Cozza Rino
Una nuova figura di umanità
2024/1, p. 30
È necessario in questo momento della storia, che la vita consacrata passi dal narrare un grande tesoro da custodire, all’inventare nuove forme di vita in cui abbiano accoglienza idee e modi di vivere che non cessino di essere profumati di vita.

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Testimoni
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IL FUTURO DELLA VITA CONSACRATA
Una nuova figura di umanità
È necessario in questo momento della storia, che la vita consacrata passi dal narrare un grande tesoro da custodire, all’inventare nuove forme di vita in cui abbiano accoglienza idee e modi di vivere che non cessino di essere profumati di vita.
È avvenuto anche per la vita consacrata che quando ci si innamora della propria immagine riflessa non si sente più il bisogno di imparare, di ascoltare, di farsi mettere in discussione. E questo avviene specie per quelle realtà che, prigioniere di se stesse, vanno avanti nutrendosi prevalentemente del proprio passato. Da qui la necessità che la vita consacrata passi dal narrare un grande tesoro da custodire, all’inventare nuove forme di vita in cui abbiano accoglienza idee e modi di vivere che non cessino di essere profumati di vita. Il futuro sarà pertanto per le forme di vita discepolare capaci di fare esperienza autentica di un pensiero innovativo, espresso da credenti liberi dalla paura, e sospinti dal dover farsi carico di quel grave ritardo rispetto al futuro denunciato dal card. Martini alcuni giorni prima di lasciarci.
La concezione della persona
alla luce dell’attuale cultura
Certamente le nuove generazioni non sono refrattarie all’idea di «comunità» quale modello cui ancorare la propria esistenza, a condizione però che<p> <p/> questa rifletta i nuovi orizzonti culturali del nostro tempo, in particolare quelli relativi alla persona.
La dottrina dei diritti dell’uomo dalla prima apparizione del pensiero socio-politico del sei e settecento, ha fatto molta strada pur tra contrasti, confutazioni, limitazioni, fino a trovare soluzione nella «Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo», approvata dall’assemblea generale dell’ONU il 10 dicembre del 1948, in cui si dice che: «Tutti gli uomini nascono liberi e uguali in dignità e diritti».
Questa «carta della persona» mette in risalto che i diritti naturali devono trovare attuali modi di essere all’interno di ogni tipo di società.
Successivamente, a dirlo è stata la «dichiarazione» del Concilio sulla «Dignità della persona umana», che mettendo in questione molte delle acquisizioni del passato, ha dato origine nella Chiesa ad un ignorato significato del termine «persona». Pensiero questo tenuto all’attenzione di vari teologi che si sono ritrovati concordi con il card. Walter Kasper che nel discorso «Le fondament théologique des droits de l’homme», (nov. 1988), ebbe a dire e comprovare che «I diritti dell’uomo costituiscono al giorno d’oggi un nuovo irrinunciabile ethos mondiale».
Più vicina nel tempo è l’Istruzione vaticana ai consacrati dal titolo «Il servizio dell’autorità e l’obbedienza», in cui si prende atto che con il cambio d’epoca si è entrati in una fase di straordinaria sperimentazione antropologica, che porta alla edificazione di una nuova figura di umanità. In questa istruzione si parla positivamente della «cultura delle società occidentali fortemente centrate sul soggetto, che hanno contribuito a diffondere il rispetto per la dignità della persona umana favorendone positivamente il libero sviluppo e l’autonomia», e questo oltretutto perché quanto detto, ha le sue radici in una «concezione di persona umana che emerge dalle Scritture».
Vocazione della persona
alla propria unicità
Diversamente dal passato, oggi si impone dunque anche nella vita consacrata la posizione di preminenza della persona, non in funzione dell’«individualismo» ma del «personalismo», per il fatto che essa non è nata per essere una istituzione, ma famiglia (voi siete tutti fratelli), concepibile quale modello dì relazioni tra persone, e laboratorio di comunione.
A partire da ciò, ogni giorno di più nel corso della postmodernità, la società non tollera più poteri autocratici o loro imitazioni più o meno camuffate: tutte cose che sono contraddizioni radicali dell’annuncio fatto da Cristo.
Veniamo da quel passato in cui all’autorità religiosa era riconosciuto il servizio della «mediazione» che portava l’autorità a ritenersi intermediaria tra Dio e il credente; concezione che vedeva i doni di Dio discendere in primo luogo sulla gerarchia e poi in virtù di essa sui fedeli, secondo una precisa trafila: Cristo, gli apostoli, i pastori, i fratelli, così «togliendo al rapporto tra Dio e l’uomo la sua «immediatezza», sottovalutando la libertà e la responsabilità della persona. Ma, Ortensio da Spinetoli riportando il pensiero di Y.Congar e di altri, scrive: «la trafila indicata dal Concilio è più semplice: Dio e il «suo popolo» dentro il quale egli agisce con le molteplici donazioni. Un pensare questo che non ha nulla da spartire con quello dei canonisti anteriori al noto giurista F.Suarez (doctor eximius -1548-1617), che arrivarono ad attribuire all’autorità religiosa la «potestà dominativa» in virtù della quale – a loro dire - l’autorità era padrona assoluta della volontà dei loro «sudditi»: modo di pensare, questo, i cui riflessi , in qualche misura, non ci ha lasciati del tutto indenni. Ma nel Vangelo l’unica mediazione è quella cristologica, per cui ogni altra struttura non può che intendersi come facilitante l’incontro con Cristo, piuttosto che diaframma.
Ora, dopo il Concilio, all’autorità è richiesto di passare da un servizio di attribuzione a sé di responsabilità ad «un servizio alla libertà dei membri perché possano rispondere con generosità alla loro vocazione», «attraverso la valorizzazione massima possibile delle forme di corresponsabilità e partecipazione» di tutti coloro che vogliono mettersi in gioco. Una autorità, che sappia responsabilizzare, energizzare, idea prettamente evangelica: «prendi il letto e vai a casa», esercitata come servizio alla «comunione». Dunque per il Vangelo l’autorità non è sopra ad una esperienza ecclesiale ma al suo interno, finalizzata al sostegno, all’animazione, alla guida e al discernimento.
In particolare è il decreto conciliare «Dignitatis Humanae» a dire che tutta la Chiesa è, anche, «ecclesia discens», alunna dell’unico Maestro e discepola dello Spirito Santo il quale va man mano insegnando tutta la verità, per cui soltanto se «discepola» potrà proporsi come maestra, perché l’essere discepola e maestra sono due «funzioni», e non due «distinte frazioni» della Chiesa.
I consacrati chiamati a essere
«punto di riferimento per tutti i battezzati»
Oggi è papa Francesco a dirlo, ma già Giovanni Paolo II affermava che la vita religiosa doveva impegnarsi nella ricerca di formule più autentiche in grado di esprimere «una persona da cui traspaia che credere non è un farsi imbrigliare l’umanità, la corporeità, la vitalità, la bellezza, la spontaneità, ma semmai farla esplodere in pienezza». Da qui la necessità che anche i voti religiosi facciano «emergere più chiaramente e in modo più diretto quello che è il senso di ogni vita cristiana», mutuando dai sogni di Colui che si è fatto amico degli sconfitti e degli emarginati, per cui il compito non facile dei religiosi è di non proporre i voti come fatto ascetico personale ma come memoria della vocazione comune di cui i religiosi/e si fanno testimoni qualificati dinanzi alla distratta mentalità generale.
A tal fine la povertà non può dare l’immagine di qualcosa che coincide con la negazione, ma che sappia riconoscere le ingiustizie, per condividere e finalizzare i beni materiali e naturali - professionalità, casa, affetto, sapere - non al possesso ma all’essere provocazione con i fatti che la vita non dipende dai beni.
Il celibato poi non deve rimandare a sterilità ma a fecondità, attraverso l’orientamento del cuore, portando i sentimenti alla capacità di amare tutti, specialmente coloro che di questo hanno un sofferto bisogno. L’obbedienza infine va espressa quale esperienza dell’ascolto, sul modello di quella del «Servo del Signore» (Is. 50,4ss): «Ogni mattina fa attento il mio orecchio perché io ascolti» i bisogni dell’oggi della storia, con quella libertà che è data dal prendere in mano le redini della propria vita.
Il biblista G. Giorgis a chi gli chiedeva il senso di questa richiesta di libertà, rispose con una domanda: «che ne diresti se uno fosse al volante e un altro manovrasse l’acceleratore o i freni ?».
Liberi senza essere indipendenti
Se l’identità del religioso/a è saper cogliere i sogni che Gesù aveva, allora dalla sua vita deve inoltre trasparire una chiara espressione della forza liberatrice di Cristo, cosa non ovvia stante il fatto che il tema della libertà, non è attestato nella letteratura della vita consacrata, nonostante nel Nuovo Testamento i temi di liberazione, libertà, franchezza, assumano – soprattutto in Paolo e Giovanni - importanza primaria nell’agire del credente.
È stato il Concilio a «liberare la libertà» nella Chiesa, con il dire, ad esempio nella Gaudium et Spes (n 17), che «l’uomo può volgersi al bene soltanto nella libertà». Ma questa per essere a misura di persone adulte, va sempre declinata assieme a uguaglianza, responsabilità, interdipendenza. Si tratta allora di prendere sul serio il fatto che si è passati dall’etica di un’obbedienza unilaterale (sudditanza) a una coraggiosa etica della responsabilità che si forma e si mantiene nella reciprocità dell’ascolto.
Da quanto fin qui detto ne consegue, per la Chiesa – e non meno per la virta consacrata – il dover riequilibrare un pensare sbilanciato sul versante strutturale-gerarchico, per fare spazio ad un evangelico, personale, senso della libertà: libertà di arrendersi alla incessante novità di Dio in ordine a un progetto d’insieme (comunità) che supera gli orizzonti individuali, come indicato nel già citato decreto conciliare Dignitatis Humanae (n. 3), in cui si dice che la vera dignità dell’uomo richiede che egli non sia semplicemente l’esecutore di ordini ma nel suo agire abbia un suo proprio giudizio e possieda una libertà responsabile.
Pertanto, nella nostra epoca, la sfida per la vita consacrata, sta nel saper far incontrare la libertà dei singoli con quella dell’insieme (comunità), per consentire ad ognuno di assumere le responsabilità alle quali le circostanze lo chiamano, all’interno di forme comunitarie più leggere, non aziendali, accoglienti, dove al primo posto siano le preoccupazioni per il bene degli altri e la disponibilità ad aiutarsi.
Evidentemente perché questo si avveri, è anche necessario che ognuno per la sua parte, sappia cogliere la grande distanza che talvolta intercorre tra la volontà di Dio e la propria, sempre tendenzialmente esposta e propensa a derive che con la volontà di Dio non hanno nulla da spartire, attribuendo all'istituzione il compito di sostenere, previo discernimento, questa libertà che non è da intendersi in ab-soluto (sciolto da) ma in relazione con il tutto: tra il lasciare fare e il fare direttamente, l'istituzione ha dunque il compito di aiutare a fare.
RINO COZZA, csj