«Non dire: “sono giovane!”»
2023/4, p. 10
Geremia e Timoteo: la sfida della giovinezza.
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IL PIÙ GIOVANE NEL NOSTRO TEMPO
«Non dire: “sono giovane!”»
Geremia e Timoteo: la sfida della giovinezza.
Oggi la «giovinezza» è uno scandalo. Nel tempo dell’eterna gioventù, dove si rifiuta di essere adulti e tantomeno anziani, i «giovani veri» ci scomodano e ci spaventano. È più rassicurante una «vocazione adulta» rispetto a quella di un giovane che sente la chiamata del Signore a seguirlo nel tempo in cui è normale fare le scelte fondamentali della vita, avendo la libertà e la freschezza per poterlo fare senza essere «fuori tempo massimo». Il «giovane vero» – non quello che «si sente» giovane – ci ricorda, in fondo, che noi siamo vecchi e questo ci dà un po’ fastidio, suscita invidia; egli ci pone sfide nuove alle quali volentieri ci sottraiamo, perché richiedono l’impegno di entrare in dialogo e di cercare insieme risposte non preconfezionate.
Capita molto spesso oggi di sentirsi ripetere, fino a quarant’anni abbondantemente superati, «sei ancora giovane». La cosa potrebbe sembrare un complimento, lì per lì potrebbe anche far piacere. Tuttavia questa insistenza sull’affermazione circa la giovinezza di persone ormai entrate pienamente nell’età adulta da tempo, può nascondere in realtà la fatica ad accettare l’invecchiamento da parte di chi la pronuncia e in qualche modo il disagio davanti a chi dovrebbe «prendere il mio posto». È in realtà una «malattia» del nostro tempo quella di non saper invecchiare, di non riuscire a vivere bene le età della vita, ognuna secondo le proprie caratteristiche. Non vivendo serenamente e pienamente le età della vita, gli uomini e le donne di oggi, spesso finiscono per rendere difficile anche agli altri, soprattutto ai più giovani, l’ingresso nella vita adulta, nel tempo della responsabilità e della fecondità, perché è uno spazio che non vogliamo lasciare. Per poter essere sempre giovani, occorre che i giovani rimangano sempre bambini e come tali vengano trattati.
Sarebbe difficile affrontare il tema della giovinezza e della vocazione nella Scrittura in modo esaustivo: tante sono le prospettive, i linguaggi, gli approcci che si potrebbero indagare. Noi ci soffermiamo solo su due brani biblici tratti dai due Testamenti, nei quali la condizione del giovane viene letta in rapporto alla risposta alla propria vocazione. Incontreremo le figure di Geremia e di Timoteo. A entrambi questi giovani fa cenno papa Francesco in Christus vivit (CV 10. 15).
«Sono giovane». La vocazione di Geremia
Il primo testo che prendiamo in considerazione è la vocazione di Geremia, nella quale è il profeta stesso a muovere a Dio un’obiezione riguardante la sua missione a partire dalla sua giovane età. Dopo l’introduzione (Ger 1,1-3), segue la narrazione della vocazione profetica vera e propria nella quale possiamo riconoscere i passaggi principali dei racconti biblici di vocazione (Ger 1,4-10): l’iniziativa divina (v. 5), la resistenza umana (v. 6), il rimprovero e la rassicurazione (v. 7-8), l’atto fisico con cui si invia il profeta (v. 9a), il contenuto dell’incarico (v. 9b-10). Noi ci soffermiamo innanzitutto sugli elementi della resistenza del chiamato e la risposta di Dio, che tocca il tema della giovinezza, come impedimento alla risposta del profeta alla vocazione divina.
L’obiezione di Geremia (Ger 1,6)
In Geremia 1,6 incontriamo l’obiezione, la resistenza, da parte del chiamato. Di fronte alla chiamata di Dio che si presenta così profondamente radicata in lui, da precedere perfino il suo concepimento nel ventre materno, il profeta si dichiara inadeguato a causa della sua giovinezza: «Ahimè, Signore Dio! Ecco, io non so parlare, perché sono giovane (na’ar)».
Come sempre l’obiezione è un elemento fondamentale del racconto di vocazione e garantisce l’autenticità della chiamata. Se l’uomo non si sentisse inadeguato e indegno davanti alla chiamata di Dio, se non avesse la tentazione della fuga, la sua chiamata non potrebbe essere autentica. L’obiezione è fondamentale anche per «ricentrare» il senso della chiamata. Noi siamo tentati, di fronte alla Parola che Dio rivolge alla nostra vita, di valutare tutto a partire unicamente da noi, dalle nostre forze. Ma la parola di Dio ci invita invece a decentrarci, a trovare i criteri per accogliere la chiamata divina non in noi, ma in Dio. È un necessario decentramento al quale la parola di Dio ci chiama.
Ma in che cosa consiste l’obiezione di Geremia? Egli si definisce «giovane» (na’ar), un termine che indica un’età compresa tra i dodici e i vent’anni. Anche Salomone di fronte alla prospettiva di succedere al trono del padre Davide afferma: «Ora, Signore, mio Dio, tu hai fatto regnare il tuo servo al posto di Davide, mio padre. Ebbene io sono solo un ragazzo; non so come regolarmi. Il tuo servo è in mezzo al tuo popolo che hai scelto, popolo numeroso che per quantità non si può calcolare né contare» (1Re 3,7-8). Geremia, come Salomone, vive in un momento storico molto complesso, caratterizzato da grandi cambiamenti. Il profeta dichiarandosi giovane si riconosce incapace di avere una parola autorevole da rivolgere al popolo. Geremia riconosce di non avere né l’autorevolezza, né l’esperienza per svolgere l’incarico che il Signore vuole affidargli in riferimento alla sua Parola. Egli misura la sua capacità a partire da se stesso, dalla sua giovane età. Poiché è giovane non sarà autorevole di fronte a coloro ai quali sarà inviato e non avrà l’esperienza necessaria per muoversi nelle intricate questioni di corte, per comprendere la complessità dell’epoca in cui vive e le grandi sfide che la caratterizzano. Dire «sono giovane» significa, in fondo, affermare di non avere né esperienza, né autorevolezza. Una risposta saggia in fondo quella del profeta, che non è solamente un modo di sottrarsi alla chiamata divina, ma anche una invocazione di aiuto da parte di Dio. Ma, non dimentichiamo una cosa importante: è lui a dire «sono giovane», non sono gli altri ad affermare «sei ancora giovane»!
Un’obiezione che mette al centro unicamente Geremia, le sue forze, la sua esperienza, le sue capacità. È giustamente l’atteggiamento del giovane, che confida sulle sue forze e si ritrae di fronte ad una impresa che considera al di sopra delle proprie possibilità. La tentazione è quella di ritrarsi di fronte alla propria vocazione; di fuggire davanti a quella Parola che Dio rivolge alla sua vita. C’è un’età anche per rispondere alla propria chiamata. Non è esattamente vero che Dio chiama a tutte le età. Se si può dire che in ogni età della vita dobbiamo continuamente rispondere alla chiamata di Dio, alla sua Parola, tuttavia non tutte le età della vita sono uguali nemmeno da questo punto di vista. Ci sono dei passaggi nella vita nei quali è necessario dare risposte fondamentali; dove accogliere una Parola che dà un orientamento di fondo. Dio prende sul serio la nostra vita anche da questo punto di vista e chiede anche a noi di prenderla sul serio. Le età della vita non sono tutte uguali. In un’epoca nella quale spesso si pensa che si è giovani sempre, o meglio finché non è più possibile dire il contrario, l’esperienza della vocazione ci dice che c’è un’età decisiva nell’arco della nostra vita nella quale occorre dare risposte, per poter poi entrare in una fase pienamente adulta della nostra esistenza.
La risposta di Dio (Ger 1,7-8)
La risposta di Dio e la sua assicurazione non si fa attendere. Il giovane Geremia deve cambiare prospettiva! Geremia non deve dire «sono giovane», perché tutto dipende dal comando del Signore, non dalle disposizioni del profeta e dalle sue capacità e competenze. L’essere giovane non è un impedimento per rispondere alla Parola di Dio: «la dedizione del profeta Geremia alla sua missione mostra ciò che diventa possibile se si uniscono la freschezza della gioventù e la forza di Dio» (CV 11). Anzi, è il momento favorevole per certe risposte. Infatti, il Signore prosegue: «Tu andrai da tutti coloro a cui ti manderò e dirai tutto quello che io ti ordinerò. Non aver paura di fronte a loro, perché io sono con te per proteggerti» (Ger 1,7-8).
Il profeta non deve portare un messaggio suo ma solo quanto il Signore gli ordinerà di dire. E non dovrà avere timore davanti ai suoi avversari poiché il Signore sarà con lui per proteggerlo. Sono questi i due motivi che rendono inaccettabile l’obiezione di Geremia: deve portare una parola/missione che non è la sua e può confidare nell’assistenza/presenza del Signore al suo fianco. Anche a Geremia, come a Mosè (Es 3,12), non viene data nessuna altra assicurazione che la presenza di Dio al suo fianco. Anche più avanti nel libro di Geremia, questa garanzia che troviamo nel racconto della vocazione verrà ripetuta: «Di fronte a questo popolo io ti renderò come un muro durissimo di bronzo; combatteranno contro di te, ma non potranno prevalere, perché io sarò con te per salvarti e per liberarti» (Ger 15,20).
La garanzia di Dio non esprime unicamente l’assistenza divina nei confronti del profeta, ma afferma anche un’altra realtà fondamentale per la vita del chiamato. Il Signore non è solamente con Geremia, ma è con lui per proteggerlo (Ger 1,8), per liberarlo e per salvarlo (Ger 15,20): «Come è tipico della salvezza biblica, il salvatore stesso ha bisogno di essere salvato. È stato così per Mosè, il cui nome viene interpretato come “salvato dalle acque” (Es 2,10). Sarà così per Gesù, che non volle salvare se stesso, ma volle essere salvato dal Padre (cf. Le 23,35-36.39). Ed è così per Geremia: “Io sono con te per liberarti” (Ger 1,8); “Io sono con te per salvarti” (Ger 1,19). Perché sia chiaro che la salvezza non viene dall'uomo, ma soltanto da Dio».
Il segno: mi toccò la bocca (Ger 1,9-10)
Infine, troviamo un altro elemento tipico dei racconti di vocazione: il segno (cf. Ger 1,9-10). Si tratta di un gesto non molto lontano da quello che troviamo nel racconto della vocazione di Isaia. In Isaia è un serafino che tocca le labbra del profeta con un carbone ardente preso dall’altare; nel caso di Geremia è Dio stesso che tocca le sue labbra. È come un gesto esplicativo di quanto detto nelle assicurazioni: il Signore aveva detto a Geremia che avrebbe dovuto portare unicamente la sua Parola, ora, toccandogli le labbra, Dio esprime in modo visibile tale realtà. Poi il Signore spiega il gesto. Ha un duplice significato. In primo luogo il gesto di Dio nei confronti di Geremia indica che le parole del profeta provengono dal Signore e non da lui. Nelle parole di spiegazione del gesto troviamo una allusione alla figura del «profeta simile a Mosè» che viene descritta nel Deuteronomio e annunciata per i tempi futuri: «Io susciterò loro un profeta in mezzo ai loro fratelli e gli porrò in bocca le mie parole ed egli dirà loro quanto io gli comanderò» (Dt 18,18). La missione di Geremia viene raffigurata attraverso le medesime caratteristiche di questo profeta futuro: avrà sulla bocca la parola del Signore e dovrà dire unicamente quanto Dio gli comanderà. Viene sottolineata con forza l’obbedienza del profeta al comando del Signore.
In secondo luogo il Signore dice a Geremia che gli darà autorità sopra le nazioni e sopra i regni. Non solo il messaggio che il profeta è chiamato a portare deve venire unicamente da Dio, ma anche la sua autorità proviene dal Signore. Si riprendono in questo modo entrambi gli aspetti legati all’obiezione di Geremia di essere troppo giovane per accogliere la chiamata di Dio. Infatti, alla giovinezza è legato sia il fatto di non avere autorità, sia di non avere esperienza. Il gesto che Dio compie verso Geremia indica dove dobbiamo guardare per risolvere questa obiezione: verso il Signore e non verso il profeta. L’autorità del giovane Geremia e delle sue parole deriva unicamente dal Signore e dalla sua Parola.
«Non dire sono giovane»
«Non dire sono giovane», in fondo, significa: non rinunciare a dare la tua risposta al momento giusto alla Parola di Dio a causa delle tue paure o a motivo delle paure che altri generano in te. Oggi è tutta la società che ti dice: «sei ancora giovane», «sei troppo giovane». Ma il Signore a Geremia dice: «non dire sono giovane». Una proibizione divina che prende sul serio le età della vita e ci invita a non sprecarle. Dio non ci scoraggia, ma ci promuove e ci invita ad accogliere sfide grandi uscendo da una logica di ripiegamento su noi stessi e sulle nostre forze, per spingerci a vedere che non siamo soli. Se Geremia avesse aspettato di essere pronto, di aver acquisito saggezza, di aver fatto esperienza, non avrebbe mai accolto la chiamata di Dio, si sarebbe fermato perennemente alle soglie della vita. «Non dire sono giovane» significa mettere da parte ogni paura, provocata dall’esterno o auto-inflitta dall’interno, per entrare pienamente nella vita. È accogliendo questa parola che si passa da giovani a pienamente adulti. In fondo Geremia entra giovane nel colloquio con Dio e ne esce adulto. Si tratta di un aspetto che ci parla non solo di Geremia, ma anche di Dio. Dio ci vuole adulti e non eterni bambini. Egli cerca interlocutori adulti, che, consapevoli dei propri limiti, sanno accettare la sfida della vita e della risposta alla sua Parola che chiama, anche quando si è giovani, anzi, proprio quando si è nell’età delle grandi scelte della vita.
«Nessuno disprezzi la tua giovane età».
L’esortazione a Timoteo
Nella Prima Lettera a Timoteo troviamo il discorso che un maestro rivolge ad un suo giovane discepolo. La tradizione ha attribuito all’apostolo Paolo questo scritto rivolto ad un suo discepolo di nome Timoteo, che è chiamato a svolgere una funzione di guida all’interno della comunità cristiana, probabilmente quella del vescovo (1Tm 3,1ss.; 4,14). Si tratta quindi di uno scritto che si presenta come l’esortazione di un anziano nei confronti di un più giovane, di un maestro nei confronti di un discepolo. Qualcuno che ha tramandato qualcosa ad un altro e che ora desidera che ciò che è stato trasmesso venga custodito. È un testo nel quale emerge quindi il rapporto tra le generazioni; la relazione tra chi ha affidato un ministero e colui che lo ha ricevuto.
L’autore della Lettera esorta Timoteo, il suo discepolo, a farsi modello dei fedeli (cf. 1Tm 4,12-16). Egli afferma che nessuno nella comunità deve disprezzare la giovane età di Timoteo (1Tm 4,12). Afferma quindi che la «giovane età» non è un motivo di inadeguatezza ad un servizio di responsabilità all’interno della comunità cristiana. L’esortazione che qui l’Autore rivolge a Timoteo è indirettamente una indicazione alla sua comunità. Anche un giovane può essere d’esempio nella vita cristiana ed essere chiamato dal Signore a svolgere un ministero, a rispondere alla sua vocazione: «un giovane non può essere scoraggiato!» (CV 15).
Per essere di esempio, Timoteo deve dedicarsi a tre cose: «lettura, esortazione e all’insegnamento» (1Tm 4,13). Per «lettura» si intende la frequentazione delle Sacre Scritture. È il fondamento dell’autorevolezza di Timoteo: la lettura personale e comunitaria della Parola di Dio. L’autorevolezza di un ministro non deriva automaticamente dalla sua esperienza, dalla sua «anzianità», bensì dal suo rapporto con la Parola di Dio. La vera «anzianità» del credente non è anagrafica, ma legata all’adesione alla volontà di Dio, attraverso la frequentazione delle Scritture. È questo ciò che fa adulto il cristiano: l’ascolto della Parola di Dio contenuta nelle Scritture Sante. Per far diventare adulti nella fede, non basta aspettare che uno sia vecchio, ma insegnargli ad accostare le Scritture.
In secondo luogo, Timoteo deve «esortare» e «insegnare». Radicato sulla Parola di Dio, Timoteo potrà esortare gli altri ad una condotta conforme alla volontà di Dio e potrà insegnare la retta dottrina, far conoscere il volto di Dio. Si tratta di due azioni che hanno il loro fondamento sulla lettura della Scrittura. Anche un giovane, se radicato nell’ ascolto della Parola, può insegnare.
Ma per quale motivo l’Autore invita a non disprezzare la giovinezza del suo discepolo? Nessuno deve disprezzare la giovane età di Timoteo perché egli è «depositario di un dono» (1Tm 4,14). Il suo ministero non deriva dalle sue sole forze, da un suo impegno personale, ma nasce da un dono ricevuto, espresso dal gesto dell’«imposizione delle mani» da parte dei presbiteri. Non siamo lontani da quanto abbiamo visto a proposito della vocazione di Geremia profeta: anche egli è chiamato a non dire «sono giovane» perché la sua missione profetica non si fonda sulle sue forze, ma sulla chiamata e sull’azione di Dio. Per questo Timoteo è esortato a «non trascurare» il dono che ha ricevuto, a non sottovalutarlo. Si tratta di una esortazione molto bella di un maestro nei confronti di un discepolo. L’Apostolo non invita il discepolo a continuare a fare riferimento a lui e a dipendere da lui, ma a fondarsi unicamente sulle Scritture e a non trascurare il dono che ha ricevuto. È il vero compito di un maestro: aiutare a scoprire il dono; quel dono che ci fa adulti. Ognuno di noi è depositario di un dono di Dio che ci fa adulti e che ci spinge a non disprezzare nessuna età della nostra vita, ognuna con i doni che la abitano.
In questo breve testo possiamo riconoscere la dinamica del rapporto maestro/discepolo, giovane/anziano. È un rapporto di amore e di generosità; un rapporto di legami e di libertà: si tratta di farsi imitatori di Dio, che nella creazione non genera dei prolungamenti di se stesso, ma delle creature libere. Quanti oggi sanno dire, come l’Apostolo, «nessuno disprezzi la tua giovane età»? Quanti sanno vivere quella generosità che permette ad ogni generazione di esprimere se stessa e di «non trascurare» il dono di Dio di cui è portatrice? Se facciamo riferimento all’attribuzione paolina di questa lettera che la tradizione testimonia, Paolo nelle sue lettere spesso ha proposto se stesso come modello per i credenti delle sue comunità. Ora egli, forse anziano, propone a Timoteo di essere lui modello. Accetta che un altro continui la sua opera, con generosità e senza invidia della giovinezza del discepolo. Ora Timoteo deve farsi modello per i credenti, basandosi, non sull’esempio del maestro, ma sulla Parola di Dio.
«Il più giovane». Conclusione
I testi della Scrittura che abbiamo brevemente accostato ci parlano di una «giovinezza» che non è da vedere come un’età infinita nella quale non ci si può impegnare, ma di un momento fondamentale ed unico della vita nel quale si può in un modo rispondere alla chiamata di Dio per la propria vita e a riconoscere il suo dono. C’è un testo nella Regola di Benedetto molto significativo, quanto disatteso. Quando il Padre del monachesimo occidentale parla della necessità di convocare tutti i fratelli a consiglio per decidere ciò che riguarda la vita della comunità, afferma: «Abbiamo detto di consultare tutta la comunità, perché spesso è proprio al più giovane che il Signore rivela la soluzione migliore» (RB 3,3).
Ascoltare il più giovane è la condizione per ascoltare veramente tutti. Non è detto che il più giovane automaticamente abbia la soluzione migliore, ma occorre ascoltare tutti, proprio perché anche al più giovane, a colui che potrebbe essere considerato il più inesperto, il Signore può rivelare la soluzione migliore. Benedetto non fa una assolutizzazione del più giovane, ma sottolinea la necessità di ascoltare tutti, perché tutti possono portare un contributo alla vita della comunità che altri potrebbero non essere in grado di portare. E «il più giovane» ha una parola da dire, che nessuno può portare al suo posto. Una provocazione che ci può far riflettere sulla condizione del «più giovane» nel nostro tempo, nelle nostre comunità.
MATTEO FERRARI, monaco di Camaldoli