Ogliari Donato
Dal sogno alla profezia (il sogno di Giacobbe)
2024/1, p. 3
Alla luce del tema dell’Assemblea generale della Cism – Sogno e profezia nella vita religiosa. Discernere in un cambio d’epoca (Riconoscimento) –, dom Donato Ogliari, dal giugno 2022 abate di San Paolo fuori le mura, ha scelto per le sue lectio due brani scritturistici che parlano di sogni. Il primo, che presentiamo in queste pagine (in una nostra riduzione) riguarda la cosiddetta “scala di Giacobbe” in Genesi 28,10-22.

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Dal sogno alla profezia
(il sogno di Giacobbe)
Alla luce del tema dell’Assemblea generale della Cism - Sogno e profezia nella vita religiosa. Discernere in un cambio d’epoca (Riconoscimento) -, dom Donato Ogliari, dal giugno 2022 abate di San Paolo fuori le mura, ha scelto per le sue lectio due brani scritturistici che parlano di sogni. Il primo, che presentiamo in queste pagine (in una nostra riduzione) riguarda la cosiddetta “scala di Giacobbe” in Genesi 28,10-22; la seconda lectio divina, di cui daremo conto nel prossimo numero, si soffermerà sui “sogni di Giuseppe” nel vangelo di Matteo.
Come è noto, nella Bibbia Dio si serve talora dei sogni per far conoscere i suoi voleri. È, appunto, il caso di Giacobbe e del famoso sogno da lui avuto a Luz. Evidenziamo subito – anche se nel racconto questo aspetto funge da semplice cornice – che al tempo in cui fece questo sogno Giacobbe era un fuggiasco. Egli sfuggiva all’ira del fratello Esaù, al quale aveva carpito con inganno la primogenitura. E poiché a motivo di ciò Esau cercava di ucciderlo, Giacobbe abbandonò la sua casa e la sua terra e si diresse verso Carran, alla ricerca di un rifugio sicuro presso lo zio materno, Labano.
Vi è un’annotazione all’inizio del testo che suscita una prima riflessione, là dove si dice che, fermatosi in un luogo per passare la notte, Giacobbe si coricò utilizzando una pietra come guanciale. In questo atto, così naturale, possiamo intravvedere la cura e la dignità con cui Giacobbe si dispone a trascorrere la notte in quel luogo sconosciuto, replicando gesti dal sapore domestico, attinti dalla quotidianità. In realtà, in un frangente così difficile come quello che stava attraversando, non ci è difficile intuire il dramma che Giacobbe stava vivendo, esule, lontano da tutto ciò che gli era familiare e al di fuori delle convenzioni e delle garanzie sociali che lo avevano protetto fino a quel momento. E tuttavia, anziché in preda a un cupo smarrimento, Giacobbe sembra agire con una serena determinazione, come se stesse sistemando il guanciale nel letto di casa.
Ci è consegnata qui una prima indicazione: nei momenti di particolare travaglio nella nostra vita personale o comunitaria, siamo invitati ad affrontare con fiducia e perseveranza il futuro incerto che ci si para innanzi e il conseguente senso di spaesamento che ne consegue, certi di poter sempre contare su un guanciale su cui riposare.
Il sogno: l’iniziativa gratuita di Dio
In questo contesto di estraneazione, nel quale il sapore delle cose di casa sembra offrirgli un benché minimo conforto, Giacobbe fa un sogno. Inatteso come tutti i sogni, esso si rivela foriero di novità, di consolazione e di benedizione. Tralasciando il ricorso a chiavi interpretative di carattere psicologico, sociologico o antropologico che esulano dall’intento di questa lectio, ci limitiamo a ricordare che alla luce del pensiero scritturistico il sogno – quando è veicolo della volontà divina – è generato dalla gratuita iniziativa di Dio. Anche nel nostro caso, Giacobbe non ha fatto nulla per evocarlo. È Dio che lo ha gestito dall’inizio alla fine. È un suo dono…
Che cosa sogna Giacobbe? Il testo parla di una teofania accompagnata da un’esperienza visiva: «Una scala poggiava sulla terra, mentre la sua cima raggiungeva il cielo; ed ecco, gli angeli di Dio salivano e scendevano su di essa» (v. 12).
La visione della scala che congiunge la terra al cielo rivela come quest’ultimo – fatto sorprendente – non sia chiuso, ma presenti un’apertura attraverso la quale gli angeli salgono e scendono in un andirivieni continuo, in un incessante interscambio tra cielo e terra. Il cielo non è un luogo inaccessibile e riservato alla sola divinità, così come la terra non è abbandonata a sé stessa.
Gli angeli che vanno su è giù dalla scala fanno quello che il loro nome dice. Sono messaggeri di una promessa che Giacobbe sta per ricevere in un frangente critico della sua vita e in un luogo desolato, ossia in un momento e in luogo in cui nessuno si sarebbe mai aspettato che Dio potesse fare irruzione con una promessa che avrebbe cambiato le sorti di un imbroglione fuggiasco e abbandonato a sé stesso qual era Giacobbe. «Questa promessa è l’amorevole, premurosa risposta di Dio alla sua situazione di pericolo» (W. Brueggemann).
Dio si rivolge quindi a Giacobbe presentandosi come il Dio di Abramo e di Isacco (cf. v. 13). Non un dio qualunque, dunque, ma il Dio dei suoi padri! Poi il Signore gli promette di dare la terra su cui si era coricato a lui e alla sua discendenza, una discendenza che sarebbe stata numerosa e si sarebbe estesa nei quattro punti cardinali, e che sarebbe divenuta strumento di benedizione per tutte le famiglie della terra. Infine Giacobbe riceve una rassicurazione divina: «Ecco, io sono con te e ti proteggerò dovunque tu andrai; poi ti farò ritornare in questa terra, perché non ti abbandonerò senza aver fatto tutto quello che ti ho detto» (v. 15). Dio si vincola a Giacobbe, promettendogli di stare per sempre al suo fianco (presenza) e di proteggerlo (azione).
Il risveglio dal sogno
Quando il sogno finisce e Giacobbe si risveglia, quel luogo deserto nel quale si era fermato per trascorrere la notte cessa di essere un luogo desolato e anonimo: «Certo, il Signore è in questo luogo e io non lo sapevo» (v. 16). Alla luce della rivelazione e della promessa divina ricevuta in sogno quel luogo ora non è più un “non luogo”. Ma, soprattutto, quel luogo è la “casa di Dio” (Bet-èl), come esclama Giacobbe: «17Quanto è terribile questo luogo! Questa è proprio la casa di Dio, questa è la porta del cielo» (vv. 16b-17).
La nostra testimonianza di religiosi è chiamata a mostrare come i non-luoghi delle nostre società – o le periferie esistenziali, come direbbe papa Francesco – possono diventare luoghi della presenza di Dio, luoghi abitati dal suo amore, del quale noi siamo chiamati a farci umile riflesso.
Giacobbe strumento di benedizione
Giacobbe non è stato invitato a fissare lo sguardo verso il cielo, da dove Dio gli aveva parlato durante la visione avuta in sogno, ma ad accogliere la promessa riguardante la sua discendenza, che si sarebbe appunto estesa in ogni direzione, «a occidente e a oriente, a settentrione e a mezzogiorno» (v. 14b). Questa, infatti, è la vocazione di Giacobbe, la sua missione: diventare non un eroe celeste, ma il patriarca di un popolo che porta in sé la benedizione di Dio e che è chiamato a essere il veicolo della bontà divina nel mondo, tra tutte le famiglie della terra. L’aspetto verticale si interseca e si fonde con quello orizzontale.
Con un salto che dalla Genesi ci porta agli Atti degli Apostoli, vien da pensare alle parole che Gesù rivolse ai suoi discepoli prima di ascendere al cielo. Dopo aver loro detto: «8Mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino ai confini della terra (…) 9Detto questo, mentre lo guardavano, fu elevato in alto e una nube lo sottrasse ai loro occhi. 10Essi stavano fissando il cielo mentre egli se ne andava, quand’ecco due uomini in bianche vesti si presentarono a loro 11e dissero: «Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che di mezzo a voi è stato assunto in cielo, verrà allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo». 12Allora ritornarono a Gerusalemme» (At 1,8-12a).
Lo sguardo rivolto al cielo, per il credente, non può mai essere fine a sé stesso, ma deve, in un modo o nell’altro, potersi trasformare in uno sguardo di benedizione rivolto ai fratelli e alle sorelle con cui condivide il proprio cammino sulla terra! Quest’attitudine si applica, a maggior ragione, a noi religiosi, chiamati a mantenere saldamente uniti l’anelito alla comunione con Dio e l’impegno gioioso ad essere un segno di benedizione per tutti coloro che incontriamo sul nostro cammino.
Un tempo nuovo e una nuova identità
La rivelazione ricevuta in sogno da Giacobbe si prolunga nel risveglio. Al suo risveglio Giacobbe si scopre un uomo nuovo. Non più un fuggiasco, preoccupato di salvarsi la pelle dal fratello Esau che gli stava alle calcagna; non più un uomo del passato, ma un uomo aperto a un futuro sconosciuto che Dio, per pura misericordia, gli aveva dischiuso, un futuro nel quale la sua nuova identità si esprimerà al plurale, nel passaggio dall’“io” al “noi”, dove l’“io” si dilaterà in una discendenza innumerevole, segno della presenza operante e salvifica di Dio.
Giacobbe ci insegna a rimanere aperti a un futuro inedito nel quale siamo chiamati ad intercettare le tracce della presenza di Dio che ci sostiene, anche quando sperimentiamo un senso di smarrimento. Tuttavia, non potrà esserci una vera apertura al futuro inedito di Dio che ci interpella personalmente e comunitariamente se non c’è, nello stesso tempo, il desiderio di lasciarsi rinnovare interiormente. Solo così, infatti, ci sarà possibile immaginare, o sognare, una presenza della vita consacrata che sappia ancora dire una parola profetica in questo cambio d’epoca nel quale ci troviamo a vivere.
dom DONATO OGLIARI, O.S.B.