Ferrari Matteo
«Se il Signore è con noi…»
2023/9, p. 24
Gedeone e Salomone: la sincerità e l’audacia dei giovani.

Accedi alla tua area riservata per visualizzare i contenuti.

Questo contenuto è riservato agli abbonati a
Testimoni
.
GIOVANI DI FRONTE ALLA REALTÀ
«Se il Signore è con noi…»
Gedeone e Salomone: la sincerità e l’audacia dei giovani.
Papa Francesco in Christus Vivit fa riferimento ad altri due giovani del Primo Testamento: Gedeone e Salomone. Circa la figura di Gedeone, il papa sottolinea la sua sincerità: «in Gedeone riconosciamo la sincerità dei giovani, che non hanno l’abitudine di addolcire la realtà» (CV 7). Di Salomone invece il Santo Padre prende in considerazione la preghiera: «Salomone, quando doveva succedere a suo padre, si sentì perduto e disse a Dio: “Io sono solo un ragazzo; non so come regolarmi” (1Re 3,7). Tuttavia, l’audacia della giovinezza lo spinse a chiedere a Dio la saggezza e si dedicò alla sua missione» (CV 10). Si tratta di due aspetti molto importanti nella vita di un giovane, che non possono non rientrare nel discernimento vocazionale. Infatti il cammino di discernimento non può non tener conto delle caratteristiche che non possono mancare nella vita di un giovane, che vive conformemente alla sua età la sua fede e il rapporto con Dio.
«Voi non avete ascoltato la mia voce»
È importante collocare sempre una storia di vocazione nel suo contesto. Infatti ogni vocazione non è mai «disincarnata», ma si situa sempre in una storia più grande. Quando Dio chiama, non chiama solamente per il bene del chiamato, ma anche per essere una benedizione per tutti. Il tempo in cui Gedeone viene chiamato, così come ci racconta il libro dei Giudici, è un tempo di grande oppressione per Israele: il popolo è oppresso dai Madianiti (cf. Gdc 6,1-6). Il testo afferma che «Israele fu ridotto in grande miseria a causa di Madian e gli israeliti gridarono al Signore» (Gdc 6,6). Questa situazione prodotta da un nemico esterno, che toglie al popolo ogni mezzo di sussistenza e devasta i suoi raccolti, è il contesto della chiamata di Gedeone.
Il contesto storico di questo racconto di vocazione rivela due aspetti che potremmo sottolineare. Il primo riguarda l’infedeltà del popolo. La situazione di miseria del popolo secondo il racconto dipende dalla sua infedeltà: «gli israeliti fecero ciò che è male agli occhi di Dio» (Gdc 6,1). Si parla inoltre di un profeta inviato da Dio per richiamare il popolo dal suo peccato (cf. Gdc 6,10). Ma anche di fronte all’inviato di Dio gli israeliti non ascoltano la sua voce (Gdc 6,10). C’è quindi una situazione di allontanamento da Dio che porta alla miseria e al dolore. Qui si parla di un nemico che distrugge e deruba, di mancanza di cose materiali, ma noi potremmo pensare anche alla mancanza da un altro punto di vista. Potremmo infatti pensare a quella «povertà» spirituale, quella miseria, alla quale conduce il peccato, l’infedeltà al Signore. Ogni vocazione è una risposta di Dio a questa miseria che deriva dall’allontanamento da lui. Dio chiama non solo per il chiamato, ma anche per il bene di tutti, per richiamare alla fedeltà, per salvare dalla miseria spirituale. Il popolo non ha cibo, perché non ascolta la parola del profeta. Sembra quasi un rimando al Deuteronomio: «l’uomo non vive soltanto di pane, ma l’uomo vive di quanto esce dalla bocca del Signore» (Dt 8,3).
C’è poi un secondo aspetto. C’è un grido che sale a Dio dal popolo oppresso: «Israele fu ridotto in grande miseria a causa di Madian e gli israeliti gridarono al Signore» (Gdc 6,6-7). Il popolo che sperimenta la mancanza e la fame grida a Dio, lo invoca. Sia che si tratti di una miseria materiale, sia che ci si riferisca ad una fame spirituale, c’è una preghiera che sale a Dio per essere liberati. Potremmo dire che la preghiera è il contesto della vocazione di Gedeone, il grido del popolo che sale a Dio. La vocazione di un uomo è la risposta di Dio alla preghiera del popolo. Qui potremmo vedere l’importanza della preghiera della comunità per la vocazione dei singoli. La vocazione del singolo non è mai un affare privato, è il frutto della preghiera della comunità che chiede al Signore di essere liberata dalla sua miseria e dalla sua situazione di oppressione.
«Il Signore è con te»
In questa situazione del popolo si colloca la chiamata di Gedeone (Gdc 6,11-24). L’angelo del Signore, colui che porta la parola di Dio, si accosta a Gedeone, si fa presente nella sua vita, in un momento ordinario: sta battendo il grano, cercando di sottrarlo ai madianiti. In qualche modo Gedeone è già impegnato nella lotta contro il nemico. Quindi la chiamata di Dio raggiunge un uomo che è già incamminato a compiere ciò che dovrà fare una volta chiamato dal Signore. La differenza tra prima e dopo la chiamata di Dio sta nel fatto che prima Gedeone combatte i madianiti per sé, mentre dopo lo farà per sé e anche per il popolo in nome di Dio. È questo il frutto della chiamata di Dio: decentra la nostra vita dall’essere vissuta «per noi», al divenire vita spesa «per gli altri».
Poi c’è la chiamata dell’angelo: «Il Signore è con te, uomo forte e valoroso!» (Gdc 6,12). L’angelo è un «mediatore» della parola di Dio. L’angelo usa l’espressione tipica delle vocazioni nella Bibbia: «il Signore è con te!». Tuttavia forse in questo caso il messaggero divino sbaglia un po’ il tiro. Come dire ad un giovane uomo che sta cercando di sottrarre un po’ di grano a degli oppressori, che sta incontrando grandi difficoltà, che il Signore è con lui. Sembra un intervento un po’ stereotipato, tratto da un «manuale» di discernimento vocazionale. Che spiegazione dare?
In questo caso l’angelo potrebbe rappresentare le mediazioni umane di Dio nel far giungere la sua parola a coloro che egli chiama. L’intervento dell’angelo infatti assomiglia a tanti nostri interventi «vocazionali», fatti con le migliori intenzioni, ma un po’ semplicistici, un po’ disincarnati e distanti dalla vita. Potremmo dire che si tratta di un angelo un po’ «sprovveduto», del quale tuttavia il Signore si serve per far giungere la sua chiamata a Gedeone. Questo angelo sprovveduto potrebbe rappresentare le mediazioni umane di cui Dio si serve, con la loro debolezza e i loro limiti, per far giungere a qualcuno la sua chiamata.
Tuttavia l’angelo potrebbe anche essere Gedeone stesso che comprende in quel modo la chiamata di Dio. La parola di Dio infatti spesso deve fare i conti anche con le nostre precomprensioni, con i nostri pregiudizi su Dio e sulla vocazione. La parola che Dio rivolge alla nostra vita è sempre da discernere e nel discernimento entrano in gioco le nostre paure, le nostre precomprensioni, le nostre resistenze. È normale che questo avvenga e occorre sempre tenerne conto nel processo di discernimento vocazionale.
Un altro aspetto significativo del contesto della chiamata di Gedeone è che la parola di Dio lo raggiunge nel quotidiano, mentre sta svolgendo un lavoro normale e in un contesto profano. È una caratteristica tipica di molti racconti di vocazione nella Bibbia: Dio non chiama solo o principalmente in luoghi «sacri», ma nella vita quotidiana, nell’impegno e nelle fatiche di ogni giorno. Dio chiama il giovane nel suo impegno, nei suoi doni, nelle sue passioni, nei suoi ideali di libertà e di riscatto, nel suo studio. È ciò che accadrà anche sulle rive del lago di Galilea quando Gesù chiamerà dei pescatori, intenti al loro lavoro, a diventare pescatori di uomini (cf. Mc 1,17). Dio non ti chiama nonostante i tuoi desideri, i tuoi doni, le tue paure, le tue passioni, i tuoi ideali… ti chiama in essi.
Anche in questo caso quel grano che Gedeone sta battendo può essere materiale, ma può indicare anche qualcosa di spirituale. Gedeone sta cercando con fatica, con paura, di mettere da parte un po’ di alimento spirituale per la sua vita con le proprie forze. Egli sta agendo di sua iniziativa, cercando di fare il meglio che può ma con le sole sue forze e con la propria forza di volontà. Prima della chiamata di Dio, Gedeone non solo lavora per se stesso, ma fa riferimento unicamente a se stesso. L’immagine ci potrebbe rimandare alla pesca miracolosa legata alla vocazione dei primi discepoli in Luca: quando i pescatori lavorano di loro iniziativa non prendono nulla, quando gettano le reti sulla parola di Gesù le loro reti si riempiono. Afferma Pietro: «Maestro, abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla; ma sulla tua parola getterò le reti» (Lc 5,5). L’esperienza della vocazione ci dice che il «fai da te» non funziona, non porta frutti. Solo quando facciamo qualcosa come risposta alla chiamata di Dio arrivano frutti di libertà, arriva nutrimento spirituale, le nostre reti si riempiono.
«Se il Signore è con noi…»
All’angelo «sprovveduto» Gedeone risponde, come deve rispondere un giovane: in modo sincero e schietto. Egli ribatte all’angelo: «Perdona, mio signore: se il Signore è con noi, perché ci è capitato tutto questo? Dove sono tutti i suoi prodigi che i nostri padri ci hanno narrato, dicendo: “Il Signore non ci ha fatto forse salire dall’Egitto?”. Ma ora il Signore ci ha abbandonato e ci ha consegnato nelle mani di Madian» (Gdc 6,13). Gedeone non si accontenta di risposte da «catechismo», di frasi fatte anche se «formalmente» vere. Egli vuole capire, non può accontentarsi di frasi a suo avviso «banali» e non comprovate dai fatti. Spesso accade anche a noi ciò che accade all’angelo quando pensiamo di dover dare troppe risposte e certezze ai giovani: veniamo un po’ spiazzati dalle loro domande schiette.
Gedeone chiede all’angelo spiegazioni: come mai, se il Signore è con noi, ci capitano tutte queste sventure? È come se Gedeone dicesse all’angelo: «come posso vedere nella storia la verità di ciò che mi stai dicendo? Si racconta che Dio ha liberato Israele dall’Egitto, come mai ora non salva noi e non continua a mostrasti come nostro liberatore?». In fondo la contro domanda di Gedeone potrebbe essere letta così: «come mai la storia di salvezza che si narra, non continua nella mia vita? Perché la mia vita non è una storia di salvezza?».
La vocazione di Gedeone ci mette in guardia: non meravigliamoci della sincerità e della schiettezza dei giovani. Dio non si meraviglia della risposta del giovane. Anzi entra in dialogo con lui, si lascia provocare. Se la prima parola dell’angelo potrebbe rappresentare i nostri goffi tentativi di ripetere frasi fatte, di dare rassicuranti riposte a chi è in ricerca vocazionale, la continuazione del dialogo tra l’angelo e Gedeone ci dice che è nel confronto sincero e aperto che si può trovare insieme la volontà di Dio, la sua Parola per la nostra vita. È significativo che il secondo intervento non sia più dell’angelo, ma del Signore in persona (cf. Gdc 6,14).
Il dialogo continua con un nuovo intervento, come abbiamo detto, questa volta di Dio in persona: «Va’ con questa tua forza e salva Israele dalla mano di Madian; non ti mando forse io?» (Gdc 6,14). Qui troviamo tre aspetti fondamentali della vocazione e quindi anche del discernimento vocazionale. È Dio che parla, non più «un angelo sprovveduto» e i nostri pregiudizi. Innanzitutto il Signore dice a Gedeone di andare «con la sua forza», lo invita a mettere in campo la sua forza giovanile, a mettere a frutto i suoi desideri, le sue aspirazioni, la sua ricerca di giustizia e di libertà. Dio non chiede a Gedeone di rinunciare a se stesso e a ciò a cui il suo cuore aspira, ma di mettere tutto questo a sua disposizione e a servizio del popolo. È un primo aspetto molto importante: essere chiamati da Dio non significa sacrificare la parte più vera e autentica di noi stessi, ma anzi di scoprirla, di riconoscerla e di farla fruttificare. In secondo luogo il Signore chiede a Gedeone di salvare Israele dalla mano dei madianiti, cioè di mettere la sua forza a servizio di tutti e di usarla non più unicamente per se stesso. Come dicevamo, è il cambiamento di prospettiva della vocazione: passare dal vivere per se stessi, a spendere la propria esistenza per gli altri, dall’egoismo al dono. La chiamata di Dio richiede sempre uno spostamento da una vita «per me», ad una vita «per gli altri». Questo è un passaggio fondamentale che rende il chiamato «simile» a Dio. Questa infatti è la vita di Dio, che si è rivelata pienamente in Cristo Gesù! Dio non vive per se stesso, vive per gli altri. Infine, dalle parole del Signore emerge un’altra caratteristica della vocazione. Dio dice a Gedeone: «non ti mando forse io?». Gedeone deve andare con la sua forza, lo deve fare per tutto il popolo e non solo per se stesso, ma deve anche essere consapevole di non agire a titolo personale, ma perché mandato dal Signore. Prima della chiamata di Dio, Gedeone agiva per iniziativa personale, come sforzo della sua volontà, suo impegno; ora egli agisce sulla parola di Dio che lo chiama e lo manda. È una differenza fondamentale. Infatti solo ciò che facciamo «sulla parola di Dio» è fecondo e porta vita.
«Io sono il più piccolo»
Dopo queste parole del Signore, che tracciano il vero volto della vocazione, troviamo un’obiezione di Gedeone, elemento fondamentale di ogni vera vocazione: «Perdona, mio signore: come salverò Israele? Ecco, la mia famiglia è la più povera di Manasse e io sono il più piccolo nella casa di mio padre» (Gdc 6,15). L’obiezione di Gedeone riguarda le sue forze. Dio lo ha chiamato «uomo forte e valoroso», gli ha chiesto di mettere a sua disposizione la sua forza, ma Gedeone tutta questa forza non la vede. Egli afferma di essere il più piccolo della più povera famiglia della tribù di Manasse. Gedeone ha da ridire circa le sue capacità e la sua forza, si sente inadeguato per il compito assegnatogli dal Signore. Egli, come Geremia, come Mosè, come anche Maria nell’annunciazione, incentra la sua obiezione sulle sue forze, sulle sue possibilità. L’obiezione del chiamato in un primo tempo è tutta incentrata su di lui.
Ma Dio risponde spostando il suo sguardo: «Io sarò con te e tu sconfiggerai i Madianiti come se fossero un uomo solo» (Gdc 6,16). Il Signore in realtà ripete le parole dell’angelo. L’angelo gli aveva detto: «Il Signore è con te!». Ma ora le parole del Signore non risuonano più «strane» come quelle dell’angelo all’inizio, perché non sono più una frase fatta, un’espressione «da manuale». Ora la parola del Signore viene percepita da Gedeone come una parola unica che Dio rivolge alla sua vita, una chiamata personale. All’inizio la medesima espressione appariva disincarnata, non legata alla realtà; ora l’espressione «Io sarò con te», risuona come detta personalmente a lui dal Signore. Come si vede in molti altri racconti di vocazione questa è l’unica garanzia data da Dio al chiamato. Tuttavia un conto è sentirla affermare come frase fatta e disincarnata, un conto è udirla rivolta a sé personalmente da Dio. Questo è un aspetto fondamentale. In un cammino di discernimento vocazionale le frasi fatte, le espressioni «da manuale» non contano nulla, non sono significative… solamente quando un giovane sente una parola rivolta a lui personalmente dal Signore, allora può prenderla sul serio e rispondere alla chiamata di Dio. Una stessa espressione la possiamo ripetere centinaia di volte, senza che ci dica nulla. Solamente quando realizziamo l’importanza che quella espressione ha per la nostra vita, allora la possiamo accogliere come una parola nuova e lasciare che porti frutto nella nostra esistenza.
Il Signore dice a Gedeone di non guardare alle sue forze, di non fare affidamento sulla propria grandezza. Gedeone non vede in se stesso la forza che invece vede Dio. Il Signore gli dice: non guardare la forza che vedi tu, non seguire i tuoi criteri di grandezza, fidati di me e vedrai un’altra forza con la quale «sconfiggerai i madianiti come se fossero un solo uomo». Rispondere alla vocazione di Dio, discernere la sua chiamata, significa scoprire in noi una forza nuova, che solo Dio vede. È la forza della Parola, ciò che essa genera di nuovo nella nostra vita. La parola di Dio è creatrice e, se accolta, genera in noi una forza e una grandezza che solo gli occhi di Dio sanno vedere.
«Dammi un segno»
L’ultimo passaggio della vocazione di Gedeone è la richiesta di un segno: «Se ho trovato grazia ai tuoi occhi, dammi un segno che proprio tu mi parli» (Gdc 6,17). Anche l’elemento del segno è importante in un racconto di vocazione. Gedeone chiede un segno per avere la prova che sia Dio a parlargli. Che cosa vuol dire chiedere un segno? Certo non si tratta di chiedere un miracolo, come si potrebbe dedurre da alcuni racconti di vocazione. Qui ad esempio si dice che da una roccia sale un fuoco che consuma l’offerta del sacrificio predisposto da Gedeone.
Gedeone dice chiaramente che il segno serve per comprendere se è il Signore che gli sta parlando. Il segno in questo caso quindi serve per discernere la Parola, per capire da dove viene quella parola che il chiamato sente rivolta alla sua vita. Che cosa potrebbe essere allora il segno? Il segno in una vocazione è la vita stessa: il Signore non cessa di parlarci anche attraverso la nostra vita. Ci può essere una intuizione originaria della nostra vocazione, magari avuta in un momento di preghiera, nella lettura della parola di Dio. Ma poi questa intuizione originaria che il Signore ci ha donato nel rapporto personale con lui, con la sua Parola e nella preghiera, chiede di essere «verificata» dal confronto con la nostra vita concreta, guidati da qualcuno che ci accompagna: la vita dove ci sta conducendo? Certo non si tratta di segni miracolosi, ma di quei piccoli «miracoli» quotidiani da cui la nostra vita può essere segnata. Anche il discernimento di questi piccoli miracoli, di ciò che abbiamo vissuto, di ciò che desideriamo… può essere importante per comprendere se è veramente il Signore che ci parla. Spesso e a ragione, se pensiamo che Dio compia grandi miracoli o prodigi, siamo scettici a dire che il Signore manda dei segni. Tuttavia Dio non cessa di mandare dei segni, di compiere piccoli ma reali miracoli nella nostra esistenza, magari anche attraverso le persone che ci stanno accanto. Per il discernimento vocazionale è fondamentale aiutare un giovane a saper discernere i segni che confermano che è il Signore a parlare alla sua esistenza. Insieme all’ascolto della Parola, occorre saper vedere dove la nostra vita ci conduce: la vita concreta diventa il luogo nel quale discernere che quella Parola che abbiamo sentito rivolta alla nostra vita proviene dal Signore.
«Donami un cuore docile»
Se in Gedeone abbiamo potuto vedere la sincerità, in Salomone, possiamo invece riconoscere l’audacia dei giovani. Salomone è giovane, lo dice lui stesso: «sono solo un ragazzo, non so come regolarmi» (2Re 3,7). Egli, chiamato a governare sul trono di Davide suo padre, si sente inadeguato. Eppure la sua audacia giovanile gli dà la possibilità di non scoraggiarsi. Un giovane deve necessariamente sentirsi chiamato a fare cose grandi! Non sarebbe giovane se non fosse così. Dobbiamo lasciare ai giovani di essere audaci, di pensare in grande. Non possiamo fare diversamente perché anche Dio pensa così per loro, per la loro esistenza. Dio per primo vuole fare cose grandi in noi.
Ma dove si esprime l’audacia di Salomone? Il novello re si mostra audace nella preghiera: «Concedi al tuo servo un cuore docile, perché sappia rendere giustizia al tuo popolo e sappia distinguere il bene dal male; infatti chi può governare questo tuo popolo così numeroso?» (2Re 3,9). La preghiera è principalmente il luogo nel quale si esprime e si deve esprimere l’audacia dei giovani. In un percorso di discernimento vocazionale occorre una preghiera audace come quella di Salomone: essa è segno di vocazione. Solo chi sa chiedere cose grandi sta veramente ascoltando la parola di Dio. La preghiera infatti è frutto dell’ascolto: chi ascolta la Parola audace di Dio, non può che rispondere con una preghiera altrettanto audace.
Ma che cosa chiede Salomone? Egli domanda al Signore «un cuore docile», letteralmente «un cuore capace di ascolto». Ecco la domanda più audace che un giovane può fare a Dio: un cuore capace di ascoltare la sua Parola. È la domanda più audace che ci sia, la più coraggiosa. Infatti questa preghiera chiede un cuore disponibile a fare la volontà di Dio, un cuore libero da ogni resistenza, da ogni tentazione di fuggire davanti alla prova. È questa la preghiera audace da insegnare ad un giovane in discernimento: l’invocazione di un cuore capace di compromettersi fino in fondo con la Parola, senza resistenze, sapendo che la propria felicità consiste nel fare della propria vita, insieme a Dio, un’opera d’arte. Solo un cuore capace di ascolto ha il coraggio di intraprendere con Dio questa avventura.
Conclusione
Gedeone e Salomone ci insegnano altri due tratti della vita dei giovani che devono necessariamente entrare in un percorso di discernimento vocazionale: la sincerità e l’audacia. Rivolgendosi ai giovani papa Francesco afferma: «Amici, non aspettate fino a domani per collaborare alla trasformazione del mondo con la vostra energia, la vostra audacia e la vostra creatività. La vostra vita non è un “nel frattempo”. Voi siete l’adesso di Dio, che vi vuole fecondi» (CV 178). Non dobbiamo temere la sincerità e l’audacia dei giovani. Esse sono un dono per la Chiesa. Dobbiamo invece saper ascoltare le domande dei giovani, farci toccare dalla loro sincerità, per ringiovanire anche la nostra fede. Nel discernimento vocazionale sincerità ed audacia possono essere due elementi fondamentali per saper ascoltare la Parola giovane di Dio, che incontra la vita dei giovani.
MATTEO FERRARI
monaco di Camaldoli