Tentori Luca
VIVERE DA CONSACRATI IN TERRA SANTA, OGGI
2024/11, p. 14
Declinare carismi e dono di sé nei luoghi terreni di Gesù, in un tempo di conflito e in cui storia, geografia e conaca entrano con prepotenza nella vita delle comunità e dei singoli.

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Testimoni
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ESPERIENZE E TESTIMONIANZE
Vivere da consacrati in Terra Santa, oggi
Declinare carismi e dono di sé nei luoghi terreni di Gesù, in un tempo di conflitto e in cui storia, geografia e cronaca entrano con prepotenza nella vita delle comunità e dei singoli.
Diverse testimonianze di consacrate/i sono emerse nel recente Pellegrinaggio di Comunione e di Pace (13-16 giugno 2024) che ha portato 160 persone in Israele e nei territori della Cisgiordania, guidati dall’arcivescovo di Bologna. Il card. Matteo Zuppi ha voluto fortemente questa iniziativa, insieme al Patriarca di Gerusalemme dei Latini, card. Pierbattista Pizzaballa, per portare vicinanza e solidarietà ai cristiani e alle popolazioni coinvolte nel conflitto. In questo tempo di guerra, il viaggio ha assunto un volto differente dal classico pellegrinaggio in Terra Santa: insieme all’atto di fede, c’è stata la visita alle comunità cristiane e la preghiera nei luoghi santi, gli incontri con realtà israeliane e palestinesi, per condividere la sofferenza della popolazione e per offrire solidarietà e sostegno all’impegno per la pace, oltre ogni appartenenza. La preghiera si è svolta in tre luoghi santi: Getsemani, Santo Sepolcro e Basilica della Natività. In tre città: Gerusalemme, Betlemme, Emmaus.
La riconoscenza nei volti incontrati
Una ventina le associazioni, i gruppi e i movimenti ecclesiali, e non solo, che hanno aderito all’iniziativa. La raccolta fondi per un aiuto concreto alle comunità ha superato i 62mila euro. Il primo pellegrinaggio dopo i tragici fatti del 7 ottobre 2023: un invito ad andare proprio ora in Terra Santa a pregare per la pace. I numeri non dicono tutto, ma sicuramente raccontano di un programma intenso che ha portato i pellegrini ad ascoltare se stessi, gli altri e a cercare con fatica la voce e la presenza di Dio in una terra caratterizzata dalla durezza del paesaggio, dei cuori e di una realtà complessa e tragicamente sofferente. C’è riconoscenza nei volti incontrati per la visita inaspettata e di speranza in una realtà che con l’interruzione del flusso di pellegrini e turisti ha visto precipitare l’economia e aggravare, con la mancanza di lavoro, una vita già difficile. Per chi ha visitato per la prima volta la Terra del Santo, si è avvertita la sorpresa amara davanti a una condizione così difficile, quasi insopportabile dopo l’inizio della guerra. In questo nostro racconto parleremo dei consacrati e delle comunità religiose incontrate. Più domande che risposte, più testimonianze che prediche, più dubbi che certezze, più silenzi che parole, più vicinanza e presenza che promesse e ragionamenti.
Il desiderio di bene e la consegna della vita
Punto di partenza del pellegrinaggio con l’omelia al Getsemani del cardinale Pizzaballa, religioso francescano, a lungo Custode, oggi Patriarca dei Latini di Gerusalemme: «Siamo la terra dove tutti siamo chiamati, presenti per Provvidenza, non per coincidenza». La situazione in cui opera la Chiesa di Terra Santa con consacrate/i è un caleidoscopio di esperienze e vissuti. «Gran parte dei nostri fedeli sono di lingua araba – ha spiegato Pizzaballa – e alcune comunità di lingua ebraica. Abbiamo i lavoratori stranieri e i loro figli, abbiamo la comunità internazionale. Contiamo cristiani a Gaza che sono sotto le bombe e cristiani cattolici nell’esercito. Si incontrano comunità di espressione araba, che ti raccontano una realtà e gli incontri con quelle di estrazione ebraica che dicono esattamente l’opposto. Siamo dunque in una Chiesa dove la diversità è molto presente. Abbiamo avuto componenti della comunità cristiana di Gaza che sono morti sotto le bombe e anche lavoratori stranieri cristiani che in Kibbutz il 7 ottobre sono stati uccisi e altri rapiti. La Chiesa non è fuori, siamo totalmente immersi dentro questa situazione». I singoli cristiani, le comunità e ancor di più i consacrati sono chiamati a «ricordare». «La Chiesa – ha sottolineato il cardinale Pizzaballa – in questa situazione deve ricordare a chi apparteniamo, a quell’uomo che qui ha detto “Come vuoi tu”. Ha consegnato la sua vita nelle mani del Padre e ha accettato il tradimento perché aveva una fiducia totale in Dio che accompagna e che guida la storia, sempre». «Abbiamo perso tutto – ha detto riferendosi ad alcune testimonianze raccolte a Gaza – non abbiamo più nulla su cui investire: ci rimangono le persone. Dobbiamo ripartire dalle nostre relazioni e su quello che siamo: ci rimane soltanto la nostra fede e il nostro desiderio di rimanere qui, da cristiani, per ricostruire la nostra vita. Nelle nostre comunità ci sono persone che avrebbero tutto il diritto di essere arrabbiate con la vita, perché hanno perso tutto, e ci sono persone che ci insegnano in maniera molto concreta, molto reale, che è ancora possibile oggi, dentro le più drammatiche situazioni, avere il desiderio di bene e sapere consegnare la propria vita al Signore sapendo che quando la vita è consegnata a Dio non è perduta».
Perché Dio tace? Perché non salva l’innocente?
Prima della partenza del viaggio anche suor Maria Chiara Ferrari, una Piccola Sorella di Gesù, che vive a Gerusalemme da molti anni, ha aiutato i pellegrini a capire cosa si sta vivendo in Terra Santa e come alcuni consacrati si mettono a disposizione. «C’è l’incertezza totale per il futuro – ha detto suor Maria Chiara – e la precarietà sempre più forte del presente. Questo contribuisce a formare un sentire collettivo di paura e apprensione, angoscia e a volte disperazione. E anche per molti il sentirsi persi, disorientati (a torto o a ragione), quasi prigionieri tra due forti realtà, Israele e l’Islam». Nello specifico, per i poveri e per chi ha perso il lavoro, per chi non sa come sfamare la famiglia o far studiare i figli, la situazione e le previsioni sono estremamente pesanti e oscure. Le domande convergono infine per tantissimi sul «partire o restare». E per chi non ha altre soluzioni che rimanere, il senso di impotenza aumenta. È in questo contesto che le religiose sono chiamate a operare sia materialmente che spiritualmente. «Credo che la domanda su Dio in questi mesi – ha spiegato ancora suor Ferrari – abbia toccato un po’ tutti, cristiani e non. La domanda è la stessa: perché Dio tace? Perché non salva l’innocente? Mentre il mondo prega in ginocchio per la pace, dov’è Dio?».
Il cuore non può essere neutrale
«C’è disorientamento. La gente sente spesso il linguaggio della Chiesa molto lontano dalle vere domande, o con risposte troppo facili di fronte al dolore, alla morte, all’ingiustizia, alla tragedia in atto. Se non si entra nel “tunnel senza luce” che la gente sta attraversando, non si può comprendere e nemmeno si trovano le parole da dire. Ma bisogna anche constatare che soprattutto nella gente semplice è molto toccante il senso di abbandono a Dio nell’avversità, la fede che ci fa sentire nelle sue mani, qualunque cosa accada». Si riesce in una situazione di conflitto così complessa ad avere empatia e compassione per le sofferenze di entrambi i popoli? «Non credo molto a chi si situa al di sopra o in mezzo alle parti, con l’illusione o la presunzione di non essere toccato personalmente da quanto succede; a quelle forme a volte un po’ carismatiche di predicare l’amore universale o il perdono e la riconciliazione. Parlarne qui senza avere a volte la minima idea di cosa c’è dentro le persone. Rimangono spesso parole in aria. Anche per noi stranieri che viviamo a Gerusalemme c’è questo rischio di un cristianesimo a poco prezzo. Ma sono convinta che qui, chi non ha il cuore lacerato, chi si rifugia magari nella sua opera, nella sua missione, e non si lascia raggiungere o compromettere dalle grida e dalle lacrime dei suoi vicini, chiunque essi siano, israeliani o palestinesi, non ha il diritto di parlare di pace, di compassione, di solidarietà. Bisognerebbe anzitutto riconoscere che non possiamo stare contemporaneamente dalle due parti, che fisicamente siamo già situati di qua o di là, e che il nostro cuore non può essere neutro. E da lì iniziare il viaggio senza fine verso l’altro. Perché quello è il vero pellegrinaggio. Allora durante il viaggio potremo prendere coscienza della nostra stessa violenza, dei nostri compromessi o delle nostre paure, chiusure, o delle nostre ideologie, spesso più convincenti della stessa realtà e dell’evidenza […] e tutto questo diventa materiale di lavoro su noi stessi, per la progressiva liberazione, conversione, apertura degli occhi del nostro cuore, in viaggio verso l’altro. Solo chi è davvero libero può allora riconoscere l’ingiustizia e condannare il male, con amore. Ma non può essere solo lavoro nostro, è essenzialmente lavoro di Dio in noi».
Prudenza con gli uomini e fiducia in Dio
«Grazie a Dio un gruppo di pellegrini è arrivato in Terra Santa! – ha esclamato il Custode di Terra Santa p. Francesco Patton, nell’intervista rilasciata ai media della diocesi di Bologna –. Sia i frati della Custodia sia i cristiani locali hanno bisogno di sentire la vicinanza dei cristiani che vengono qui come pellegrini. Nel momento in cui mancano i pellegrini non solo manca una vicinanza fraterna, ma anche un qualcosa di concreto che è la possibilità di vivere dignitosamente del proprio lavoro». Nei luoghi santi e nei santuari i frati hanno vissuto questi lunghi mesi di guerra come dei monaci, come al tempo del Covid. Hanno bisogno della vicinanza dei pellegrini che vengono in Terra Santa con un senso di fraternità e condivisione della fede. «La raccomandazione che do ai miei frati – ha proseguito il Custode – è quella di ricordare il mandato che abbiamo ricevuto nel 1342 da papa Clemente VI: dimorare nei luoghi Santi, vivere nei santuari in modo tale che siano luoghi vivi; celebrare Messe cantate e liturgie, cioè continuare a pregare perché si celebri un qualche aspetto del mistero della rivelazione, dell’incarnazione e della Redenzione, un necessario atteggiamento di preghiera; e infine essere una comunità internazionale, quasi come segno che in Terra Santa ci deve essere sempre la Chiesa della Pentecoste. Noi dobbiamo avere fiducia nel Signore. Queste indicazioni sono di una straordinaria attualità ancora oggi. Questi tempi terribili dal punto di vista anche economico, vanno valorizzati diversamente dal punto di vista della comunità e della fraternità». In un contesto così precario l’indicazione è ancora di più per i religiosi per uno stile di vita sobrio, pensando ai cristiani locali che vivono al loro fianco. Un’altra virtù da tenere presente è quella della prudenza. «Dobbiamo essere prudenti con gli uomini – ha concluso p. Patton – ma allo stesso tempo dobbiamo avere fiducia in Dio. Papa Paolo VI diceva che per Divina Provvidenza i frati sono qui in Terra Santa. Siamo qui da otto secoli e siamo sempre rimasti anche quando tutti gli altri scappavano».
LUCA TENTORI, giornalista