Quando le culture provano a fare pace
2024/11, p. 9
Il mondo in una stanza.
Quando le culture provano a fare pace… in carcere.
Il libro Vivere senza la chiave, dialoghi tra carcere e città porta il mondo in una cella e da questa cella, cerca di dire parole utili al mondo.
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TESTIMONIANZE
Quando le culture provano a fare pace
Il mondo in una stanza. Quando le culture provano a fare pace… in carcere
Il libro Vivere senza la chiave, dialoghi tra carcere e città porta il mondo in una cella e da questa cella cerca di dire parole utili al mondo.
Giuseppe e i suoi fratelli è un testo nato per il teatro, scritto nel villaggio palestinese dove vivo da molti anni e concepito la notte del 7 ottobre 2023, l’inizio della Grande Strage, che da un anno ci accompagna…e nessuno di noi sa fino a quando. È stato pubblicato da Zikkaron in Vivere senza la chiave, dialoghi tra carcere e città, un’opera che raccoglie i testi da me scritti in questi anni, per mostrare come in una minuscola cella di carcere abiti il mondo, il mondo in una stanza: il primo era Leila della tempesta, portato in scena da Alessandro Berti e Sara Cianfriglia. Poi Simeone e Samir, dialoghi notturni tra un cristiano e un musulmano in fuga, interpretato ancora da Alessandro Berti insieme a Sergio Brenna. Quindi Aspettando Giona, un profeta per la vita della città, che da Lampedusa ha camminato per l’Italia sulle gambe di Alessandro e Olivia Castellucci e il trio musicale diretto da Manuel Buda. Infine, Joseph&Bros, adattamento teatrale di Giuseppe e i suoi fratelli, che ha iniziato a girare con l’edizione 2024 del Festival Francescano di Bologna, di nuovo grazie alla collaborazione con Berti.
La questione israelo-palestinese in una cella
La pièce mette in scena l’incontro tra mondi apparentemente lontani per provenienza etnica, religiosa, culturale e sociale, nello spazio minuscolo di una cella di carcere, dove tre uomini trascorrono i lunghi anni della detenzione inflitta per le rispettive colpe: il siciliano Salvo, killer di mafia, cattolico di provata pietà; Ahmad, trafficante di droga, devoto musulmano, tunisino di origini palestinesi; Gadi, omicida per una sera, imprenditore e intellettuale acuto, di stirpe ebraica. Poi c’è Samuel, anch’egli ebreo, con il quale comunicano a distanza: un innocente tradito dalle persone più intime, che paga per ciò che non ha commesso. Sullo sfondo del famoso episodio biblico di Genesi 37-45 (il patriarca ebreo tradito dai fratelli e gettato in carcere), si riflette sulla fratellanza intesa come risorsa e limite, opportunità e ostacolo; sulla violenza fratricida, che nasce dal cuore e si riversa nella piccola storia delle relazioni personali e da lì nella Grande storia delle relazioni tra i popoli. Ancora sulla (im)possibilità di dare e ricevere il perdono, e in virtù di questo perdono, che è in sostanza riconoscimento dell’Altro, rinascere oltre il tradimento e la violenza. L’apice del dramma è costituito dalla «esplosione» del nodo israelo-palestinese nei dieci metri quadrati della cella. Come lo gestiscono i protagonisti? Come lo sciolgono? Lascio a chi legge queste righe il gusto di scoprirlo.
Il carcere laboratorio di una società plurale
La trama, gli eventi e i dialoghi del testo sono frutto di una elaborazione letteraria basata su un intenso lavoro di documentazione, svolto mediante numerosi scambi orali ed epistolari. Questo testo, dunque, non nasce da un «soliloquio» dell’autore, ma come un intenso dialogo tra voci diverse, ognuna con la sua sensibilità, le sue conoscenze, le sue luci e le sue ombre. Un coro che, apparentemente in modo paradossale, canta in una cella di carcere. Centralità del carcere, dunque, come dimensione profonda della vita umana. In Italia ci sono circa 60mila persone detenute, un terzo provenienti dall’estero, di cui metà circa sono di fede musulmana. Il carcere è dunque un mosaico di popoli, culture, fedi. Può così essere laboratorio di una società plurale, che è la sfida di questo secolo, da affrontare sulle tracce della Carta più bella del mondo, come spesso viene definita la Costituzione italiana. È sull’orizzonte di questa sfida che ho fatto il mio ingresso in carcere, una quindicina di anni fa, come volontario «destinato» in particolare al rapporto con persone di fede islamica, uomini e donne. Lo studio dell’arabo e dell’islam, i tanti anni trascorsi in Medio Oriente, mi davano una certa preparazione di fondo per potere dialogare nella lingua del Corano, punto di accesso privilegiato alla vita delle persone, alla loro cultura e alla loro spiritualità. Ne ho ricevuto un arricchimento enorme, che ho iniziato a restituire attraverso la scrittura di saggi e articoli, la realizzazione di docufilm, infine la composizione di testi per il teatro.
Il detenuto non è un reato che cammina
Il crimine come emersione e deflagrazione dei problemi che attraversano in profondità le nostre vite, individuali e collettive. Pensiamo ad esempio alle sezioni del carcere dove sono concentrate, in massima parte, persone detenute per traffico di stupefacenti. Una vera folla di uomini, spesso giovanissimi, nella quale vediamo riflessa l’immagine di un’altra folla, ben più gigantesca: quella dei giovani (e meno giovani) che hanno bisogno di sostanze per distendersi e sognare, oppure per eccitarsi e far sognare. Quando spacciatore e cliente sono presi in flagrante, entrambi vengono condotti in caserma: il primo è trattenuto, il secondo rilasciato dopo i controlli di rito. Sono i due lati della stessa medaglia. La legge riserva loro due sorti diverse, ma il problema sottostante è identico, ed è un nostro problema. Quando accediamo alla sezione dell’Alta Sicurezza, spostandoci da una zona del carcere che risuona dei dialetti nordafricani a quella dove si sentono tante parlate del sud Italia (in particolare, ma non solo), non siamo catapultati su Marte, un pianeta lontano e sconosciuto. La mafia, nelle sue varie declinazioni, è un altro pezzo di noi, poiché esprime al livello più alto ed eversivo un’inclinazione serpeggiante nel ventre della nostra società: «lo stato nello stato». Quando poi ci viene aperto il cancello della sezione dei «protetti», separati dal resto della popolazione carceraria che li bolla come «infami», e incrociamo gli sguardi dei sex offender e dei pedofili, anche lì non entriamo in contatto con la «mostruosità assoluta», estranea alle nostre vite «normali», ma con i nodi irrisolti dei rapporti di genere, i grovigli dell’affettività e della sessualità, nuovamente cose cruciali per l’equilibrio di ciascuno di noi.
La cella cerca di dire parole utili al mondo
Quando infine incontriamo le persone condannate per il reato singolo del «maledetto pomeriggio», quelle che forse non avevano mai preso neppure una multa per infrazione del codice della strada e che «improvvisamente» e «inspiegabilmente» hanno attentato alla vita di un famigliare, di un vicino, di un collega di lavoro, magari di un antico amico, fremiamo interiormente, nella percezione oscura e paurosa che potremmo essere al posto loro. Perché no? Io che scrivo, per primo, poi ciascuno di quelli/e che stanno leggendo queste righe. Ma nessuna persona detenuta è un reato che cammina. Nessuno è riducibile a ciò per cui è stato condannato. Quando in un parlatorio del carcere ci sediamo di fronte a una persona, anche quella condannata per i crimini più efferati, quelli per cui si grida «buttate via la chiave», bastano pochi minuti per rendersi conto che il suo orizzonte esistenziale è ben più vasto del perimetro descritto dagli articoli del Codice penale che gli sono stati contestati. C’è tutta una storia, una biografia personale altra, estranea al crimine, persino quando si dipana parallelamente al crimine. In questa biografia intravediamo pezzi della Grande Cultura, che definisco come ciò che ti rimane quando hai dimenticato tutto: letture, musiche, immagini, racconti orali, memorie d’incontri, impressioni di vita e di morte, che nel limbo della vita ristretta si sedimentano e sono capaci di produrre nuove straordinarie intuizioni. Magari difficili da verbalizzare, ma comunque presenti e in attesa di chi le sappia attingere. La persona in catene, anche la più indotta, ha molto da insegnare. Giuseppe e i suoi fratelli è in quest’onda di idee: porta il mondo in una cella e da questa cella cerca di dire parole utili al mondo.
IGNAZIO DE FRANCESCO,
monaco della Piccola Famiglia dell’Annunziata,
si occupa di letteratura cristiana antica
e di fonti ascetiche islamiche.