IL PADRE
2024/10, p. 9
Credo in un solo Dio, Padre onnipotente, creatore del cielo e della terra, di tutte le cose visibili e invisibili.
Accedi alla tua area riservata per visualizzare i contenuti.
Questo contenuto è riservato agli abbonati a
Testimoni
.
SPECIALE GIUBILEO
Il Padre
Credo in un solo Dio, Padre onnipotente, creatore del cielo e della terra, di tutte le cose visibili e invisibili.
Non è strano che il sentimento religioso rivolga un pensiero a Dio come ad un padre. Nonostante alcune considerazioni legate ai limiti di questa immagine e di questa terminologia – saranno sviluppate in un prossimo articolo – la figura del padre evoca contemporaneamente un senso di origine e un senso di protezione. In qualche modo essa riprende così quel sentimento di creaturalità che R. Otto ascrive all’esperienza del sacro in quanto tale. In senso secondario, viene a collegarsi con un bisogno e una ricerca di regolarità nelle inconsistenze del tempo, tanto che Zeus, pur essendo mitologicamente l’ultimo dei suoi cognati, ottiene unanimemente il titolo di «padre degli dei» proprio per la sua capacità di sfuggire all’onda di Chronos e di portare ordine nel caos. Il rifiuto di accettare tale terminologia nell’islam dovrebbe in questo senso essere considerata una reazione alla tradizione giudeo-cristiana – in particolare la terminologia legata alla dogmatica cristiana – e non certamente la negazione della fontalità di Dio.
La tradizione ebraica
Al contrario, nella tradizione spirituale ebraica l’appellativo a Dio come padre appare piuttosto evidente, sia in riferimento alla creazione, sia in riferimento all’elezione di Israele. Mirabilmente le due tematiche sono unite in Sal 103,13-18:
Come è tenero un padre verso i figli,
così il Signore è tenero verso quelli che lo temono,
perché egli sa bene di che siamo plasmati,
ricorda che noi siamo polvere.
L’uomo: come l’erba sono i suoi giorni!
Come un fiore di campo, così egli fiorisce.
Se un vento lo investe, non è più,
né più lo riconosce la sua dimora.
Ma l’amore del Signore è da sempre,
per sempre su quelli che lo temono,
e la sua giustizia per i figli dei figli,
per quelli che custodiscono la sua alleanza
e ricordano i suoi precetti per osservarli.
Da una parte, il brano prende spunto dalla fede nella creazione; l’essere umano – qui evidentemente sintesi di tutto il creato – è stato plasmato «con polvere del suolo», ma ha vita da colui che è fonte di vita (cf. Gen 2,7). Dall’altra, il legame di figliolanza viene ulteriormente declinato come rapporto di alleanza; potremmo dire che il popolo eletto – potremmo suggerire che anche qui sia sintesi di tutto il creato – significa questo legame con Dio riconoscendone la paternità nella sua Provvidenza. Una preghiera ebraica molto antica, recitata tra l’altro a RoshHaShannah e Yom Kippur, Abinu Malkeinu, collega fin dal suo inizio la paternità di Dio e il suo Regno. Secondo la recensione del Talmud essa recita: «Padre nostro, nostro re, non abbiamo re diversi da te. Padre nostro, nostro re per amor tuo, abbi pietà di noi» (Ta’anit 25b). In particolare, in tale versione, la preghiera ha efficacia perché legata ad un’esperienza di perdono. Akiva, che propone la preghiera, viene ascoltato non perché più grande di altri rabbini (in questo caso di Eliezer), ma perché capace di perdono, mostrandosi in tal modo – è una mia glossa – figlio di colui che opera il perdono.
La tradizione cristiana
Al centro del ministero di Gesù si trova l’annuncio del regno di Dio, annuncio che lui opera attraverso la sua predicazione e attraverso la sua opera (cf. DV 2 e 4). È un annuncio escatologico di rinnovamento e riconciliazione che trae origine nella spiritualità ebraica di Gesù; difatti, la terminologia con la quale ci si rivolge(va) quotidianamente a Dio viene utilizzata anche da Gesù: ‛abba’, l’appellativo con il quale gli adulti ebrei si rivolgevano sia al proprio padre naturale che a Dio.
È in questa profonda spiritualità che Gesù radica l’evangelizzazione che lo vede primo protagonista. Ne fa fede la preghiera personale di Gesù alla quale possiamo collegare non solo i momenti più decisivi della sua vita (cf. Mc 3,13; 9,2-8; 14,32-42; 15,34), ma anche la quotidianità del suo cammino (cf. Gv 6,15; Lc 5,16). Allargando il discorso, possiamo dire che egli vive in questa relazione personale, orante, continua con Dio, il Padre. Come hanno già notato molti, «l’espressione abbà non dice che Gesù ha preso le distanze dal Dio d’Israele, ma al contrario la sua conscia professione di fede in quel Dio che non esige sottomissione come Zeus, ma ha condotto il suo popolo fuori «dalla terra d’Egitto, dalla condizione servile» (Gs 24,17).
Ai discepoli Gesù insegna a vivere in questa relazione e lo rende loro criterio di discernimento: «State attenti a non praticare la vostra giustizia davanti agli uomini per essere ammirati da loro, altrimenti non c’è ricompensa per voi presso il Padre vostro che è nei cieli» (Mt 6,1). In modo simile alla dinamica che abbiamo sottolineato a proposito dell’Abinu Malkeinu, quanti camminano nella via di Gesù sono invitati ad essere «misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso» (Lc 6,36). Che, tuttavia, questo non renda più semplice la vita, lo si intende quando tale riferimento e tale legame viene evocato all’interno dei momenti più tragici della vicenda di Gesù: «Abbà! Padre! Tutto è possibile a te: allontana da me questo calice!» (Mc 14,36), un grido – tra l’altro – rimasto paradossalmente inascoltato.
Quando i discepoli chiedono che venga loro insegnata una preghiera, la proposta di Gesù rimanda e ripropone parole che sono capaci di evocare simbolicamente tutta questa esperienza, compresa la tentazione escatologica e finale: «Padre nostro che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome; venga il tuo regno; sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra. Dacci oggi il nostro pane quotidiano, e rimetti a noi i nostri debiti come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori, e non abbandonarci alla tentazione, ma liberaci dal male» (Mt 6,9-13; Lc 11,2-4; Did VIII,2-3).
Questa particolare modalità di legarsi a Dio, come padre misericordioso, viene interiorizzata nella riflessione cristiana fino a farne distintivo particolare e tanto da rendere in essa lo stesso atto creativo il primo atto della storia della salvezza, un atto di misericordia (cf. DV 3). Anzi, proprio la capacità di accettarsi come figli di un tale padre e di pregare in tale linea viene da Paolo stesso indicata a testimone della vita credente: «E che voi siete figli lo prova il fatto che Dio mandò nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio, il quale grida: «Abbà! Padre!». Quindi non sei più schiavo, ma figlio e, se figlio, sei anche erede per grazia di Dio» (Rm 4,6-7). La mediazione di Gesù, come maestro e come testimone profetico, diventa essenziale per questa percezione: «Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me […]. Chi ha visto me, ha visto il Padre. […] Credete a me: io sono nel Padre e il Padre è in me» (Gv 14,1.9.11).
Il Simbolo
Non sorprende, quindi, che il primo articolo del Credo non sia stato oggetto di molte discussioni e che su di esso ci sia stata sufficiente concordanza.
Credo in un solo Dio,
Padre onnipotente,
creatore del cielo e della terra,
di tutte le cose visibili e invisibili.
L’affermazione dell’unicità di Dio, ovviamente in piena continuità con la tradizione monoteistica ebraica, viene qui pienamente ripresa e riaffermata. Come avremo modo di constatare anche in riferimento agli altri articoli del Credo, dopo tale, essenziale proclamazione, ne viene poi proposta la sua narrazione storico-salvifica: il titolo di onnipotenza di Dio, che è Padre, non nasce primariamente da considerazioni filosofiche, ma dall’esperienza della creazione. Presumibilmente in funzione antignostica, sono da leggere le specificazioni per le quali tale paternità non è riferita unicamente agli spiriti beati del cielo, ma riguarda esattamente la materia del creato, e viceversa. Non vi sono due regni: è l’unico regno di Dio, dove egli mostra la sua misericordia. Già da lì, il Padre si è «sporcato le mani» con il mondo.
Il creato stesso in tal modo può divenire segno della sua presenza e le sue leggi indicano la presenza della sapienza divina già «in principio». Tant’è che nel proprio rapporto con la creazione, l’umanità può adombrare la stessa possibilità di conoscere Dio: «Dio, principio e fine di tutte le cose, può essere conosciuto con certezza al lume naturale della ragione umana attraverso le cose create; infatti, le cose invisibili di lui vengono conosciute dall’intelligenza della creatura umana attraverso le cose che furono fatte (Rm 1,20)» (Concilio Vaticano I, cost. dogm. Dei Filius).
GIANLUCA MONTALDI