Brambilla Simona
Un’esperienza di sinodalità attorno al fuoco del carisma
2023/9, p. 1
La vita consacrata anche in Italia si fa sempre più multiculturale mentre si rendono più evidenti le distanze generazionali. È a partire da questi dati che suor Simona Brambilla, religiosa delle Missionarie della Consolata, condivide in queste pagine alcuni punti che sono stati e continuano ad essere importanti per un cammino sinodale di inculturazione, interculturalità e intergenerazionalità evangelica. La prospettiva è quella dell’esperienza della sua congregazione, le Missionarie della Consolata (MC), nate 113 anni fa, fondate dal Beato Giuseppe Allamano, sacerdote della diocesi di Torino che prima aveva dato vita ai Missionari della Consolata (1901). Oggi le Missionarie della Consolata contano 489 professe, 19 novizie e 35 prenovizie, provenienti da 15 nazioni di tre continenti – Africa, America e Europa – e sono presenti in 18 nazioni in 4 continenti – Africa, America, Asia, Europa.

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Un’esperienza di sinodalità attorno al fuoco del carisma
La vita consacrata anche in Italia si fa sempre più multiculturale mentre si rendono più evidenti le distanze generazionali. È a partire da questi dati che suor Simona Brambilla, religiosa delle Missionarie della Consolata, condivide in queste pagine alcuni punti che sono stati e continuano ad essere importanti per un cammino sinodale di inculturazione, interculturalità e intergenerazionalità evangelica. La prospettiva è quella dell’esperienza della sua congregazione, le Missionarie della Consolata (MC), nate 113 anni fa, fondate dal Beato Giuseppe Allamano, sacerdote della diocesi di Torino che prima aveva dato vita ai Missionari della Consolata (1901). Oggi le Missionarie della Consolata contano 489 professe, 19 novizie e 35 prenovizie, provenienti da 15 nazioni di tre continenti – Africa, America e Europa – e sono presenti in 18 nazioni in 4 continenti – Africa, America, Asia, Europa.
Alcuni snodi di un cammino sinodale
Percorrere un cammino assieme, superarne le difficoltà e goderne assieme le gioie, ci rende «compagne», ci rende più sorelle. La formazione iniziale vissuta in gruppi interculturali si rivela per noi come una delle maggiori occasioni di apertura all’altro, al diverso, perché questo diverso diventi «mio»: mia sorella mi appartiene, è parte come me dell’unico corpo vivo che è l’Istituto, è carne della mia carne. Il processo interculturale vissuto fin dalle prime fasi di formazione diviene anche un’occasione preziosissima di «raccolta», di mietitura delle risonanze carismatiche riflesse e rielaborate a seconda delle diverse esperienze culturali e di rapporto col sacro. In quest’ottica, il nostro Istituto da una quarantina d’anni si è decisamente orientato ad una formazione interculturale. Il Noviziato Unico Internazionale, aperto nel 2016 per decisione del Capitolo generale, situato sui luoghi delle origini dell’Istituto, è un’espressione benedetta della bellezza e profezia del cammino interculturale radicato nel vangelo e alimentato dal fuoco del carisma.
Crescere assieme significa anche avere occasioni concrete per abbattere i pregiudizi. L’amicizia sincera che nasce tra due sorelle di culture diverse costituisce il miglior antidoto al pregiudizio e al razzismo, che purtroppo può insinuarsi anche nei nostri ambienti. Antidoto molto più efficace di molte conferenze sul tema. Se tua sorella, che ami, è cinese e tu non lo sei, difficilmente sarai disposta ad accettare pregiudizi sui cinesi. Imparerai anche a curare il linguaggio, troppo spesso succube di stereotipi e rivelatore di un pensare e sentire ancora colonizzato dal pregiudizio. Quando si parla di «noi» e «voi» e quindi di «loro», si accende la spia di un problema. Che cosa differenzia i «loro» dai «noi»? Chi sono i «loro»? E i «noi» chi siamo? Che cosa o chi qualifica l’appartenenza a «loro» o a «noi»? Le generalizzazioni sono un’altra spia di allarme: lei viene dall’Italia, lei dalla Germania, lei dagli Stati Uniti e lei dall’Africa. Dall’Africa! Come se fosse una unica nazione, un’unica cultura, forse un unico villaggio! Ma l’Africa è un immenso continente grande più di 30.000.000 di km quadrati, composto di 54 Stati e da una varietà immensa di popoli, culla di culture antichissime…
Si tratta di coltivare quella squisita espressione di amore che è la recettività, l’accoglienza. Che poi è una prerogativa molto femminile, anche se, certamente, non esclusivamente tale. Mi pare che la cura della dimensione femminile della consacrazione e della missione siano tra i fattori di inculturazione e interculturalità carismatica più potenti. Il carisma lo vivo se diviene «mio», se si fa carne in me. L’altro lo accolgo davvero se diviene «mio», del mio sangue, appartenente davvero alla mia stessa famiglia. Allora sì, me ne prendo cura. E lascio che si prenda cura di me.
Non basta studiare il carisma, i documenti del fondatore o della fondatrice. Occorre che il carisma scenda al cuore, diventi il cuore della persona. Allora la persona lo inculturerà, perché dal tesoro del cuore della persona il carisma saprà trarre cose antiche e nuove e dare ad esse una luce inedita. Ovviamente, perché questo avvenga, il cuore deve essere sufficientemente aperto e capace di lasciarsi trasformare. L’accesso al cuore della persona significa anche l’accesso al suo cuore culturale. Se desideriamo davvero raggiungere gli strati più profondi della persona e del popolo, un atteggiamento imprescindibile è l’ascolto, insieme alla disposizione ad imparare. In un clima di ascolto vero, empatico, il cuore della persona e del popolo può aprirsi e far emergere dal suo scrigno desideri, sogni, esperienze che interagiscono col carisma, arricchendolo di nuove espressioni e suggestioni e sprigionando in esso nuovo splendore.
La saggezza dell’ignoranza
L’ignoranza può giocare una parte fondamentale nel cammino di inculturazione e di interculturalità carismatica. L’ignorare il mondo dell’altro (persona o popolo), la sua cultura, i paradigmi che sostengono la sua vita significa privarsi del contatto con il suo animo, e quindi precludersi la possibilità di una relazione significativa. D’altra parte, la propria ignoranza riconosciuta può essere posta felicemente al servizio di relazioni evangeliche che possono umilmente mediare il passaggio della grazia carismatica.
Durante il tempo trascorso in Mozambico, tra la gente di etnia Macua, ebbi la grazia e il privilegio di entrare in contatto con varie espressioni della sapienza e della spiritualità di questo popolo straordinario, tra le quali i proverbi, i miti e i racconti. Mi incuriosì la considerazione positiva che in vari di essi veniva espressa per «colui/colei che non sa», che ignora le cose, che «viene da fuori». Ebbi la fortuna di avere buoni maestri e collaboratori locali che mi aiutarono a comprendere più in profondità le ragioni di tale considerazione. L’«ignorante», colui/colei che «viene da fuori» e quindi ignora, ossia non sa nulla della cultura del luogo, ha infatti un vantaggio: quello di poter porre domande che chi è del luogo non farebbe mai, perché ovvie o sconvenienti. Colui che viene da fuori, per il fatto stesso della sua diversità o estraneità, ha il potere di fare o suscitare domande che, altrimenti, rimarrebbero inesplorate. A volte le domande apparentemente più semplici sono quelle che aprono strade nuove perché portano la persona (o l’Istituzione) a riconsiderare ciò che, ritenuto ovvio o scontato e assodato, non costituiva più, o non aveva mai costituito, oggetto di riflessione. Quanto abbiamo bisogno di chi «viene da fuori» per allargare la tenda personale, comunitaria e carismatica!
Felicemente contaminata dal pensare Macua, amo immaginare le nostre congregazioni come una cucina: tutte noi sedute attorno all’unica pentola, ognuna apportando qualche ingrediente di vita per cucinare una buona polenta che poi nutrirà tutti. Recita un proverbio Macua: «La pentola della polenta è una, le porzioni di polenta sono diverse». La Chiesa, che si nutre dello stesso ed unico Pane di Vita, non può non riconoscersi in questa immagine, ed è chiamata a renderla sempre più reale e visibile, non solo a livello liturgico e celebrativo, ma anche a livello di strutture, di economia, di governo, di prassi pastorale, di stili di vita e di relazione. Ma questo vale anche per le nostre congregazioni.
L’inculturazione e l’interculturalità carismatica sono una esigenza inderogabile se si vuole accogliere l’invito a mangiare alla stessa pentola. Il dialogo tra carisma e culture non è solo una necessità: è un’opportunità e un dono, un’occasione per scoprire le ricchezze originali che Dio ha posto in ogni popolo, riceverle nella pentola carismatica e condividerle col resto dell’umanità. Qual è l’ingrediente proprio e originale che questo popolo può apportare alla congregazione? La sua esperienza di cammino con Dio, quale luce nuova getta sulla comprensione del carisma? Che cosa abbiamo ricevuto da questo popolo? Come ha contribuito alla vitalità del carisma?
SR. SIMONA BRAMBILLA, MC