Messa Pietro
Il perdono secondo frate Francesco
2024/11, p. 12
Francesco è ben consapevole che perdonare non è né scontato né facile.

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DALLA REGOLA NON BOLLATA
Il perdono secondo frate Francesco
Francesco è ben consapevole che perdonare non è né scontato né facile.
Pur sapendo leggere e scrivere, Francesco più di una volta nei suoi scritti, come ad esempio nella Lettera a tutto l’ordine, si definisce «ignorans et idiota», ossia ignorante e illetterato, cioè non acculturato. E così è anche il suo pensiero nel quale vi è una modesta cultura biblica e teologica nella cui formazione un ruolo non secondario hanno avuto la liturgia e le altre funzioni sacre; naturalmente senza che venisse meno il suo strato culturale più profondo cioè quello di figlio del mercante assisano Pietro di Bernardone.
Ecco allora nella Regola non bollata che il Signore è «il bene pieno, ogni bene, tutto il bene, vero e sommo bene, che solo è buono» e come scrive nelle autografe Lodi al Dio altissimo composte a la Verna nel 1224 egli è «il bene, ogni bene, il sommo bene» «al quale appartiene ogni bene». Pertanto, tutti devono cercare «di non gloriarsi, né godere tra sé, esaltarsi dentro di sé delle buone parole e delle opere, anzi di nessun bene che Dio fa o dice e opera talvolta in loro e per mezzo di loro». Al contrario esorta: «E restituiamo al Signore Dio altissimo e sommo tutti i beni e riconosciamo che tutti i beni sono suoi e di tutti rendiamo grazie a lui, dal quale procede ogni bene […] poiché suo è ogni bene ed egli solo è buono». Pertanto, è «beato il servo che restituisce tutti i beni al Signore Iddio» e non «riterrà qualche cosa per sé».
C’è da seguire il comando del Vangelo secondo Matteo 5,44 «Amate i vostri nemici e fate del bene a quelli che vi odiano» amando «il Signore Iddio […] che ogni bene fece e fa a noi miserevoli e miseri, putridi e fetidi, ingrati e cattivi». La via da percorrere è di non attribuire nulla a sé ma restituire tutto «con la parola e con l’esempio all’altissimo Signore Dio, al quale appartiene ogni bene». Infatti, appropriarsi di quanto ricevuto e quindi esaltarsi «per i beni che il Signore dice e opera» è comportarsi da ladri e in ciò consiste il peccato. Essendo quest’ultimo un’appropriazione indebita vi sono le debite conseguenze; così, come avvenne per Adamo, «colui che si appropria la sua volontà e si esalta per i beni che il Signore dice e opera in lui […] per suggestione del diavolo e per la trasgressione del comando bisogna […] che ne sopporti la pena». Al contrario è «servo fedele e prudente colui che di tutte le sue mancanze non tarda a punirsi interiormente per mezzo della contrizione, ed esteriormente con la confessione e con la soddisfazione delle opere».
Nella seconda redazione della Lettera ai fedeli mediante l’esempio del moribondo impenitente Francesco richiama il dovere di riparare, attingendo ai propri beni, quelle cose per le quali si è «defraudato e ingannato gli uomini»; quindi il perdono implica non solo la remissione della colpa ma anche un atto riparatorio per il danno causato.
Seguire le orme di Gesù vivendo secondo la forma del Vangelo allora è non appropriarsi di alcun bene ma restituirlo per dono al fratello anche quando è ostile. Nella Lettera a un ministro – dal profondo connotato autobiografico essendo la situazione del destinatario simile a quella vissuta da Francesco che fu respinto dai frati sapienti e intelligenti nel racconto Della vera letizia – esorta a «ritenere come una grazia» «quelle cose che ti impediscono di amare il Signore Iddio, e ogni persona che ti sarà di ostacolo, siano frati o altri, anche se ti percuotessero». Il comando è perentorio cioè «non ci sia mai alcun frate al mondo, che abbia peccato quanto poteva peccare, il quale, dopo aver visto i tuoi occhi, se ne torni via senza il tuo perdono misericordioso, se egli lo chiede; e se non chiedesse misericordia, chiedi tu a lui se vuole misericordia».
Se ogni bene viene dal Signore, nella Regola non bollata ribadisce che si deve desiderare e volere «il Creatore e Redentore e Salvatore nostro, solo vero Dio […] dal quale e per il quale e nel quale è ogni perdono» (Fonti francescane, 2011, 70). Ecco che nella Parafrasi del “Padre nostro” s’innalza l’invocazione: «Come noi li rimettiamo ai nostri debitori: e quello che noi non rimettiamo pienamente, tu, Signore, fa’ che pienamente perdoniamo, cosicché, per amor tuo, amiamo sinceramente i nemici e devotamente intercediamo per loro presso di te, non rendendo a nessuno male per male e impegnandoci in te ad essere di giovamento in ogni cosa».
Francesco è ben consapevole che perdonare non è né scontato né facile ed ecco che al comando evangelico fa seguire una eventuale gradualità nel caso di difficoltà relazionali: «E amiamo i prossimi come noi stessi. E se qualcuno non vuole amarli come se stesso, almeno non arrechi loro del male, ma faccia del bene». Similmente riguardo a un peccatore nella Lettera a un ministro esorta «tutti i frati, che fossero a conoscenza del suo peccato, non gli facciano vergogna né dicano male di lui, ma abbiano grande misericordia verso di lui e tengano assai segreto il peccato del loro fratello». Pure a livello istituzionale nella Regola non bollata e successivamente nella Regola bollata tale aspetto è presente ed elaborato: così la correzione fraterna diventa l’aspetto primario e centrale.
Il perdono a livello sociale
Anche a livello sociale si riverbera tale decisione; così – secondo quanto riferisce la Compilazione di Assisi – nel Cantico delle creature alla strofa dell’infermità l’autore inserì, quando ormai malato seppe dello scontro fra il vescovo Guido e il podestà assisiate, il versetto di lode per coloro che «perdonano per lo tuo amore». Le narrazioni agiografiche poi riportano vari episodi di perdono, così Tommaso da Celano nel Memoriale narra di san Francesco che riconciliò la città d’Arezzo devastata da lotte intestine. Più conosciuto è quello narrato da I Fioretti ambientato a Gubbio dove il santo ammansì un lupo; accurati studi ipotizzano con fondamento che il feroce animale non rappresenti tanto una singola persona – quale ad esempio un tiranno – ma un intero gruppo sociale; certamente si tratta di una narrazione tarda ma che ha origine in accadimenti coinvolgenti i Minori e la loro presenza efficace nella riconciliazione delle conflittualità sociali. In una delle più antiche raffigurazioni di questo episodio, ossia quella presente a Pienza, san Francesco con la sinistra tiene la zampa del lupo e con la destra la mano di un rappresentante della popolazione impaurita. Ci si sarebbe aspettati che grazie all’azione dell'Assisiate i due contendenti ossia l’animale famelico e la gente si stringessero le mani tra loro, ma il dipinto con grande realismo mostra che in quel momento tale riconciliazione non è ancora possibile. C’è bisogno di un intermediario, ossia un pacere come i frati Minori che facendosi mezzani ottengono la fiducia di entrambi e danno avvio a un processo onde sostituire le strutture distruttive del peccato con quelle della pace.
In epoca moderna il termine perdono sarà abbinato alla città di Assisi denominando con tale termine l’indulgenza della Porziuncola che secondo le fonti papa Onorio III ha concesso a san Francesco per la Porziuncola.
PIETRO MESSA, ofm
docente di Storia del francescanesimo
presso la Pontificia Università Antonianum