Cencini Amedeo
Senso e derive dell'accompagnamento
2024/1, p. 27
L’accompagnamento spirituale appartiene alla più autentica tradizione spirituale cristiana: da esso dipende la qualità del cammino di crescita del credente.

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NEI MOVIMENTI E NELLE NUOVE COMUNITÀ
Senso e derive dell’accompagnamento
L’accompagnamento spirituale appartiene alla più autentica tradizione spirituale cristiana: da esso dipende la qualità del cammino di crescita del credente.
L’accompagnamento spirituale (AS) appartiene alla più autentica tradizione spirituale cristiana: se l’uomo è un essere relazionale, tanto più tale dimensione è sottolineata nella fede cristiana, nella quale tutto è relazione (a partire dal Dio-Trinità), e Dio stesso sembra prediligere la mediazione dell’altro per comunicare con l’uomo. Dall’AS dipende in buona parte la qualità del cammino di crescita del credente. Giusto, quindi, cercare di coglierne senso, ma anche possibili derive, anche nelle forme attuali di consacrazione a Dio. Divideremo la nostra riflessione in due parti o in due successivi articoli. Nel primo cercheremo di identificare il senso dell’AS in generale, come servizio proposto a tutti, e poi come strumento di crescita vocazionale e spirituale nella particolare esperienza della consacrazione a Dio, con particolare sguardo alle nuove forme di vita consacrata (NFVC).
1. Il senso dell’AS in generale
L’AS è un aiuto di natura spirituale che un fratello maggiore, nella fede e nel discepolato, offre a un fratello minore, perché costui possa scoprire l’azione di Dio nella sua vita e decidere liberamente di rispondervi. Fine dell’AS è la libertà del credente, che s’esprime nella capacità di discernere quel che Dio sta facendo in lui, e poi nel coraggio di decidere ciò che a Dio è più gradito. In tal senso l’AS è parte importante d’un cammino di fede. Mira infatti alla crescita dell’adulto nella fede, tale proprio perché capace di scegliere dinanzi a Dio, nella solitudine della propria coscienza e all’interno d’un dialogo con lui. Ciò avviene anche grazie alla mediazione d’un fratello/sorella maggiore, così libero interiormente da poter generare libertà in chi accompagna, con tutto il rischio e la responsabilità che essa comporta. Il servizio dell’AS dovrebbe almeno in teoria esser offerto a tutti, come via normale di educazione alla fede del credente normale. Specie in tempi come i nostri, in cui sembra interrotta una certa trasmissione generazionale o familiare della fede, è ancor più necessario questo accompagnamento personalizzato e propedeutico all’atto di fede, che va scelto dal singolo, non solo trasmesso né dato per scontato e tanto meno imposto.
2. L’AS nelle nuove forme di vita consacrata
Se questo è il senso dell’AS in genere tanto più lo è all’interno di quella esperienza del tutto particolare rappresentata oggi dai movimenti e dalle NFVC. Per motivi legati all’evoluzione culturale di questi ultimi 50 e più anni. Dal lontano ’68 e dalla rivoluzione culturale di quell’epoca si parla, infatti, di “crisi della figura paterna” e persino di “morte del padre”. All’inizio come provocazione che veniva soprattutto dalla psicoanalisi, ma poi -sempre più- come crisi vera e propria della figura paterna e del suo significato, in particolare di quel potere che dava un tono patriarcale un po’ a tutta la società e ai suoi ordinamenti, con pesanti ripercussioni nelle abitudini e stili di vita. La crisi divenne sempre più reale, e non tanto per un attacco diretto alla figura, ma perché furono i padri stessi a… togliere il disturbo, e farsi da parte.
2.1- Vuoto di potere
È così che si creò sempre più, a vari livelli (familiare, sociale, politico, anche ecclesiale…) anche se non ovunque o allo stesso modo, una situazione di vuoto di potere, o un clima di allergia e rifiuto verso ogni forma d’autorità, sovente e fors’anche un po’ frettolosamente giudicata come autoritaria. Ma - come spesso succede quando si toccano le punte estreme d’un fenomeno - rifiuto o allergia furono così radicali da provocare l’insorgenza della polarità esattamente contrapposta, e sempre all’estremo: quella dell’abuso di potere.
2.2- Dal vuoto di potere all’abuso di potere
In effetti il passaggio sembra paradossale, ma è la storia a raccontarcelo, più che l’analisi concettuale. C’è comunque una certa plausibilità, di fatto, in questa correlazione.
Nel singolo
Dal punto di vista del singolo, anzitutto. Se la persona, per motivi vari legati al contesto familiare originale (ad es. una figura paterna poco significativa e quasi assente o, al contrario, troppo invadente), cresce con un certo senso d’inferiorità e si sperimenta incapace e paurosa d’affrontare la vita e le relazioni, non sarà così strano che avverta il bisogno d’una figura forte accanto a sé e cui affidare la propria vita, all’interno d’una istituzione sicura e solida, ove i ruoli sono ben definiti (come nella Chiesa) e chi decide è uno solo, ossia chi è tenuto a farlo proprio per ruolo (come alcuni intendono il padre spirituale), cui -è ovvio- si deve obbedienza (specie se parla “in nome di Dio”). In tal modo tale “figlio spirituale obbediente” avrà la sensazione rassicurante di poter compensare la sua sensazione originaria d’impotenza, senz’accorgersi, però, di correre il rischio di dipender sempre più proprio da chi e da ciò che lo rassicura: compensare, infatti, non vuol dire risolvere (così come obbedire è tutt’altra cosa che dipendere).
Nel gruppo
Ma è possibile vedere il passaggio dal vuoto di potere ad abuso di potere anche dal punto di vista del gruppo. Strano a dirsi l’esperienza d’una propria personale impotenza (e conseguente vuoto di potere) crea in chi ne soffre la tendenza a creare gruppo, o a cercare (certo inconsciamente) altri nella stessa situazione, coi quali allearsi, sia per difendersi, sia per cercare il leader forte e sicuro, dalle idee chiare e ben determinato, che magari li dispensa dalla fatica di pensare, dal rischio di decidere per conto proprio e dalla paura di sbagliare. Tanto meglio se da qualche parte questo leader esiste già e con un gruppo già costituito e che, alle sue… dipendenze (sic!), funziona bene, è efficiente, procede sicuro in una Chiesa tormentata da incertezze e frenata da dubbi, dà perfino esempio di unità nella fedeltà assoluta al suo capo. Anche in tal caso la persona avrà la sensazione di poter fronteggiare meglio il proprio problema (infatti non sempre l’unione fa la forza, ma per lo meno nasconde la debolezza), sensazione favorita dal fatto che la dinamica dell’uno favorisce e rinforza quella dell’altro, ma anche in questo caso è un’illusione: il gruppo appare forte, non lo sono certo i singoli suoi componenti. Ma si può dare anche un’altra spiegazione del passaggio che stiamo analizzando, legata proprio a quella crisi di origine culturale-sociale dell’autorità di cui abbiamo detto. È possibile, cioè, che in certe comunità si sia creato un po’ alla volta, anche su pressione di tale cultura, un certo vuoto di potere, con conseguenze così serie, sul piano sia della coesione interna che dell’efficacia apostolica, da innescare -specie in alcuni- il bisogno esattamente contrario, d’una autorità forte e dichiarata, sicura di sé e capace d’imporsi, a volte anche rischiando esattamente l’estremo opposto al vuoto autoritario, e scivolando lentamente dal servizio dell’autorità, concetto sano e cristiano, a uno stile di potere, concetto ambiguo e deformazione dell’autorità. Ciò che interessa sottolineare, in ogni caso, è che in ogni situazione ora descritta, quella più individuale e quella di gruppo, si determinerà un’attesa, alimentata proprio della frustrazione vissuta contraria: più forte, cioè, è la sensazione esperienziale precedente negativa (legata alla propria storia o alla situazione comunitaria), più irrealistica ed eccessiva sarà poi l’aspettativa del leader (onni)potente o la ricerca d’un gruppo con tale leader. “Aspettativa irrealistica”, ovvero al di fuori di quella che è la natura del ruolo d’autorità, e tanto più fuori del vangelo; ma pur sempre aspettativa, ossia pretesa che sia proprio così, come se la vita, il futuro, il gruppo stesso debbano per forza convalidare e appagare quelle pretese fuori del reale. Purtroppo proprio questa è alla radice l’aspettativa che abbiamo visto in qualche modo emergere e diventare sempre più forte in questi tempi insicuri in alcune di queste NFVC, e non solo in esse naturalmente. Non sempre nei termini da noi qui descritti o nella gravità ora segnalata. Né come attesa/pretesa necessariamente da parte di tutti all’interno d’un gruppo, ma da parte solo di alcuni, quelli maggiormente alle prese con certe ferite della vita. Non è il numero il fattore determinante in tali casi, quanto l’intensità emotiva dell’attesa frustrata.
Nel leader
Ma il fenomeno è visibile, anche facilmente, pure dal punto di vista del leader o aspirante tale. Il quale -per motivi e problemi legati al suo vissuto (ad es. una bassa autostima che lo fa ora sentire inconsciamente impotente dinanzi alla vita e agli altri)- può avvertire in sé un eccessivo bisogno di potere, nelle sue due forme di possesso e dominio dell’altro, proprio per smentire quella impotenza che si porta dietro, e compensarla, come una rivalsa nei confronti della vita. Ovviamente cercando soggetti che gli consentano tutto ciò, dunque fondamentalmente persone abbastanza vulnerabili da questo punto di vista. E, di fatto, divenendo padre spirituale di mezzo mondo, e compiacendosi discretamente di sentirsi cercato, apprezzato, conteso, a volte… canonizzato! È comunque interessante il fatto che all’origine degli abusi di potere (nelle varie forme di abuso psicologico o spirituale) vi sia sempre un’impotenza! È sì un paradosso, come già detto, ma ha un suo senso. Ma cos’è che rende grave la situazione al punto di determinare violazioni della libertà o veri e propri abusi?
2.3- Complementarità dei bisogni (tra leader e gruppo)
Il problema diventa pericoloso e ad alto rischio quando si crea una situazione di singolare convergenza tra i protagonisti in questione, ovvero quando di fatto c’è una complementarità/reciprocità di bisogni da parte dei due agenti (gruppo e leader), o quando l’attesa di qualche singolo o da parte della base s’incrocia e si salda, quasi “santa alleanza” o “nodo maledetto”, col bisogno speculare di potere del “direttore” spirituale di turno o dell’uomo solo al comando, ma bisognoso di devoti e fedelissimi attorno a sé. In parole povere uno gratifica se stesso gratificando l’altro. Dando luogo a una situazione ad alto rischio, perché allora verrebbe a crearsi una relazione delirante, un vincolo tenace che non è facile sciogliere, proprio perché super-alimentato da entrambe le parti, con gratificazione e rinforzo reciproci. E con la convinzione che il tutto sia sotto la benedizione divina! Questo è un po’ quanto è successo nella storia passata, senza esser sempre scoperto nella sua gravità, nella Chiesa e nella VC, e -in forme e gravità diverse- anche nella nascita e nella storia di istituti nati in questo periodo. E che è all’origine, non l’unica certo, di veri e propri abusi: abusi di potere sulla coscienza e sulla sensibilità, abusi spirituali e psicologici perpetrati “in nome di Dio” e a partire dalla pretesa non solo di conoscere la volontà di Dio (dall’onnipotenza all’onniscienza), ma d’imporla in forza del proprio ruolo, dunque abuso esattamente del proprio compito di accompagnatore e della fiducia in lui riposta dall’accompagnato. Con la conseguenza d’indurre in quest’ultimo una falsa immagine di Dio, oltre la sofferenza prodotta (un abisso) e ferite di vario genere. E alla fine, ed è terribile pensarlo, abuso di Dio!
Ed è pure ciò che un attento AS dovrebbe in tutti i modi evitare. Quali sono, allora, le qualità che un accompagnatore spirituale dovrebbe oggi avere, particolarmente all’interno della realtà dei movimenti e delle NFVC? Lo vedremo al prossimo appuntamento.
AMEDEO CENCINI
sacerdote Canossiano