, affrontando le obiezioni di chi per prima cosa vede gli ostacoli. In una vita poliedrica come la sua e vissuta con intensità in ogni sua dimensione è difficile attribuire più peso a un aspetto, ma certamente non si poteva non essere colpiti dalla sua passione per la predicazione, cioè per «dire Dio» in pubblico, parlare di Dio – e non in primo luogo di morale, di saggezza – ascoltando e ridicendo ciò che Dio dice lui, attraverso le parole della Scrittura. Ogni testo era per lui da scavare, per poi dire non l’impressione che ci ha fatto, ma ridire ciò che abbiamo udito nel corpo a corpo con una parola che viene da fuori di noi. Si trattava per lui di parlare di Dio nell’attesa fiduciosa che Dio parli e parli a noi, per noi, come aveva imparato dal suo amato Lutero. Parlare di Dio senza eludere nessuna domanda, anche scomoda, senza sottrarsi a nessuna inquietudine, a nessun dubbio, a nessuna sfida. La sua vita è stata una continua e appassionata interlocuzione su Dio, davanti a Dio, sapendo che si può contare sul fatto che Dio parla. Credo che Paolo Ricca non mi redarguirebbe se riassumessi la passione che ha mosso tutta la sua poliedrica attività e il fine che si prefiggeva, con il termine «predicazione». Che si trattasse di sondare la storia della chiesa o i grandi temi della teologia, che si trattasse di approfondimenti accademici o di divulgazione, di ecumenismo o impegno civile, di cura d’anime o di prendere sul serio alcuni interrogativi critici, il motore e lo scopo erano sempre l’ascolto del Dio che parla e del quale perciò possiamo, anzi dobbiamo, parlare. Nella tristezza per la sua scomparsa, si scopre la gratitudine per quello che ci ha dato e insegnato. Una cospicua eredità, ma anche una grande responsabilità.
Cosa significa essere valdesi, oggi
In occasione degli 850 anni dalla nascita del movimento valdese, Paolo Ricca aveva spiegato il senso della sua fede e appartenenza.
«Essere valdese, in primo luogo, vuol dire appartenere a una storia in virtù della quale io posso dirmi o dire che sono valdese. Se non ci fosse quella storia non lo potrei dire. È una storia molto particolare, come sappiamo, una storia miracolosa – si può dire, almeno io la considero tale – perché che i valdesi esistano ancora è un miracolo assoluto, per tante ragioni, non solo politiche naturalmente. Una storia di oltre otto secoli, vissuta in condizioni avverse, in mezzo a minacce, insidie, violenze di ogni genere, persecuzioni fisiche, legali, discriminazioni, esilio, ghettizzazione. Tutto è stato tentato da nemici potenti per distruggere questa piccola comunità dissidente che fin dal Medioevo ha osato costituire una comunità cristiana diversa da quella dominante, pagando un altissimo prezzo di sangue per restare fedele alla sua vocazione; è grazie a questa catena di testimoni che io posso esistere come valdese. I valdesi dovevano scomparire, come sono scomparsi tutti i movimenti religiosi analoghi non incamerati dalla Chiesa cattolica. A parte Francesco di Assisi, che a un certo punto è stato normalizzato ed è diventato quello che lui non voleva diventare, portando poi alla nascita di un ordine monastico, integrato nel sistema cattolico. Gli altri sono tutti scomparsi, tutti distrutti. Pensiamo ai catari naturalmente, che erano anche una vera altra chiesa, una vera chiesa alternativa a quella romana, a quella esistente. La storia valdese è una storia assolutamente straordinaria. È difficile capirne la sopravvivenza se non in virtù di questa fede. È l’unica spiegazione ragionevole. Una fede che è anche, bisogna ammetterlo, legata a un territorio, entro certi limiti. Senza le valli, probabilmente, i valdesi si sarebbero estinti. Sarebbero rimasti protestanti, luterani, riformati, ma come valdesi credo che esistano solo perché ci sono le valli, che sono state sì il ghetto, ma anche il rifugio e quindi il luogo di sopravvivenza dei valdesi. Purtroppo, adesso quel territorio è sempre meno caratterizzato dalla presenza valdese, per cui il futuro è molto incerto, non chiaramente delineato. Però, fino a oggi, credo che si possa dire che la sopravvivenza dei valdesi – come comunità identificabile con questo nome, molto discusso tra l’altro – è legata a un territorio, alle valli valdesi. Un territorio aspro, ingrato, buono come nascondiglio, ma difficile come luogo di sopravvivenza, di sussistenza, come luogo che ti dà il pane».
Il movimento valdese nasce da una conversione
«In secondo luogo, essere valdese per me significa cercare di diventare cristiano, perché il movimento valdese nasce da una conversione. La conversione di questo misterioso Valdo, che a un certo punto ha avuto una crisi spirituale e ha ritenuto di non poter continuare a vivere così come aveva vissuto fino a quel momento. Valdo ha rivoluzionato la sua vita, ma quella rivoluzione iniziale era solo l’inizio, perché non si finisce mai di diventare cristiani. Come valdesi non siamo più quelli che eravamo e non siamo ancora quelli che saremo, siamo cristiani in divenire. Una cosa però unifica la storia valdese: la Bibbia è la nostra bussola, la stella polare che ci fa da guida nel mare agitato della storia umana. Valdo ha fatto una scelta radicale di conversione, secondo gli schemi di quel periodo storico particolare, in cui l’ideale cristiano era anzitutto la scelta di povertà e la scelta di predicazione, cioè la scelta di dedicarsi all’annuncio cristiano, nel contesto di un popolo analfabeta che difficilmente riceveva un’istruzione religiosa cristiana solida. Era allenato magari alla ripetizione dei riti, delle cerimonie, a ripetere le frasi della messa, ma la scienza delle storie bibliche sostanzialmente non c’era. La predicazione era la vita dei santi, non la storia biblica di Antico e Nuovo testamento. Cosa vuol dire una conversione? Vuol dire che ti accorgi che non sei ancora cristiano e ti incammini in una ricerca di quello che potrebbe significare essere cristiano, ma anche quella conversione iniziale è stata solo un principio. Poi ce ne sono state altre, e questo è – credo – la chiave di lettura vera della storia valdese: non si finisce mai di essere cristiani, di diventare cristiani. Per cui noi non siamo più quelli che eravamo e non siamo ancora quelli che saremo, questo è il nodo gordiano da sciogliere. Quindi essere valdese significa essere incamminato, in divenire, verso una meta che è quella di diventare cristiani».
La scelta della Riforma
«Il terzo significato è che in questo cammino c’è stata una scelta irrevocabile, che è la scelta della Riforma. Per me essere valdese significa essere protestante. In un orizzonte ecumenico, ma protestante. La scelta della Riforma è stata un’altra tappa decisiva nel corso del cammino per diventare cristiani. Non si torna indietro, si può solo andare avanti. Andare avanti nel XXI secolo significa situare, non superare, ma situare la Riforma. Situarla in un contesto ecumenico. Cosa vuol dire? In primo luogo, significa guarire dal settarismo che minaccia tutti i gruppi umani e tutti i gruppi cristiani di qualunque tipo. Ci possono essere sette grandi, sette piccole, sette minuscole, ma lo spirito settario è universale e minaccia tutti. Nel 1532 abbiamo aderito alla Riforma – scelta molto costosa – dalla quale non si torna indietro. Cerchiamo di essere cristiani di un certo tipo, a partire da una certa esperienza e conoscenza di Dio. L’ecumenismo non è il superamento del protestantesimo, ma una sua contestualizzazione. Siamo in divenire. Stiamo diventando cristiani, dalla Riforma in avanti, non dalla Riforma indietro. Si può essere settari anche se sei la più grande realtà religiosa del mondo, eppure puoi essere settario. In secondo luogo, essere in un orizzonte ecumenico significa superare l’illusione di essere l’unico cristiano del mondo. L’idea, cioè, che non ci sono altri cristiani se non quelli che sono come te. Ci sono anche cristiani che non sono come te e questo sembra semplice, ma non lo è. Significa rendersi conto che il cristianesimo è una religione giovane, ha 2000 anni, ma è giovane perché ha una grande capacità di rinnovarsi, di contestarsi, di mettersi in discussione. Cosa che non sempre si vede in altri orizzonti religiosi contemporanei. Persino la Chiesa cattolica, attraverso il Vaticano II, effettivamente è entrata in un processo di autocritica. Innegabilmente lo stesso papato, che era l’icona della irriformabilità e irremovibilità, si sta chiedendo se non potrebbe essere qualcosa d’altro di quello che è. E anche nella Federazione delle chiese evangeliche ci si interroga su cosa significhi, da nord a sud, da oriente a occidente. Quindi il cristianesimo è capace miracolosamente di riflettere criticamente su se stesso, di porsi delle domande radicali e scomode e questo è la sua fortuna. Essere valdesi non è qualche cosa di chiuso; è qualche cosa di aperto. Chiunque può essere valdese. La storia che ci precede è fatta, non la puoi cambiare, la puoi interpretare e leggere in un modo o in un altro, ma la storia valdese del domani è quella che fai anche tu che entri in questa comunità e diventi, nel tuo piccolo, protagonista. Ciascuno, nel suo piccolo, può portare il suo contributo e rendere questa storia diversa perché – lo ripeto – siamo in divenire. Diventare valdese oggi è possibile, anzi è auspicabile. Come? Conoscendo e possibilmente amando questa storia, che è una bella storia di resistenza, di pazienza, di sofferenza, ma anche di qualche vittoria. Non è l’unica al mondo, ma è una storia che si colloca in un’ottica di movimento verso il futuro, anche di trascendenza. Un’appartenenza che va oltre i confini di questo mondo».
NEV – CHIESA VALDESE