De Francesco Ignazio
Dialogare sulle sponde del Mediterraneo
2023/6, p. 39
Un autore e i suoi nodi.

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Testimoni
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I NODI IRRISOLTI DEL PENSIERO ARABO
Dialogare
sulle sponde del Mediterraneo
Un autore e i suoi nodi
Tutto inizia vent’anni fa, sulle sponde del Barada, che ai tempi biblici si chiamava Parpar, il fiume entrato nel racconto della guarigione prodigiosa di Naaman il Siro (2Re, 5). Siamo a Damasco, e da quel fiume si percorrono poche centinaia di metri, su via Abu Rummanah, per raggiungere l’edificio dell’Institut français du Proche-Orient, un centro d’eccellenza per gli studi di arabistica e islamologia. Ci arrivano studiosi da tutto il mondo, e lì trovano una biblioteca fornitissima, a piano terra, e un corpo docente di grande valore. Tra questi anche Maher Charif, classe 1950, palestinese membro di una famiglia fuggita nel ’48 dalla terra natale, la Galilea, e stabilitasi in Siria. Avevo bisogno di uno così. Venivo da sei anni trascorsi in Palestina, in un piccolo villaggio sopra Ramallah, in un periodo storico frenetico, al centro del quale c’era la seconda Intifada, o Intifada dell’Aqsa, nota per il tragico bilancio di vittime. Per noi, testimoni diretti di quanto avveniva, c’era anche la lacerazione interiore, prodotta dallo scontro tra identità ebraica e identità palestinese, alle quali – entrambe – siamo legati.
L’incontro con Maher Charif è stato dunque cruciale: un palestinese totalmente solidale con il suo popolo ma al tempo stesso dotato di uno spirito critico che non fa sconti a nessuno, neppure ai suoi, inoltre proiettato oltre i confini del proprio cortile, per guardare in modo più ampio il mondo arabo e le sue connessioni con il resto del mondo. Mi son detto: questo autore merita d’essere conosciuto in Italia. Così ho curato, con il contributo di Paola Pizzi, l’edizione italiana di Storia del pensiero politico palestinese, uscita presso Zikkaron nel 2018, una documentazione minuta, anno dopo anno, dell’interrogazione dei palestinesi su se stessi e sull’Altro, gli ebrei-israeliani. Quattro anni dopo, autunno 2022, abbiamo pubblicato I nodi irrisolti del pensiero arabo (ed. Punto Rosso), piccolo ma denso testo, che ha visto un grande concorso di persone nelle presentazioni pubbliche fatte a Venezia, Pavia e Bologna. Tanti i giovani e sorprendente la voglia di dialogare sui tre nodi di questo libro: Palestina, riformismo, jihad.
Palestina, riformismo, jihad
Maher Charif è stato membro del partito comunista palestinese e, in seguito, del gruppo riformatore interno che ha dato vita al partito del popolo palestinese. Questa è dunque la sua collocazione politica, in un’area di nazionalismo laico che da tempo ha scoperto la necessità di trattare con la controparte ebraica-israeliana per giungere a una soluzione pacifica del conflitto. Il nodo nasce a due livelli: da una parte l’emersione di un nazionalismo religioso palestinese, legato ai gruppi radicali islamici, dall’altra la posizione vieppiù intransigente dei governanti israeliani e di quella parte di popolazione lanciata alla conquista dei territori palestinesi attraverso le massicce attività d’insediamento, pur illegali secondo il diritto internazionale. Situazione disperata e disperante, dalla quale non si vede uscita. Secondo Charif bisogna però guardare avanti, partendo da un dato concretissimo: la demografia. Nei confini della cosiddetta «Palestina storica» vivono circa 14 milioni di persone, quasi perfettamente ripartite tra ebrei israeliani e palestinesi. La parte oggettivamente più debole è quindi rimasta, e anzi le statistiche dicono che cresce maggiormente dell’altra. Che cosa sarà tra cinquanta, cento anni? Charif non vede oggi alcuno spazio per la fondazione di uno stato palestinese, così come non ritiene possibile abbandonare il progetto dei due stati e orientarsi alla soluzione dell’unico stato. A suo avviso bisogna creare le condizioni di una resistenza di diverso tipo, non militare ma economica, sviluppando cioè le capacità del popolo di provvedere a se stesso, di crescere culturalmente e civilmente, in attesa che la libertà fiorisca.
Il secondo nodo è il riformismo arabo, riformismo religioso e politico, due dimensioni intrinsecamente collegate. Maher Charif si qualifica come specialista di storia del pensiero, anche per questo tema segue quindi lo sviluppo che si dipana dalla fine dell’800 sino ai giorni nostri, in particolare le «primavere arabe», che una decina di anni fa hanno portato in piazza milioni di giovani, nelle capitali del Medio Oriente e del Nord Africa. Charif vede in questi giovani il riemergere delle intuizioni di autori come Muhammad Abduh e Jamal al-Din al-Afghani, musulmani convinti ma al tempo stesso aperti a tutto ciò che di buono può venire dall’Occidente, in particolare gli ideali di uguaglianza e modernizzazione sociale. Secondo la sua lettura, i regimi arabi succedutisi dopo la Seconda guerra mondiale hanno imposto una modernizzazione dall’alto, parziale e a spese della democrazia e delle libertà individuali. Ciò ha contribuito, insieme al nodo dei rapporti con Israele, a paralizzare per lunghi anni il movimento riformista, allontanando i giovani dalla politica. Le «primavere arabe» sono state come il riemergere confuso della brace sotto la cenere delle dittature, ma si può sperare che da esse si propaghi un fuoco benefico, che ravvivi il torpore di queste società?
Strettamente collegato è il terzo nodo trattato nel libro, la questione del jihad. Tema che ha occupato per anni le cronache dei nostri giornali e ha versato benzina sul fuoco di letture anche fortemente unilaterali: l’islam religione fondamentalmente violenta, il jihad parte del DNA di ogni musulmano. Lo storico palestinese mostra in modo chiaro l’esistenza di due correnti: quella del jihad difensivo ritiene che si possa imbracciare le armi solo in caso di ingiusta aggressione, e che inoltre la chiamata alle armi spetti a chi si trova costituito in autorità. A questa si oppone la corrente del jihad offensivo, che fa della lotta armata uno strumento di espansione territoriale e di diffusione della religione. In questo quadro si inserisce il problema delicato del titolare del diritto a proclamare la mobilitazione, così come quello dell’individuazione dei soldati del jihad. Il capo di una cellula militare e i suoi seguaci, che appaiono totalmente anonimi e dispersi in qualsiasi contesto sociale, possono dunque entrare improvvisamente in azione. Anche per questo nodo, la strategia sicuritaria è assolutamente insufficiente: è la democrazia, la giustizia internazionale, la cura degli strati più deboli, ciò toglie terreno ai proponenti del jihad offensivo.
Risonanze e approfondimenti
Il vivace dialogo tra il pubblico italiano e l’intellettuale arabo/palestinese è stato specchio di un altro elemento di questo piccolo ma denso volume, che già nelle sue pagine ospita un’esperienza di dialogo a distanza. Nella seconda parte intervengono infatti alcuni dei migliori specialisti italiani per offrire risonanze e approfondimenti sui temi trattati da Maher Charif: Isabella Camera d’Afflitto e Simone Sibilio parlano di Palestina. La prima, in particolare, tocca il tema della letteratura palestinese, della quale è la specialista italiana «storica». Parla di autori come Ghassan Kanafani ed Emile Habibi, che aprono al lettore panorami straordinari, dove identità ebraica israeliana e palestinese si intrecciano in modo doloroso e affascinante. Edoardo Baldaro parla del trasferimento del jihad nel cuore dell’Africa, quindi lontano dall’epicentro arabo, e mostra come la via della violenza sia il catalizzatore di un complesso di problemi politici, economici e sociali. Paolo Branca riflette sul percorso del progetto riformista, dal suo sorgere, mentre la giornalista Azzurra Meringolo offre una testimonianza preziosa sulla «primavera araba» al Cairo, che ha seguito in diretta durante i suoi studi di dottorato. Azzurra conferma le conclusioni di Charif circa il legame di quei giovani con le intuizioni fondamentali del riformismo islamico, anche se la mancanza di coordinamento e di un programma coerente, ha facilitato molto le cose per chi ha fatto tutto il possibile per ricacciare la brace sotto la cenere.
Il nodo della trasmissione della memoria
Nel quadro di queste risonanze rientra anche l’ultimo capitolo, del quale sono l’autore, dedicato alla trasmissione della memoria alle giovani generazioni di palestinesi. È un altro nodo significativo: come e che cosa si trasmette della Palestina alla cosiddetta Generazione Z, ragazze e ragazzi palestinesi nati nella prima decade del 2000? Quale lezione si ricava dalle date? La risposta può percorrere una varietà di strade, dai racconti domestici alle relazioni sociali sino alle reti virtuali. Mi sono concentrato a ricostruire la narrazione offerta da un canale assolutamente «istituzionale»: il programma di storia oggi in uso nelle scuole palestinesi pubbliche e private. Si tratta di quindici manuali, tra 70 e 130 pagine ciascuno, formato 20x26, due per anno dalla quinta all’undicesima classe, più il singolo della dodicesima, che prepara all’esame di maturità, chiamato tawjīh. Dalla quinta alla nona classe il titolo in copertina è Studi sociali; in decima, La geografia della Palestina e la sua storia moderna e contemporanea, mentre si chiama Studi storici in undicesima e dodicesima classe. L’editore è il «Ministero dell’educazione e insegnamento dello Stato di Palestina», che ha pubblicato nel 2018 l’ultima edizione in corso.
La Palestina compare per la prima volta nel manuale di 5° a: tratteggiando le epoche più remote del pianeta terra si cita la civiltà natufita, area archeologica a nord di Ramallah dove sono state scoperte tracce di insediamenti umani risalenti a 10-12mila anni fa. Nel primo manuale di sesta classe, la narrazione sul «passato remoto» compie un importante passo avanti, legando il nome «Palestina» a quello di «Canaan»: «Palestina è stata chiamata terra di Canaan, come risulta dalle Lettere di Amarna in Egitto, circa 15 sec. prima di Cristo. I cananei sono le tribù arabe migrate dalla Penisola Araba e insediatesi nella regione dello Sham» (6° a, p. 50). È ai cananei che si fanno risalire i primi centri urbani della regione. «Gerusalemme» deriva da «Urū Sālim, divinità cananea della città» (6° a, p. 52). Quanto alla denominazione Palestina, essa discende da «Filistei», popolazione stabilitasi sulla costa meridionale della regione. Quella che emerge dalle nebbie della storia è dunque, complessivamente, un’identità originariamente araba della regione, ben sintetizzata dal titolo del primo manuale del sesto anno, in capo alla sezione che descrive l’area geografica tra Bilad al-Sham, Iraq e Nord Africa: La patria araba, culla delle antiche civiltà.
Su questa linea, il manuale successivo tratta, in tre lezioni, La vita degli arabi prima dell’islam e nelle sette successive Il sorgere dello stato islamico, giungendo a descrivere la conquista islamica della Palestina e della sua capitale Aelia nel 636, allora in mano ai bizantini, quindi senza riferimento al nome Gerusalemme. L’impressione globale è dunque quella di un salto di secoli, dall’epoca cananaica più remota al VII sec. d.C.: in questo modo è l’elemento arabo a costituire il punto di convergenza della narrazione e a preparare il passaggio dall’identità etnica a quella specificamente religiosa, cioè islamica. In questo contesto, la migrazione ebraica in Palestina è strettamente legata all’assalto coloniale dell’Occidente all’Oriente arabo, aggressione partecipata anche dalle missioni cristiane, prima protestanti, poi cattoliche e ortodosse «guidate dalle potenze europee coloniali con il motivo della diffusione del cristianesimo, e che sono una delle forme dell’invasione culturale delle società arabo-islamiche» (vol. 10° a, p. 78). Lo spazio disponibile non ci consente di allargarci ulteriormente su questo tema cruciale, e chi è interessato lo potrà trovare trattato nei particolari nel libro cui è dedicata questa presentazione. L’impressione che si può ricavare, a colpo d’occhio, è quella di una memoria che necessita di nuove elaborazioni e di uno sforzo di completamento, al fine di recuperare tutte le dimensioni dell’identità dell’Altro, identità che certamente è legata alla storia moderna d’Europa, alle sue ideologie nazionaliste e alle sue tragedie, ma che ha anche radici più profonde e remote nel tempo, in quella Terra nella quale due popoli convivono fianco a fianco, nel bene e nel male, ma in modo indissociabile.
IGNAZIO DE FRANCESCO