Covili Federico
Preti ribelli per amore
2023/6, p. 17
Le testimonianze di preti coinvolti nella Resistenza: una vicenda da cui trarre insegnamenti per i tempi che ci troviamo a vivere.

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Testimoni
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TESTIMONIANZE CRISTIANE
Preti ribelli per amore
Le testimonianze di preti coinvolti nella Resistenza: una vicenda da cui trarre insegnamenti per i tempi che ci troviamo a vivere.
Innanzitutto, merita una certa attenzione il titolo del volume: «Preti ribelli». Ma cosa vuol dire preti ribelli? In che rapporto stanno queste due parole tra di loro? Una possibilità potrebbe essere preti e ribelli. Cioè preti che, in modo più o meno casuale, si sono trovati coinvolti nella lotta di liberazione. Potrebbe essere. Anzi forse questa qualifica è stata scelta proprio perché abbastanza generica e in grado di coprire le diverse storie raccontate. Eppure a me piace interpretare il titolo in modo diverso. Non «preti e ribelli» ma piuttosto «ribelli perché preti». O – ancora meglio – «ribelli perché cristiani».
Leggendo le pagine di questo libro, i dati biografici e le testimonianze, quello che colpisce in modo potente è la naturalezza con cui questi sacerdoti si sottoponevano ai pericoli, o prendevano decisioni che umanamente faremmo fatica a comprendere. Perché facevano questo? Cosa li spingeva? A spingerli non era un’ideologia o un ideale politico, con tutto il rispetto per questi termini, spesso ingiustamente screditati. Ma non credo che la cifra caratteristica di queste esperienze sia una progettualità o una visione politica.
Ribelli perché cristiani
Cosa li guidava allora? È come se, trovandosi a vivere da cristiani in quei momenti così drammatici della storia, non abbiano potuto fare altro che diventare ribelli. Mi viene in mente il pensiero di Pietro Scoppola, grande storico della politica, cristiano «a modo suo», come viene definito nella sua biografia. Parlando della laicità, che lui intendeva come libertà interiore da esercitarsi nella politica e non solo, Scoppola pensava che il cristiano in quanto tale potesse essere più laico di qualunque altro uomo. Questo perché il cristiano non ha nessun «idolo» a cui fare riferimento, costruisce la storia della salvezza oltre la politica e non dentro la politica. Il cristiano è un uomo che può desacralizzare ogni forma palese e occulta di potere come sfruttamento dell’uomo sull’uomo e vincere ogni tentazione totalitaria, perché per lui la salvezza non è nel mondo ma oltre il mondo. Il cristiano ha in sé una libertà che gli consente di non abbassare lo sguardo anche di fronte ai drammi della storia, alle tragedie come quelle che hanno riempito le strade della provincia modenese nel corso dell’ultimo conflitto mondiale. Sia chiaro: con queste riflessioni non si intende sminuire l’opera di chi ebbe la forza di ribellarsi anche senza avere una coscienza religiosa o uno sguardo di fede. Si vuole piuttosto sottolineare la diversa prospettiva di chi è ribelle perché prete, ribelle perché cristiano.
Nel mondo ma non del mondo
Niente di nuovo: si torna sempre all’antica Lettera a Diogneto del II secolo d.C. «I cristiani abitano nel mondo ma non sono del mondo». Si tratta chiaramente di un equilibrio precario e non sempre facile da realizzare: da una parte la tentazione di pensare che il mondo sia il nulla, dall’altra pensare che il mondo sia tutto. Sia nulla, e quindi non serve impegnarsi nella politica e nella società. Dobbiamo semplicemente farci furbi per ottenere quel po’ di spazio che ci consente di vivere la fede relativamente indisturbati. Andare spediti a compiere il rito, incuranti dei viandanti che sono caduti nelle mani dei briganti e che devono aspettare un samaritano per essere raccolti e curati, perché i sacerdoti e i leviti non hanno tempo per fermarsi. È la tentazione in cui è caduto anche un certo clerico-fascismo vecchio e nuovo che non possiamo certo nascondere dalla storia del Novecento, così come nel panorama di oggi. Per paura del comunismo e di altri nemici più o meno temibili ci fu chi, nella Chiesa, decise di chiudere entrambi gli occhi di fronte alle violenze del fascismo, sperando di scendere a patti col regime e raccogliere dividendi spirituali. Ma è pericoloso anche l’altro estremo: credere che il mondo sia tutto. La realtà materiale della Terra diventa l’unico orizzonte e ogni crimine, ogni efferatezza diventa giustificabile per la costruzione di un futuro migliore. Si può cadere preda di una cieca ideologia che dimentica la dignità dell’uomo e finisce per macchiarsi dei peggiori delitti.
No. Nella Lettera a Diogneto si scrive che i cristiani: «Adempiono a tutti i loro doveri di cittadini, eppure portano i pesi della vita sociale con interiore distacco. Ogni terra straniera per loro è patria, ma ogni patria è terra straniera. Obbediscono alle leggi stabilite, ma con il loro modo di vivere vanno ben al di là delle leggi. Dimorano sulla terra, ma sono cittadini del cielo». Parole che sembrano cogliere in pieno il mistero che sta dietro alle testimonianze presenti in questa raccolta. Le vicende raccontate dai preti ribelli hanno una portata enorme, eppure sono vissute con «normalità»: la ribellione non fu il tentativo violento di rovesciare il mondo, ma piuttosto una decisione quasi inevitabile, una conseguenza naturale dettata dalla propria coscienza. Nascondendo ebrei o trattando con i tedeschi, aiutando i partigiani o consumandosi nei lager, quei sacerdoti emergono come testimoni di un altro modo di vivere nel mondo. Di fronte ai drammi della storia novecentesca, i sacerdoti ribelli hanno saputo abitare fino in fondo il mondo, e lo hanno fatto proprio perché erano cittadini del cielo.
Un altro modo di vivere nel mondo
Il cristiano impegnato nelle vicende della storia deve portare con sé una dimensione che potremmo definire «profetica»: la sua condizione gli consente una libertà e uno sguardo che lo pongono su un piano diverso. Spesso si parla dei cristiani in politica oggi. Che fare? Dove andare? Come fare a pesare di più? Forse però quella che ci viene chiesta è proprio questa dimensione profetica, essere voci libere che parlano e agiscono con coraggio, perché liberi dalle costrizioni delle mode e delle ideologie del presente, dall’individualismo che ci impedisce di vedere e amare il prossimo.
Il Centro culturale che ho l’onore di presiedere è intitolato a Francesco Luigi Ferrari, avvocato e militante del partito popolare di don Sturzo, antifascista costretto all’esilio dalle botte degli squadristi, morto nel 1933, esattamente 90 anni fa. Tre anni prima, nel 1930, è protagonista di un gesto di grande coraggio, dal sapore profetico. Siamo subito dopo i Patti Lateranensi, in un clima di rinnovata conciliazione fra la Chiesa e lo Stato italiano, in quel momento controllato dal regime fascista. È il periodo della «luna di miele», quando Mussolini viene salutato da qualcuno come «uomo della Provvidenza». Immaginiamo il dramma umano di un cristiano vero come Ferrari, costretto all’esilio proprio da quel fascismo che ha appena trovato un accordo con la Chiesa: lo stesso Ferrari scrive «l’11 febbraio ho provato uno dei più profondi dolori della mia vita. Soltanto perché il papà e la mamma nostri m’hanno dato una fede che supera gli uomini e i tempi per affiggersi in Dio, una fede che permette di scernere la forma umana dalla sostanza divina, soltanto per questo sono riuscito a ritrovare d’un subito la tranquillità dello spirito nella preghiera e nella fiducia nella Provvidenza».
Il Vangelo, libro dell’uomo
Sappiamo che in quei giorni la condizione dei popolari in esilio era la peggiore: isolati dagli esponenti degli altri partiti a causa dell’atteggiamento della Chiesa, incapaci di comprendere e accettare ciò che stava accadendo, eppure fedeli. Ferrari decide di scrivere una lettera ai parroci italiani denunciando le malefatte del regime e invitandoli a prendere posizione.
«Vi si chiede di concorrere alla redenzione italiana, e il concorso che vi si domanda nulla ha che attenti al carattere vostro, o contraddica alle esigenze del vostro ministero. Non vi si chiede di farvi centro di politiche cospirazioni o di porvi alla testa di bande armate, decise ad abbattere colla forza una dittatura di parte, che colla violenza si è imposta e colla prepotenza si mantiene. […] Altra cosa a voi si chiede; e si è in diritto di chiederla. Ammaestrate. V'è un libro che i partigiani della dittatura non amano: il Vangelo. […] Libro divino, il Vangelo è il libro dell’uomo. Apprendetene le massime ai giovinetti, e ne formerete i cittadini di domani. Mostrate loro quale soffio sublime di amore pervada quelle pagine divine, quale insaziabile sete di fratellanza e di pace ispiri le parole del Maestro, quale incoercibile bisogno di sincerità e di schiettezza ne detti gli ammaestramenti: qual contravveleno più efficace alla propaganda di odio, di violenza, di ipocrisia, di viltà che perseguono le organizzazioni fasciste? Non siete liberi, né potreste esserlo in un paese di schiavi. Ma pur non essendo liberi, voi potete più facilmente che altri gittare tra le giovani generazioni il buon seme destinato a fruttificare domani».
Queste parole hanno un significato profondo, soprattutto perché scritte nel 1930. Siamo lontani dalla guerra e dall’invasione tedesca, dalla guerra civile fra repubblichini e partigiani. Eppure Ferrari coglie nel segno di ciò che furono i preti ribelli. Non per disegni ideologici o per cospirazioni politiche, ma soltanto per il Vangelo. Ribelli per amore.
FEDERICO COVILI