CHARANKATT SOLOMON PHILOMINA
«Il dolore delle detenute è il mio dolore»
2023/7, p. 9
L’ancella dei poveri Philomina, va in carcere ogni settimana per incontrare le detenute: «Dietro agli errori commessi si nascondono tragedie umane». Insieme alle consorelle, la consacrata ospita tre donne che beneficiano dell’affidamento. Questa testimonianza è frutto anche della condivisione del Vangelo, insieme a Mario Chiaro, nella sezione femminile del carcere della Dozza di Bologna.

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INTERVISTA
«Il dolore delle detenute è il mio dolore»
L’ancella dei poveri Philomina, va in carcere ogni settimana per incontrare le detenute: «Dietro agli errori commessi si nascondono tragedie umane». Insieme alle consorelle, la consacrata ospita tre donne che beneficiano dell'affidamento. Questa testimonianza è frutto anche della condivisione del Vangelo, insieme a Mario Chiaro, nella sezione femminile del carcere della Dozza di Bologna.
Philomina è indiana, nata in Kerala 61 anni fa. È una consacrata delle Ancelle dei Poveri e vive a Bologna. La sua vita è una missione. Tutto il suo tempo e la sua attenzione sono rivolti ai poveri, agli anziani, ai detenuti. Vive per portare speranza nel cuore della gente e lo fa ogni giorno, quando opera al fianco dei frati Cappuccini nella infermeria di Reggio Emilia o quando si reca nelle carceri, ogni martedì pomeriggio, per sedere al fianco delle detenute e commentare insieme a loro il Vangelo. Scandisce con attenzione le parole mentre racconta le incredibili avventure che l’hanno portata a vivere quell’inattesa chiamata di quarant’anni fa, una chiamata misteriosa che le ha scaldato il cuore e ha dato un senso all’esistenza. La sua voce è calma, il suo accento straniero la preoccupa quando le chiedo di ripetere le frasi che non capisco bene. Ci tiene molto che le cose siano chiare, precise. Ma quando arriva a descrivere il dolore incontrato nelle carceri, tra i detenuti e le detenute con i quali condivide emozioni e tormenti, la voce le si strozza e scoppia a piangere: «Mi scusi – dice – ma se sapesse il dolore che ho potuto toccare con mano in questi anni dietro a quelle sbarre… La gente, io per prima, non sa che dietro agli errori commessi si nascondono delle storie, spesso delle tragedie umane di cui nessuno parla. Ragazze poverissime che arrivano in Italia pensando di trovare un lavoro per mantenere la propria famiglia di origine, e che invece vengono sbattute per strada a prostituirsi e a spacciare droga»: ora piange più forte, si scusa di nuovo, e manca il respiro ascoltando l’empatia delle sue parole, sembra per un attimo di trovarsi rinchiusi dietro alle stesse sbarre di cui parla, non tanto quelle di un carcere penitenziario ma di una vita in schiavitù. «Vorrei solo che la gente capisse che le detenute hanno sbagliato, ma stanno anche facendo un percorso per riabilitarsi, e che hanno diritto ad essere perdonate e reinserite nella società. Hanno diritto a sperare di avere un futuro e, soprattutto, a stare al sicuro».
Philomina non possiede niente, a parte la fede che si porta nel cuore e una forza di volontà inversamente proporzionale agli anni che passano: «Quando ero bambina non pensavo per niente di diventare una consacrata. Avevo quattro sorelle, tutte sposate, provenivo da una famiglia abbastanza benestante; ero sicura che mi sarei sposata anche io. Poi però, a vent’anni, ho avvertito qualcosa dentro di me. Io che ero sempre stata una giovane allegra e scherzosa, improvvisamente iniziai a sentirmi turbata. Sognavo ogni sera di camminare lungo una strada e di vedere intorno a me la sofferenza delle persone. E il loro soffrire, tutto quanto, diventava via via anche il soffrire mio».
Cosa fece allora, Philomina?
Andai dal sacerdote che conosceva la mia famiglia. Lui mi chiese perché mi sentissi così, ma io non sapevo rispondere. Gli dissi solo che pensavo di voler dare la vita al Signore e di andare lontano dalla mia città e dalla mia terra, perché il legame con la famiglia di origine era molto forte e mi avrebbe impedito di operare liberamente. Allora lui mi diede un foglio con sessanta domande; mi spaventai, pensai che non avrei saputo rispondere, seduta in un angolo con quella penna nella mano che tremava tutta. Allora ho chiesto a Dio di aiutarmi e Lui mi ha guidata. Accadde poi che il prete, insieme ad una consacrata convocata per l’occasione dal Nord dell’India, venne a casa per parlare con i miei genitori. Rimasero tutti con la bocca aperta, mia madre pensò che fossi impazzita. Ma io quella volta combattei molto per ottenere quello che desideravo. Le dissi che la vita era mia, che il richiamo dentro al mio cuore era troppo forte per non rispondere. Le dissi anche che il matrimonio, per me, sarebbe andato a finire male perché non era la mia vocazione.
Cosa accadde dopo?
Nel 1982 partii per una terra lontana del Nord dell’India, verso una missione durissima, insieme ad una consacrata e ad altre sei ragazze come me. Feci tre giorni e tre notti di viaggio per andare in un posto dove i cattolici erano pochissimi, il clima rigidissimo (tra i 40 e 50 gradi in estate) e il cibo scarso. La lingua era diversa, al tempo non sapevo ancora parlare l’hindi. All’inizio la nostalgia di casa era tanta, ma ero determinata a diventare una consacrata per aiutare coloro che avevano davvero bisogno. Ci ho messo quattro anni per ottenere una professione semplice, e dopo sei anni di cammino sono diventata una consacrata perpetua. Ho partecipato a missioni di anni nel Nord dell’India, durante le quali educavamo le donne e i bambini nei villaggi, insegnavamo loro anche i principi sanitari dell’igiene e praticavamo le vaccinazioni, perché in quelle zone non c’era nulla. Poi nel 1992 la mia direttrice generale mi ha chiesto se volevo andare in missione in Etiopia. Per sei anni sono stata a contatto con una vita di sofferenza, povertà e malattia, a causa della guerra. Dopo quell’esperienza la mia direttrice generale mi ha proposto di recarmi nella comunità di Bologna per aiutare le mie consorelle, e da subito ho iniziato a recarmi in carcere a cercare di portare sollievo ai detenuti.
Perché proprio in carcere?
Prima di partecipare alla missione in Etiopia avevo disprezzo per i carcerati, che avevano infranto la legge ed erano arrivati a fare del male al prossimo. Ma un giorno vidi dei deportati che trascinavano catene pesantissime alle caviglie. La loro sofferenza era immane. Allora ho chiesto perdono a Dio per i pensieri che avevo avuto e ho promesso che mi sarei messa anche al servizio di coloro che hanno sbagliato, ma che stanno compiendo un percorso di riabilitazione. Quando vado in carcere vedo tanto dolore, ma il Signore mi aiuta a portare speranza e luce.
La sua vita è stata molto avventurosa e anche dolorosa…
La mia vita è stata una vita fantastica. Ho patito e assistito a tanta di quella sofferenza che non saprei neanche descrivere a parole. Ma se mi guardo indietro, tutto ciò che vedo sono solo gioia e pace: la mano di Dio ha scelto il percorso giusto per me.
Attualmente ospitate alcune detenute nel vostro istituto?
Sì, tre donne che beneficiano dell’articolo 21, dell’affidamento o semi libertà. Ricordo che quando ho proposto alla comunità di consorelle di prendere le detenute con noi, tutte avevano un po’ di paura. Ma adesso queste ragazze sono una gioia per noi, una parte effettiva della nostra famiglia. Noi sorelle siamo cinque, ma quando le persone ci chiedono in quante abitiamo la casa rispondiamo otto, perché passiamo il Natale e la Pasqua insieme, festeggiamo i compleanni davanti ad una bella torta e, come una famiglia vera, condividiamo tutto. In passato loro hanno sbagliato, ma ora stanno imparando a costruirsi una nuova vita, studiando e lavorando regolarmente.
Mentre con le detenute che si trovano ancora in carcere, come si comporta?
Vado a trovarle ogni martedì, resto con loro diverse ore. Insieme ad altri due volontari facciamo la lettura del vangelo, lo commentiamo e poi parliamo: ognuno dice la sua, chi vuole partecipa, chi non vuole è libera di non farlo. Ogni volta è un’emozione stupenda. Con il sostegno di un avvocato, cerchiamo anche di aiutare le detenute che si trovano in difficoltà, parlando con tutte le figure di riferimento interne al carcere e con quelle esterne.
Quando ha deciso di proporsi per l’affidamento delle detenute?
Quando, recandomi in carcere a trovarle, le ragazze hanno cominciato a chiedere di prenderle con me in affidamento. Loro finiscono la mezza pena e se tutto va bene hanno la possibilità di essere accolte fuori dal carcere, in una comunità. Non sopportavo più la tristezza nei loro occhi, e sapevo che in casa avevamo tre camere libere per ospitare altre consorelle in visita o darle in affitto ad eventuali studenti. Ma noi siamo sempre state tutte d’accordo sul fatto che dobbiamo prima di tutto aiutare le persone bisognose. Le detenute che negli anni abbiamo ospitato, inizialmente provavano un poco di paura: qualcuna di loro è straniera e di fede religiosa differente, non sapevano cosa aspettarsi, ma subito si sono sentite accolte, protette, amate. Tutte sanno che se vogliono restare con noi devono comportarsi bene, impegnarsi nel lavoro e nello studio, dimostrare il desiderio di recuperare la propria vita.
È mai capitato che una delle vostre ospiti abbia disatteso le aspettative?
Sì. Una ragazza che, dopo quasi un anno, ricominciò a fare uso di droghe e a quel punto è dovuta ritornare in carcere. Se si comportano male, se non seguono le regole, non possono restare con noi. Se invece scelgono di lavorare e di avere un futuro onesto, diventano per noi delle vere e proprie sorelle. Vivono con noi e sono la nostra gioia. Quando finiscono di scontare la loro pena e vanno via, rimangono in contatto, ci vediamo fuori di tanto in tanto per mangiare la pizza insieme e ritrovarci. Amiamo dare loro la possibilità di avere una vita e un futuro sereno, cerchiamo di essere sempre a casa quando tornano dal lavoro in modo che trovino qualcuno ad aspettarle. Chiunque avrà lasciato case, o fratelli, o sorelle, o padre, o madre, o figli, o campi per il mio nome, riceverà cento volte tanto e avrà in eredità la vita eterna. (ndr. sr. Philomina recita il suo passo preferito del vangelo secondo Matteo, capitolo 19, versetto 29). In carcere la sofferenza è troppa, il tempo si muove triste e lento. Quando vado a trovare le detenute entro che sono felice ed esco con la testa che duole. Ma nel corso degli anni ho visto tante donne rinascere e ritrovare il senso della propria vita.
CHARANKATT SOLOMON PHILOMINA,
ancelle dei poveri