Luise Raffaele
La guerra in Ucraina
2023/7, p. 43
Mesi di distruzioni a tappeto. Gravissime fratture nel variegato mondo religioso ucraino. Terribile bilancio di una guerra folle. Nella seconda parte dell’articolo, l’autore anticipa per i lettori di «Testimoni», una porzione del II capitolo del libro che narra «L’esodo di un popolo. L’abbraccio di Leopoli: un Racconto di racconti. Una messa in trincea».

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DOPO 15 MESI
La guerra in Ucraina
Mesi di distruzioni a tappeto. Gravissime fratture nel variegato mondo religioso ucraino. Terribile bilancio di una guerra folle. Nella seconda parte dell'articolo, l’autore anticipa per i lettori di «Testimoni», una porzione del II capitolo del libro che narra «L’esodo di un popolo. L’abbraccio di Leopoli: un Racconto di racconti. Una messa in trincea».
La guerra scatenata da Putin in Ucraina, senza alcuna giustificazione, se non quella di reprimere col ferro e col fuoco la libera volontà di un popolo europeo di tornare in Europa, dopo i lunghi secoli dell’oppressione zarista e poi sovietica, sta facendo rivivere all’Ucraina gli orrori del nazismo e dello stalinismo. In questi lunghissimi 15 mesi da quel 24 febbraio 2022, abbiamo dovuto assistere a tremende fosse comuni, al rapimento di più di 16 mila tra bambini e adolescenti, alla distruzione di centinaia di scuole, asili, parchi giochi, supermercati, stazioni ferroviarie, di decine di migliaia di centri residenziali, di centinaia di bambini e decine di migliaia di donne giovani e vecchi in ogni parte dell’immenso Paese. Mesi di distruzioni a tappeto di infrastrutture civili, di campi di grano, di industrie e di centinaia di siti di gran pregio naturale. Ma nel terribile bilancio di questa guerra folle, vanno considerati danni se possibile ancora più atroci. «Come potremo ricostruire il rapporto con il popolo russo, al quale ci legavano profondi vincoli di parentela, di affetto, di lingua e di cultura?», si chiedevano decine e decine di profughi e sfollati e qualcuno ancora si chiede nella stupenda e cosmopolita Odessa. Ma non basta, perché l’invasione russa ha prodotto anche gravissime fratture nel variegato mondo religioso ucraino, dove convivono ancora l’ortodossia del Patriarcato di Kiev, quella che fino al luglio scorso era rimasta fedele a Mosca e che ora fa l’esperienza dell’attraversamento del deserto; e dove acquista ancora più centralità la Chiesa greco-cattolica, ponte «naturale» di dialogo ecumenico, con le sue due «appartenenze» al mondo dell’ortodossia e a quello latino, in cui è incardinata. Insomma, una guerra, quella di Putin in Ucraina, nel cuore dell’Europa e contro l’Europa, la cui portata sta cambiando il mondo. Una guerra, quella degli ucraini, di difesa e di resistenza coraggiosa e nobile, venata di un profondo spirito risorgimentale! Ed è quello che di essa ho capito, recandomi come giornalista, al tempo stesso vaticanista ed inviato di guerra, nel martoriato Paese, e attraversandolo tutto, in tre mesi di immersione totale sui primi sei mesi di guerra, da Leopoli a Kharkiv, a Dnipro, a Zaporidzdzya, a Kiev, a Odessa, e sui fronti più caldi, come quelli di Bakhmut e di Orihiv nel Donbass.
Un viaggio tra mille volti
Ne è uscito un libro, che Marietti pubblicherà per la fine di luglio, col titolo di Ucraina. Dentro una guerra che cambia il mondo.
Il libro è la narrazione di una catabasi, di una discesa nell’inferno dell’invasione, vissuta insieme alla popolazione brutalmente aggredita. Un viaggio dove protagonisti sono i mille volti incontrati e ascoltati sulla soglia delle loro case rase al suolo o negli scantinati dove una massa enorme di persone ha vissuto per mesi come in catacombe; e che è anche il racconto del grande coraggio di tutto un popolo che difende la libertà della patria, e al contempo dell’Europa e del mondo democratico. Il libro è l’avventura di un pacifista nelle atrocità di una guerra del tutto nuova che cambia -come abbiamo detto - il mondo, e che si svolge lungo la linea sottile di una drammatica lacerazione tra il riconoscimento della piena legittimità della resistenza ucraina e della sua vittoria contro l’invasore (ma non contro il popolo russo), e la preoccupazione di un riarmo delle democrazie (sullo sfondo di uno spaventoso aumento del mercato delle armi) e di una nuova Guerra Fredda che divide in due il mondo, tra «potere occidentale» e «potere orientale» di Russia e Cina. Lacerazione che approda, infine, alla necessità di una nuova formulazione del pacifismo e della solidarietà internazionale, oltre un pacifismo etico e di pura testimonianza. Il libro rivolge un’attenzione costante alle enormi distruzioni ambientali di questa vera e propria «eco-war», e situa la «guerra d’Ucraina» nel contesto della sfida più urgente e globale che il mondo è chiamato ad affrontare, quella ecologica e ambientale. L’autore, che è il decano dei vaticanisti Rai ed inviato di guerra (le sue numerose missioni in Ucraina ebbero inizio nella prima metà del fatidico 1989), dedica un’attenzione particolare all’aspetto religioso di questo conflitto, descrivendo il drammatico coinvolgimento dei diversi mondi religiosi, dall’ortodossia russa e ucraina, ai greco-cattolici, alla Chiesa di Roma e alla problematica azione di pace tentata da papa Francesco.
Un anticipo del racconto dell’esperienza diretta
Ero giunto a Leopoli, nel primo dei miei tre viaggi nell’ Ucraina in guerra, il 17 marzo, dopo un viaggio di due giorni con la piattaforma di aiuti umanitari «Mediterranea saving humans». Eravamo partiti da Bologna con sei van carichi di alimenti, medicine e vestiti, offerti dalla città e dalla diocesi (…) La sera del 16 marzo ci siamo, però, fermati a Medyka, 13 chilometri a sud di Przemysl, sul confine polacco con l’Ucraina, dove c’è il primo centro di accoglienza dei profughi che a migliaia e con ogni mezzo -in auto, pullman, ma li abbiamo visti arrivare anche a piedi- qui giungono stravolti, affamati, congelati, molti piangendo. Un esercito di volontari, polacchi e internazionali, li ricevono, gli prestano le prime cure, e insieme a loro decidono la destinazione di un esodo – che tutti sperano provvisorio – in Polonia o nei diversi paesi europei. Nel parcheggio del centro ci riuniamo a due pullman di «Mediterranea», che venivano da Napoli, carichi di aiuti, e che nella notte sarebbero ripartiti con un centinaio di profughi da affidare a istituti o a famiglie in diverse città d’Italia. In un gelo che morde, scarichiamo gli scatoloni e li portiamo nei magazzini della grande struttura. Occupata nel mezzo da un enorme spazio, controllato e protetto dai volontari, con centinaia di materassi ammassati sul pavimento, dove un’umanità sradicata, in prevalenza di donne e bambini, finalmente riposa -i bambini attaccati ai loro peluche- in attesa di conoscere il proprio destino. Ma nessuno dorme. La confusione è grande, ma il dolore ancora di più (…).
Al mattino successivo giungemmo poco dopo l’alba alla frontiera, proprio mentre tre esplosioni deflagravano nella zona dell’aeroporto di Leopoli (...) Città multiculturale e multireligiosa, da sempre europea. Offesa e ferita anch’essa dall’invasione, ma in un modo tutto sommato marginale, Leopoli ha subito aperto le braccia a una massa biblica di profughi da ogni angolo del Paese, come non si vedeva dalla Seconda guerra mondiale: ben dieci milioni di persone su un totale di quaranta, costrette a fuggire all’estero, e circa quattro milioni di sfollati interni! (…) Ed eccolo ora questo popolo ucraino in balia del terrore, un popolo di donne e bambini (perché la legge marziale trattiene in patria i maschi dai 18 ai 60 anni) radunarsi – da mille luoghi e con mille storie terribili alle spalle- nel vasto piazzale di fronte alla stazione ferroviaria di Leopoli che si stende fino al terminal degli autobus e oltre. Dove, già alla fine di febbraio, era sorta una incredibile cittadella, con le tende della Croce Rossa e di tante Ong internazionali, e un viavai continuo di gente che trascinava un solo bagaglio dove era stipato quanto gli era rimasto, e che mescolava borghesi delle città e contadini della steppa, sovente con un cane, un gatto o un topolino al seguito (…) Erano tutti partiti all’improvviso, abbandonando la casa, gli orti e gli animali al furore delle bombe e al saccheggio dei soldati, molti senza prendere neppure i documenti e alcuni senza sapere dove stessero andando. E tutti ora chiedevano, ai volontari, alla Croce Rossa, alle Ong, una destinazione in una nazione straniera e un posto sul treno o sul pullman per sé e la propria famiglia. E finalmente trovatili, li vedevi mettersi in fila, ordinatamente e con grande dignità lungo i binari del treno o al capolinea degli autobus, che portavano ben stampato il nome della città: Varsavia, Danzica e Cracovia le preferite. E praticamente tutti - paradosso amaro - parlavano russo! La gente di città, più spigliata e spesso con parenti o amici all’estero, faceva più in fretta a trovare un passaggio, chiedendolo direttamente ai volontari o alle Ong. Gli amici di «Mediterranea», in meno di due ore di febbrili trattative, hanno offerto il passaggio e l’accoglienza in diverse città e istituzioni italiane, a trenta persone, tra famiglie, donne sole e bambini feriti. Mirabile! La guerra – a suo dispetto – accende, più spesso di quanto si pensi, straordinari momenti di solidarietà, che spesso si fanno amicizia e anche amore. Per i numerosi contadini scappati dalle steppe del Donbass era molto più difficile. Senza alcun punto di riferimento o una qualche rete di protezione, estranei alla metropoli che un poco li impauriva, potevano stare lì anche qualche giorno prima di trovare un luogo che li accogliesse. Su due panchine di pietra, isolati da tutti, stavano raggruppate una ventina di persone appartenenti a una medesima famiglia, provenienti dal Lugansk. Avevano viaggiato una settimana con mezzi di fortuna. I nonni, i genitori, i nipoti e i pronipoti, stretti nelle coperte uno accanto all’altro per darsi protezione. Insieme, offrivano uno spaccato della realtà contadina dell’Ucraina profonda, le nonne vestite come le «babushke» russe, coperti da scialli pesanti per ripararsi da un gelo che infieriva anche a mezzogiorno. Anche loro senza documenti e senza sapere dove andare. Non conoscevano una parola di ucraino, parlavano solo russo. Stavano lì da un paio di giorni, ma avevano la forza di sorridere a chi si avvicinava per parlargli. I bambini giocavano attorno sotto lo sguardo attento delle zie e delle madri, coi giocattoli donati dalla Croce Rossa. Di fronte a loro, su un muretto, se ne stavano una donna in carne, il suo uomo e schiacciato al centro, tra la donna e il sacco con le loro cose, un cane, che stava praticamente seduto, con la faccia appoggiata alla sommità del bagaglio e la zampa destra ripiegata sotto la testa. Con quelle grandi rughe sul viso, sembrava un antico filosofo stoico che guardava la scena e si chiedeva il perché di quell’assurda situazione. E anche lui, come del resto tutta quella moltitudine di umani, non riusciva a capirci granché. Ma, nel mezzo di quella massa in movimento, mi colpì, per l’immensa solitudine che ispirava, Natalia. Aveva sui vent’anni ed era scappata dal suo villaggio vicino Sumy con il suo ragazzo, Anatoly, un trentenne con i denti già tutti rovinati. «Siamo saliti sul primo treno che partiva, senza sapere dove fosse diretto. Ci avevano detto che andava verso ovest, dove non si moriva sotto le bombe. Abbiamo lasciato la cascina, gli animali e i parenti, e anche i documenti» – mi dice – «Ma ora non sappiamo dove andare, non conosciamo nessuno. Siamo arrivati da due giorni. Ora vorremmo tornare a casa». «Ma non vi fa paura la guerra? Là potreste morire». «Certo che ci fa paura, ci terrorizza. Ma almeno lì abbiamo i nostri parenti, le nostre cose, gli animali», mi risponde, accarezzando il grosso topo bianco dalla lunga coda abbracciato al suo maglioncino. E gli sorride. Persa in un dramma infinitamente più grande di lei (…) Al primo binario della stazione, un gruppo di loro – in gran parte infermieri, medici, psicologi – aveva realizzato una «baby room», che accoglieva i bambini più piccoli e le loro mamme provenienti dalle zone di guerra. L’ambiente, molto vasto, copriva tutto il primo piano, ed era particolarmente protetto, dove anche i giornalisti faticavano a entrare. Io vi riuscii perché ero accompagnato da Petro, un salesiano del Centro don Bosco, dove risiedevo in quelle settimane di marzo. Due file di colonne dividevano il salone in più piccoli ambienti, che favorivano una sorta di privacy. Il pavimento era completamente ricoperto di materassi, coperte e giocattoli. Le bambine vi giocavano in piccoli gruppi. Ma qualcuna se ne stava appartata, e la vedevi parlare con grande serietà alla bambola, raccontandole probabilmente dolori indicibili ai grandi. Ogni tanto, chiudendo gli occhi, qualcuna di loro gemeva e un tremito convulso la scuoteva da capo a piedi. I maschietti, invece, correvano tutt’intorno e giocavano a nascondino o alla guerra. Guardavo i volti di quelle giovani mamme, e vi vedevo scorrere come un film in bianco e nero di puro orrore. Alcune erano state violentate, ad altre erano stati ammazzati davanti agli occhi il marito o un figlio, o tutti e due… storie indicibili. Alcune le vedevi improvvisamente correre al bagno a rigettare, la faccia stravolta da una pena che non passava. Valeria, molto bella, pur nel suo estremo pallore, con i ricci neri scomposti sulle spalle, accetta di dirmi qualcosa della sua storia. Ha bisogno di sfogarsi, di gettare via un poco del male che l’avvelena. Le infonde fiducia la presenza del sacerdote che parla la sua lingua. «Veniamo da Ochtescha, un villaggio presso Sumy, nel nord-est, non lontano dal confine russo. La guerra è arrivata come un fulmine che ha bruciato tutto: case, scuole, giardini e la nostra vita». Parla a scatti, il corpo snello scosso dai tremiti, e sottolinea le parole battendo le dita sul palmo dell’altra mano, come per catturare una realtà altrimenti irreale. Poi, con un filo di voce prosegue: «Improvvisamente, i soldati russi hanno fatto irruzione in casa, e tutto si è svolto come in un lampo: hanno ucciso davanti a me il mio Ivan, hanno gettato in terra mia figlia Rita -una bimba di 4-5 anni, che le sta attaccata come un’ombra- e si sono lanciati su di me…». E singhiozzando, cade sulla sedia. La lascio con Petro, e mi allontano. (…) Intanto si era fatto sera, e con Petro rientriamo al Don Bosco. In camera provo a riordinare gli appunti, ma le emozioni della giornata mi hanno travolto. Mi getto sul letto vestito e mi addormento subito, nonostante la sirena abbia ripreso a suonare, con una eco più cupa e lacerante qui sulla collina dove sorge il Centro dei salesiani greco-cattolici. Mi sveglia all’alba un meraviglioso odore di pane che si impasta in modo sconcertante con l’urlo di un altro allarme aereo. Questa volta scendo anche io nel seminterrato, adibito ora a rifugio. Mi ritrovai con un centinaio di donne e bambini, di ogni parte dell’Ucraina, che erano stati accolti dai padri salesiani nei sei piani dell’elegante complesso del Don Bosco. E c’era un bimbo, il piccolo Ivan, che si faceva spazio tra i materassi planando con le braccia spalancate come le ali di un aereo, imitandone con la bocca il rumore. Era il suo modo simpatico di scacciare il terrore, che riusciva anche a strappare qualche sorriso in quel buio scantinato (…) Di questo non ringrazierò mai abbastanza questa comunità. Che mi ha anche offerto la possibilità di incontrare i rappresentanti del mondo della cultura, dell’amministrazione di guerra, e delle diverse confessioni cristiane; e di recarmi in città sotto attacco, dove era rischioso andare, come Kiev, Kharkiv, Dnipro. E di andare anche in trincea, nel nord, tra Chernihiv e Sumy, accompagnato da un cappellano militare greco-cattolico, che vi andava spesso. Avvenne 2-3 giorni dopo la missione a Kiev.
Partimmo all’alba, dopo aver caricato il van bianco di generi alimentari e medicinali. Prendemmo verso sud, attraversando Ternopil, Vinnytsia, e poi risalendo verso Cherkasy e Poltava. Da qui proseguimmo verso nord per stradine malamente asfaltate, per qualche decina di chilometri; attraversammo alcuni paesi dal nome coperto, e, dopo aver infilato il giubbetto antiproiettile e il casco, prendemmo una pista di fango in aperta campagna, e ci fermammo infine sotto un piccolo rialzo di terra rossa, al riparo di un gruppo di alberi. Imbruniva. La mia guida fa tre rapidi segnali con i fari bassi dell’auto, convenuti in precedenza, e da lì a poco vediamo sbucare da una profonda cavità del terreno, coperta da una struttura di pali, due militari. Mi perquisiscono, e costatato che indosso avevo soltanto il passaporto (il telefonino doveva essere tassativamente spento), cominciano a scaricare il van, aiutati da altri militari, e poi scendiamo anche noi. In uno spazio né stretto né largo, sostenuto da pali, venti-venticinque soldati abbracciano e ringraziano il cappellano. Sanno di me. Al momento di concordare la visita, il religioso aveva loro assicurato che ero un giornalista che guardava con favore alla loro guerra per la libertà e ne scriveva sull’Osservatore Romano, il giornale del Papa. Sono in prevalenza giovani delle Forze di Difesa Territoriale, e c’è anche qualcuno di mezza età in carne e con la pancetta pronunciata. Nessuno di loro, tranne forse uno con un ciuffo di capelli neri che spuntava da un cranio pelato, ha l’espressione del guerriero feroce, ultranazionalista. Si dispongono, anzi, in semicerchio per partecipare alla messa a cui il cappellano, indossata la stola, dà subito inizio. Non ci sono canti, non ci possono essere, tutto deve avvenire in silenzio e alla luce fioca di un paio di lampade. Al momento della comunione, tutti si mettono in fila, con l’espressione che colpisce di chi si apre al respiro di una riflessione, di un ricordo, di un affetto, mentre fuori la guerra con il suo carico d’orrore e di morte per un istante tace. Infine, il salesiano benedice tutti, spruzzando con un rametto frondoso l’acqua santa sulla testa di ognuno. Poi ci sediamo in terra, e mangiamo insieme un dolce, bevendo caffè nero portato in un thermos. Ma dobbiamo ripartire il più presto possibile. Era nei patti. E così, dopo un rapido abbraccio, questa volta anche a me, ci scortano fuori fino al van. Ci allontaniamo, coperti dalla notte, velocemente, i russi sono nelle vicinanze. Poi, arrivati al villaggio più vicino, tiriamo un sospiro di sollievo e ci togliamo giubbetto antiproiettile e casco. Sapevo che quei soldati in prima in linea, in questa guerra divenuta rapidamente guerra di trincea, in quelle buche nel terreno, morivano a centinaia ogni giorno. Secondo le statistiche militari, più di cento nelle fila ucraine e un po’ di più in quelle russe. Ma sapevo anche che in queste postazioni avanzate non si facevano prigionieri. Si moriva in una mattanza senza pietà. Questo mi turbava profondamente. Non riuscivo ad accettarlo. E dunque, rompendo il silenzio in cui ci eravamo chiusi entrambi, dico alla mia guida: «Abbiamo celebrato il rito cristiano dell’amore, quei soldati vi hanno partecipato con convinzione, ma se capita loro di fare qualche prigioniero lo ammazzerebbero senza pensarci due volte! Capisco anch’io che in questo consiste l’orrore della guerra, ma non riesco proprio a mandarlo giù». «Ti capisco, è l’interrogativo che tortura anche me quando torno da queste missioni. L’uomo, e il cristiano in modo particolare, dovrebbe essere un operatore di pace. Ma scegliere la pace nel nostro caso avrebbe significato gettarci nelle fauci dell’orso russo e rimanerci per altri secoli ancora. Il pacifismo ci avrebbe annientati, e l’Ucraina non esisterebbe più, sarebbe uno Stato paria come la Bielorussia. Ma se scegli la libertà -e senza la libertà la vita non vale niente- e accetti dunque di reagire per difendere la tua terra, la tua famiglia, il tuo popolo da una feroce e ingiusta aggressione, per giunta da parte di una potenza imperiale che ti schiaccerebbe senza pietà, questa guerra poi devi cercare di vincerla. E se facessi prigionieri in queste postazioni avanzate, così fragili e difficili da mantenere, come ti muoveresti, saresti libero di attaccare o anche libero di retrocedere su posizioni più difendibili? Non presteresti il fianco al nemico, e alla lunga non perderesti la guerra? Senza contare che in quelle trincee la tua vita è appesa a un filo, e che a casa ti aspetta una moglie, un bambino».
«Sì, capisco tutto questo, e sono d’accordo anche sul fallimento del pacifismo. Ma in nessun caso è lecito uccidere una persona indifesa. Non comprometteresti, in questo modo, il valore della possibile vittoria, rischiando di macchiare la nascita della “nuova” Ucraina?». «Io credo – mi risponde- che in guerra non ci siano i buoni da una parte e i cattivi dall’altra. C’è solo chi sta dalla parte giusta e chi dalla parte sbagliata. Ma questo non significa che io giustifichi queste nefandezze. Non le giustifico, non le posso giustificare, tanto più come sacerdote. Vorrei che non ci fossero. Però le capisco». «Vorrei poterti dire -aggiunsi- che questo è il fallimento proprio di qualsiasi guerra, e anche il fallimento del cristianesimo. Ma riconosco che senza questa reazione armata l’Ucraina avrebbe cessato di esistere, e il virus dell’imperialismo russo sarebbe dilagato in Europa. E tuttavia, mi rimane estremamente difficile anche solo comprendere la soppressione dell’inerme».
Un silenzio ancora più pesante di quello di prima cadde nella cabina del van e ci accompagnò per tutto il lungo viaggio di ritorno. Ma rimango infinitamente grato a quel cappellano militare, al suo coraggio e al suo tormento.
RAFFAELE LUISE