Amare il mondo musulmano per Cristo
2024/10, p. 25
Il cuore di un viaggio in Siria (cf. Testimoni 9) è sicuramente l’incontro
con la Comunità monastica di Deir Mar Musa nel villaggio di Nebek, per portare avanti il carisma che ha lasciato il fondatore, il gesuita padre Paolo Dall’Oglio. Riportiamo il dialogo fraterno intessuto con l’attuale superiore p. Jihad Youssef. Nel monastero si vive con la mano sempre tesa verso il mondo islamico, con l’obiettivo di costruire ponti di armonia, testimoniando che vivere insieme e in pace tra «diversi» non è solo possibile ma anche bello.
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INTERVISTA
Amare il mondo musulmano per Cristo
Il cuore di un viaggio in Siria (cf. Testimoni 9) è sicuramente l’incontro con la Comunità monastica di Deir Mar Musa nel villaggio di Nebek, per portare avanti il carisma che ha lasciato il fondatore, il gesuita padre Paolo Dall’Oglio. Riportiamo il dialogo fraterno intessuto con l’attuale superiore p. Jihad Youssef. Nel monastero si vive con la mano sempre tesa verso il mondo islamico, con l’obiettivo di costruire ponti di armonia, testimoniando che vivere insieme e in pace tra «diversi» non è solo possibile ma anche bello.
P. Jihad parla con pacatezza e con empatia. Egli inizia ricordando che «p. Paolo D’Oglio decide di venire in questa terra perché, nel discernimento in preghiera, capisce che il Signore lo chiama a incontrare l’Islam. Studia l’arabo in Libano, successivamente studia l’Islam con i musulmani, in particolare con coloro che si preparano a diventare “imam” (guida religiosa). Fa il giro delle chiese cristiane per scegliere in quale inserirsi come sacerdote. Gli venivano le lacrime quando assisteva alla Messa di rito bizantino. Paolo alla fine sceglie la chiesa siriaca perché ha lo stile più semplice: diventa dunque sacerdote siro-cattolico. A un certo punto chiede di poter trascorrere dieci giorni in un luogo adatto al silenzio. Viene qui a Mar Musa e trova che il monastero era in rovina, la chiesa non aveva il tetto e non c’era il pavimento. Scruta gli affreschi nella chiesa e i volti dei personaggi che sembrano chiedergli: “Chi sei? Cosa vieni a fare in questo luogo?”. Poi si reca in una grotta, salendo si fa male a un piede e grida “O Dio!” in arabo, tanto l’arabo era diventato parte di sé! Il Signore gli fa capire che questo monastero può diventare un luogo di incontro tra musulmani e cristiani (siamo nel 1982). Nel 1984 Paolo inizia il ‘viaggio del restauro’ che va avanti fino al 1991: ogni estate veniva con seminaristi siriani, libanesi, europei. Tra questi c’era Jacques, che poi è diventato il nostro vescovo. Dal 1992 Paolo e Jacques hanno iniziato la vita monastica. Nello stesso anno hanno fatto il noviziato e poi, piano piano, sono arrivate le sorelle e i fratelli. Oggi siamo sette membri professi, quattro monache, un novizio e un postulante, di varie appartenenze cristiane o provenienti da famiglie non cristiane. Un Natale, in meditazione di fronte al presepe, la nostra comunità comprende che la Madonna chiede di dedicare un’ora al giorno alla meditazione. Siamo una comunità di uomini e donne peccatori perdonati che vivono nel deserto, dove non c’è nulla ma dove si può incontrare Dio. Non siamo una comunità contemplativa».
Ospitare nel nome di Dio e ospitare Dio nelle persone
«Il nostro mandato – continua p. Jihad – è quello di Cristo che ci dice “andate e amate il mondo musulmano per me”. Tre cose contano per noi: l’assolutezza della vita spirituale: Dio solo basta; la sufficienza di Dio che nella nostra vita riempie ogni attesa (psicologica e affettiva); il lavoro manuale e l’ospitalità. In questo senso comprendiamo che c’è un partenariato tra Dio che crea l’universo e l’essere umano che lo custodisce. Quindi, bisogna trattare con rispetto il creato. Non siamo autosufficienti e non ci vergogniamo di chiedere aiuto, di mendicare. Ci aiutano fondazioni cristiane in Europa e anche fondazioni non cristiane. Questo vuol dire sviluppare progetti e darne rendicontazione. Viviamo nella semplicità della vita di Gesù a Nazaret. Abbiamo vissuto anche situazioni spiacevoli come quando nel 2002 ci hanno rubato 103 capre. Nonostante tutto, crediamo nell’ospitalità sacra abramitica: Abramo è il padre spirituale delle tre religioni monoteiste, è l’uomo della semplicità. Nel libro della Genesi al capitolo 18 leggiamo che nei tre ospiti che lo visitano Abramo scopre Dio stesso. In cambio Abramo offre a Dio il figlio Isacco. Poi intercede per le città di Sodoma e Gomorra, cominciando a mercanteggiare con un Dio che egli vuole più misericordioso! Quelle due città non erano abitate da ebrei: Abramo, dunque, intercede per lo straniero. Nel monastero la nostra ospitalità comincia con un bicchiere d’acqua, con un tè e finisce con la preghiera. Ogni ospite ci porta Dio: ospitiamo nel nome di Dio e ospitiamo Dio nelle persone».
La curiosità di scoprire l’altro
«In questo monastero preghiamo per l’unità della Chiesa, dei cuori e delle celebrazioni eucaristiche; preghiamo per i patriarchi delle chiese cattoliche, ortodosse e per i responsabili delle chiese protestanti. L’orizzonte è il nostro obiettivo: più cammini verso l’orizzonte più esso sfugge. Nell’amicizia arabo-cristiana non c’è un punto di arrivo, si tratta di un cammino verso una linea che ci attira tutti. Ci vuole la curiosità positiva di scoprire l’altro. Facciamo fatica con la nostra certezza dogmatica ad andare verso l’altro, lo Spirito invece soffia dove vuole. Andiamo verso l’Islam con tanto desiderio di imparare in una terra che ha sofferto molto, dove c’è una memoria collettiva molto ferita. Il nostro dialogo non mira a convertire i fratelli musulmani. Non facciamo proselitismo, ci basiamo su ciò che ci accomuna, diventando amici e riconoscendo Dio nell’altro. La guerra ci ha spinto a realizzare vari progetti di aiuto a studenti delle scuole e delle università, ai poveri che bussano alla porta. Ci siamo attivati anche sul versante dell’assistenza medica. Viviamo nella speranza che chi giunge in questo luogo non sia contro l’Islam».
La credibilità di un carisma fuori dal comune
Mentre i membri della Comunità accoglievano altri visitatori e approntavano una sobria mensa, p. Jihad ha acconsentito a rispondere ad alcune domande. A chi gli chiedeva come sia nata la sua vocazione afferma con semplicità: «Sono figlio unico di una coppia maronita. La mia è una famiglia molto semplice di contadini analfabeti. Quando ho sentito che Cristo mi stava chiamando in questo luogo, la mia famiglia non era d’accordo, desiderava che continuassi gli studi. Ho continuato gli studi e poi sono venuto qui». In ultimo, il superiore ha affrontato il tema spinoso di come i monaci si pongono verso coloro che non accolgono il loro messaggio: «Io sono venuto qui nel 1996 come ospite, poi stabilmente nel 1999. Sin dall’inizio ho avvertito la difficoltà della chiesa locale ad accogliere il nostro carisma. Finchè restauravamo il monastero, la chiesa locale era d’accordo, ma quando ha capito con quale intento lo facevamo voleva buttarci fuori. P. Paolo Dall’Oglio è stato accusato di essere una spia dell’Occidente. Ci sono stati però dei musulmani che lo hanno sostenuto. Tra i musulmani chi mostrava una certa disponibilità veniva all’inizio con tanta prudenza, con scetticismo; poi, dopo l’esperienza fatta insieme, tornava portando con sé la famiglia. Quando l’altro si sente a casa torna volentieri. Attraverso gli anni questo stile ha trovato credibilità: il risultato dell’incontro è stato positivo».
a cura di MARIO CHIARO