Identità carismatiche più dinamiche e più nomadi
2023/9, p. 17
La vita religiosa è chiamata a ricercare una «identità in progresso».
Le istituzioni religiose sono umane, storiche, in divenire: dunque non vanno assolutizzate.
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VITA CONSACRATA OGGI
Identità carismatiche
più dinamiche e più nomadi
La vita religiosa è chiamata a ricercare una «identità in progresso». Le istituzioni religiose sono umane, storiche, in divenire: dunque non vanno assolutizzate.
Veniamo dal tempo in cui si pensava che la vita religiosa, essendo un evento di grazia spirituale, prescindesse da considerazioni che non fossero teologiche, ma invece, essendo anche struttura, in quanto tale gode e soffre di tutte le dinamiche antropologiche e sociologiche del farsi della realtà. Ne consegue che anche i modelli culturali con cui interpretiamo la realtà sociale della vita religiosa, sono costantemente soggetti al processo evolutivo, che richiama l’attenzione al fatto che la creazione non è ancora finita, ma sta continuando il suo processo.
Dunque mai come oggi le forme organizzative di convivenza che la vita religiosa fin qui si è data, sono sollecitate da profonde trasformazioni, oggi attardate dal non averne per troppo tempo ammesso la crescente precarietà, preferendo l’ostentazione della plurisecolare immutabilità, della quale oggi le nuove generazioni ci stanno presentando il conto con lo starne al largo.
Vita evangelica «in divenire» per essere generativa
Già Charles De Foucauld (inizi del ’900) ebbe a dire che la vita religiosa, per essere fruttuosamente ricercata, avrebbe dovuto prendere una nuova direzione, intendendo dire che per essere generativa non può essere nostalgica, non solo perché la nostalgia ha come effetto l’allontanamento dei giovani, ma perché «la vita adulta più sfiorita è quella che realizza soltanto i progetti della propria giovinezza».
Della necessità di cambiare, ne era convinto Giovanni XXIII il quale ebbe a dire: «possibile che non ci si accorga che nella Chiesa e nel mondo qualcosa deve pur cambiare? Con questo dire il papa intendeva mettere in luce che oggi la vita religiosa non ha altra possibilità che scegliere nuovi approdi.
Ora è papa Francesco a dire che la vita religiosa è chiamata a ricercare una «identità in progresso». Con l’invitare a perseguire questa nuova identità, non allude soltanto alla necessità di superare espressioni, pensieri e atteggiamenti obsoleti, ma anche al dover porre mano a tutto il sistema culturale che l’ha finora caratterizzata, per riformularlo a misura di una società ora completamente diversa, essendo lo stesso suo tessuto culturale a essere sentito fragile e smagliato. C’è dunque in questo l’invito a rinunciare ad appellarci a una presunta identità intangibile, perché le istituzioni religiose sono umane, storiche, in divenire: dunque non vanno assolutizzate.
Consapevolezzadi un mondo in continuo cambiamento
Non basta sapere che il mondo è cambiato, bisogna anche credere che continuamente cambierà.
Ma la difficoltà per la vita religiosa, come per la Chiesa, è data dall’essere erede di quel tempo in cui la formulazione di una data verità si possedeva e conservava tale e quale una volta per sempre, mentre ora la si deve cercare tra le pieghe del tempo che impone di ripensarsi daccapo e in radice. Ne era convinto anche Benedetto XVI il quale, nella Pentecoste del 2005, rivolgendosi agli aderenti ai nuovi cammini di vita evangelica, disse di intravedere l’elemento di merito nell’essere «discepoli in questo nostro tempo», intendendo così dire che l’efficacia dell’annuncio sta proprio nella capacità di misurarsi con gli attuali paradigmi, per il motivo che le risposte del Signore sono sempre all’interno di un «oggi», e per questo capaci di «mostrare quanto viva sia oggi l’azione dello Spirito Santo nel popolo di Dio».
Disse il teologo Carlo Molari: «noi siamo tempo, e il tempo non è semplicemente lo spazio del nostro operare, ma è l’ambito del nostro divenire», per cui «possiamo (dobbiamo) attenderci forme nuove di fraternità, di giustizia, di organizzazione sociale, perché a queste corrispondono delle qualità spirituali che ancora non sono sorte ma che stanno sviluppandosi».
Solo l’apertura al cambiamentopuò essere feconda
«Ma finora alla vita religiosa sono stati produttivi solo gli sforzi di non cambiare»
È questa l’amara constatazione di un gruppo di giovani religiosi/e del nord-est d’Italia, che con questa espressione hanno inteso mettere in luce che l’istituzione per sua natura è custode di prassi standardizzate negli anni, che hanno fatto perdere la capacità di pensare in modo alternativo, finendo con l’essere portatori e custodi di un patrimonio di pensiero irretito in un universo culturale di altri tempi perché caricato di propri principi, norme, sistemi di vita che non vanno al passo della storia, finendo con il portarsi ad essere più attenta all’ortodossia formale che a quella evangelica. Ed è così che l’irrigidimento dogmatico su cui si è costruita disomogenea rispetto alla società, l’ha resa incapace di suscitare nelle nuove generazioni il desiderio di essa. Da qui gli affanni di questi decenni, nonostante l’evidenza che la dimensione generativa le stesse venendo meno. È avvenuto che anziché portarsi a itinerari ri-fondativi, ha preferito le scelte agite in nome della paura di perdere ciò che le rimaneva, senza prendere sul serio il fatto che il suo patrimonio di sapienza stava bloccandosi in un modello di società che non c’è più, e su dei comportamenti che oggi faticano ad esprimere un valore. Nonostante la consapevolezza di ciò, si ha ora la sensazione che la preoccupazione dei Capitoli e Assemblee, anziché essere quella di ri-organizzare il «messaggio» della vita religiosa, si accontentino di accudire l’ultima stagione di comunità e province. Non può allora stupire se l’esito di questi ultimi sessant’anni non è quello della ripresa della fiducia, della speranza, del coraggio, a motivo – è detto nel documento Scrutate - del non essersi impegnati a «destabilizzare modelli e stili ripetuti nel tempo, incapaci di interloquire, come testimonianza evangelica con le nuove sfide e le nuove opportunità».
Attivare processi di corresponsabilità
Motivo di ritardo, è l’irrisolto dilemma tra Chiesa gerarchica e «Popolo di Dio».
È stato questo il punto che il cardinale di Chicago J. Bernardin, dopo il Concilio, vedeva come non più differibile per la Chiesa in tutte le sue espressioni.
Per contribuire alla soluzione di questo problema si dovrebbe partire dal pensare che se oggi l’agire democratico conviene alle società umane, perché non potrebbe essere di aiuto anche alla Chiesa? Sarebbe dunque fruttuoso prendere in considerazione il pensiero sociale contemporaneo non per conformare il pensare della Chiesa a quello della società civile, ma per discernere in che modo l’agire democratico possa servire alla Chiesa nel far accadere cose nuove, attivando processi di corresponsabilità sui problemi di tutti. È il corso della storia che ha fatto vedere che l'agire collettivo è strategicamente più performante; infatti i grandi movimenti di sviluppo sociale sono nati dalla base della società civile, come ad esempio il movimento dei diritti dei lavoratori, quello ecologico, pacifista, la difesa dell’uguaglianza tra uomo e donna: nessuna di queste imprese ha avuto l'impulso iniziale dai vari poteri in campo, ma da uomini e donne della base.
È certamente critico il termine democrazia preso nel senso etimologico di dominio, signoria, supremazia: termini equivoci da qualsiasi parte stiano, ma la Chiesa non può prescindere dal pensare come si possa esercitare l’autorità ecclesiale nel contesto di una società democratica qual è l’attuale, e come sia possibile raccordare il mondo della libertà personale con quello fortemente gerarchico della vita religiosa.
In ogni caso nel pensare alla soluzione di questa questione non si può prescindere dal fatto che è stato proprio Cristo colui che ha posto il principio di una nuova società a fondamento della sua Chiesa (cf. Mt 23,1-12).
Molteplici vie e forme
dalla vita battesimale alla sequela
La vita religiosa ha ora da confrontarsi con vari altri percorsi di accesso alla vita evangelica.
Uno dei motivi per cui stiamo assistendo al declino di uno spazio che delimitava l’esperienza discepolare del passato, è dovuto anche al fatto che attualmente la situazione di un mondo interdipendente, sollecita la ridefinizione di tante figure storico-culturali, sospingendo a una «visione» che non riduca tutto al mondo attorno a sé, in contrasto con la cultura sociale e giuridica moderna, ma faccia intravedere qualcosa di cui valga la pena avvalersi.
Oggi, in particolare, in riferimento alla vita religiosa, non è più possibile non essere rispettosi delle diverse misure vocazionali delle persone, con il ridurre le diversità ad un’unica misura. A proposito di ciò, p. Gabriele Ferrari, già padre generale dei Saveriani, riporta il dire di L. Bruni, il quale grazie alla sua conoscenza del mondo dei consacrati, si dichiara convinto che «qualsiasi futuro dell’esperienza spirituale religiosa non può oggi fare a meno di ripartire da una profonda riflessione, onesta e radicale, sulla comunità, con il coraggio di spingerla fino alle sue estreme conseguenze». La motivazione che p. Gabriele riportava, è che «la comunione intesa come riflesso della Trinità, come fraternità e collegamento vitale e affettivo fra i membri della comunità, è più importante della vita comune intesa come convivenza sotto lo stesso tetto. Da qui la necessità di uscire dai consueti discorsi sulla comunità che spesso rischiano di cadere nel legalismo o, anche peggio, in un fondamentalismo paralizzante».
Come reazione all’immobilismo in questo settore, a circa metà del ’900, hanno preso l’avvio nuove forme di vita discepolare, nate da laici e laiche che ponendosi la domanda dello scriba circa che cosa fare per avere più vita, hanno intravisto la risposta all’interno dei nuovi orizzonti ecclesiologici e sociologici che vedevano protagonista la laicità, la cui forza è stata anche nel saper rispondere a quelle domande cui la vita religiosa non aveva dato ascolto perché soddisfatta del proprio arcaico repertorio di risposte.
Da qui il sorgere di percorsi discepolari con configurazioni evangeliche più ampie e coinvolgenti, riponendo il bello e il buono della «sequela» non nell’appartenenza a mondi sacrali totalizzanti, ma nella trasparenza della «vita battesimale», l’unica in grado di inserire la vita delle persone nel dinamismo del disegno di Dio, in forza del quale, tutti, con pari dignità, partecipano, in forme diverse, del sacerdozio, della profezia e della regalità del Signore.
RINO COZZA CSJ