Cozza Rino
Abitare il tempo presente
2023/6, p. 14
Ogni momento della storia non è il punto fermo di un cammino, per cui la verità è sempre apertura a un processo evolutivo che implica l’irruzione di situazioni inedite. Ogni epoca è un’epoca che va morendo e una che sta venendo alla luce.

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EREDITÀ CARISMATICHE E CAMBIAMENTO
Abitare il tempo presente
Ogni momento della storia non è il punto fermo di un cammino, per cui la verità è sempre apertura a un processo evolutivo che implica l’irruzione di situazioni inedite. Ogni epoca è un’epoca che va morendo e una che sta
venendo alla luce.
Una delle novità del Concilio è consistita nell’ammettere che ogni momento della storia non è il punto fermo di un cammino, per cui la verità è sempre apertura a un processo evolutivo che implica l’irruzione di situazioni inedite. Ne consegue che, se vogliamo che la stessa storia continui domani, oggi dobbiamo accettare che la sua prima fase finisca davvero, perché le forme di un carisma vanno anch’esse continuamente ricercate nelle modalità provvisorie di abitare il tempo.
Da qui la necessità che anche l’eredità carismatica venga interpretata come un «seme», e quindi come qualcosa di vivo che solo morendo porta frutto. Questa è la convinzione anche di papa Francesco – che in un convegno internazionale disse: «gli istituti religiosi sono tutti provvisori: il Signore ne sceglie uno per un tempo, poi lo lascia e ne fa sorgere un altro».
Rigenerare i carismi
Il tempo delle «certezze imitative» del passato sta per finire.
Pertanto è necessario guardarsi dalle «ossificazioni» perché il futuro ha bisogno di rigenerarsi alla luce di quelle domande che sono chiara e trasparente espressione della forza liberatrice e sanante di Cristo, guardandosi – dice ancora papa Francesco – dalle «resistenze che nascono da cuori impietriti che si alimentano delle parole vuote del “gattopardismo” spirituale di chi a parole si dice pronto al cambiamento, ma vuole che tutto resti come prima».
Pertanto è necessario prendere atto che i fondatori sono passati lasciandoci come eredità non il compito di far sopravvivere loro attraverso noi, ma quello di vivere noi, fino in fondo, la nostra fedeltà allo Spirito che non solo genera, ma pure rigenera i carismi, per il fatto che la fedeltà non è data dall’essere un «clone» del fondatore, ma è data dall’imparare ad essere all’altezza del tempo in cui viviamo, e delle esigenze che il tempo ci richiede.
Forme rivelative di vita evangelica
I consacrati devono passare dal riaggiustare ciò che non può essere riaggiustato «al coraggio di aprire nuovi spazi a Dio» (papa Francesco)
La vita religiosa per raccogliere le attese identitarie dell’attuale cultura ha bisogno di princìpi orientatori che la portino a non essere esclusa dai circuiti della vita corrente. È il papa a dirlo nella lettera apostolica in occasione dell’anno della vita consacrata: «mi aspetto che ogni forma di vita consacrata si interroghi su quello che Dio e l’umanità di oggi domandano», mettendosi «più in sintonia con l’immagine autonoma e attiva della persona umana in quanto protagonista della propria storia». In queste parole c’è l’invito a rinunciare ad appellarci a una presunta identità intangibile, per cui oggi orientatrice non può essere soltanto la memoria, stante il fatto che il presente non assomiglia al passato.
In questo tempo difficile ma ancora fecondo e come tale appassionante, alla vita religiosa serve la capacità di transitare a nuovi mondi possibili. Pertanto, le attuali sfide della storia attendono altre forme rivelative di vita evangelica che introducano a inediti livelli di umanità perché è lo stesso suo tessuto culturale a essere sentito debole e smagliato.
A legittimare l’attesa, è la promessa di Gesù riportata dall’evangelista Giovanni con queste parole: «in verità vi dico: chi crede in me, anch’egli farà le opere che io faccio e ne farà anche di più grandi» (Gv 14,12).
Da qui la consapevolezza che la vita consacrata non ha altra possibilità che scegliere nuovi approdi, perché gli elementi di novità che caratterizzeranno il futuro non potranno essere la replica consunta di quanto si è già visto, o per dirla con le parole attribuite ad A. Einstein: «è follia immaginare di ottenere risultati diversi, mettendo all’opera sempre le stesse cose».
Il relatore all’assemblea dei padri generali, (2016), p. Cannistrà ocd, disse: «mi preme sottolineare che non è più possibile proseguire in una logica e una retorica della continuità quando tutto ci parla di discontinuità e di rottura. A noi la scelta di lasciarci trascinare alla deriva da essa, o di gettare l’àncora per avere la possibilità di ripensarne la rotta».
Da qui l’esaurimento nella storia, di varie forme istituzionali di vita religiosa il cui declino non è necessariamente dovuto a eventuali infedeltà dei religiosi/e, ma perché in tempi di mutazione sociologica, l’identità del carisma va cercata nel suo costante divenire «con il coraggio di lasciarsi alle spalle le vie già frequentate e avventurarsi su strade sconosciute, senza lasciarsi tentare dalla conservazione tranquillizzante».
Nuova socialità e comunione
La vita consacrata è chiamata a una vita di «comunione» e non di «condominio» religioso.
Il termine «comunione» si caratterizza per quell’unità tra persone che rende possibile il mettersi «in sintonia con l’immagine autonoma e attiva degli altri in quanto protagonisti della propria storia», con forme di socialità che siano in grado di dare voce alle differenti forme di bisogno e domande di significato, non a scapito del valore e della personalità dell’individuo. Al contrario il termine «condominio» fa risaltare ciò che è collettivo (gruppo), ossia ciò che è neutro o impersonale caratterizzandosi per la semplice unità esteriore.
Chiaramente in tempo di rinnovata concezione della persona, difficilmente ci si sente attratti da una vita-insieme organizzata ai fini dell’osservanza, che comporti il legarsi in perpetuo con vincoli di subordinazione giocati nel quotidiano. Il motivo sta nel fatto che le persone del terzo millennio hanno maturato un modo di percepirsi in cui l’aspetto della propria libertà e individualità – che non significa individualismo – è qualcosa di predominante sull’appartenenza ad un «consorzio».
Non tanto «normare» ma «ispirare»
«I contemporanei cercano risposte di senso, e non l’esorbitante normatività».
Quando di un carisma si confonde il cuore dell’ispirazione originaria con la forma giuridico-organizzativa storicizzata – scrive L. Bruni – ci si porta a non comprendere che la salvezza dell’ispirazione consisterebbe nel cambiare le forme per restare fedeli alla sostanza del nucleo originario. Ma questo non è stato colto dai religiosi/e, che hanno creduto invece di garantirsi con l’attrezzarsi di strutture organizzative, giuridiche e di governo, che di fatto hanno impedito l’emergere di nuove creatività, senza avvedersi che le forme istituzionali sono soggette alla sindrome di lasciarsi paralizzare da una identità predefinita, per cui, appagate dell’identità giuridica, corrono il rischio di trovarsi fuori da dove passa la vita. Ma la causa di Cristo non è la legge, (il sabato) ma l’uomo qui-ora. Ne consegue che un mondo vitale – quale dev’essere la vita religiosa – non può essere inchiodato giuridicamente con dettati di altre epoche, perché tutte le ideologie umane che vengono da lontano sono inevitabilmente miopi essendo focalizzate al tempo che le ha fatte nascere.
Oggi il papa mette in guardia da questa deriva con il dire: «chi cerca sempre soluzioni disciplinari, chi tende in maniera esagerata alla sicurezza dottrinale, chi cerca ostinatamente di ricuperare il passato perduto, ha una visione statica e involutiva». Il problema oggi non è innanzitutto «normare» ma «ispirare», non è disciplinare ma offrire senso. Per cui – è detto negli orientamenti del Dicastero per la vita consacrata – ciò che «tempo fa funzionava in contesto relazionale di tipo piramidale e autoritario, oggi non è più né desiderabile né vivibile nella sensibilità di comunione». Il motivo sta nel fatto che tutto ciò che è difeso da un vincolante apparato ideologico-organizzativo secondo una visione gerarchizzata, è percepito come frutto di una società divisa in classi (superiori e sudditi), e quindi non rispondente all’essere un organismo animato dallo Spirito che cresce e si arricchisce in comprensione, strada facendo.
Ne consegue la necessità di orientarci a realtà più liquide, decentrate, che non aggregano le persone soltanto tramite vincoli giuridici difficilmente modificabili, ma con la forza del messaggio e dell’esperienza concreta fatta di più spirito, perché, – come scrisse l’allora card. Bergoglio – «se ad attrarre vocazionalmente era l’eccedenza di vita evangelica affidata ai voti, oggigiorno il far consistere la vita evangelica in alcuni elementi di diversità, rappresenta un impoverimento della più ampia prospettiva evangelica».
In ogni caso, in particolare le giovani generazioni, non accettano più che la vitalità di una vita sia inchiodata con dettati fuori tempo, cioè con testi (regolamenti, costituzioni, documenti, ecc.) che non trovano uno stile più sapienziale e meno legale, più vicino alla pratica di «una ricerca continua e comune della verità».
Trasparenza della «vita battesimale»
Oggi le configurazioni di vita evangelica sono più ampie e coinvolgenti.
Nell’attuale clima culturale non persuadono più quelle forme che sospingono a una visione che riduca il proprio spazio al mondo attorno a sé, con il portarsi a essere «gruppi di eletti che guardano a se stessi», chiusi in un particolare spazio di Chiesa «dove trovano mille motivi per tenersi alla larga dalle ferite e dai problemi della gente, per non lasciarsi coinvolgere troppo».
Nella nuova cultura, il bello e il buono della «sequela» non sono riposti nell’appartenenza a mondi sacrali a parte, ma nella trasparenza della «vita battesimale», l’unica in grado di inserire la vita delle persone nel dinamismo del disegno di Dio, in forza del quale, tutti, con pari dignità, partecipano, in forme diverse, del sacerdozio, della profezia e della regalità del Signore, dentro la storia della gente, distinguendosi non innanzitutto per la sottolineatura di questo o quel «particolare», ma per una concentrazione di ciò che è al cuore di tutto il vangelo, con stili di vita che uniscano anziché marchiare la separazione e le differenze, per poter condividere gli stessi sogni e le stesse seti.
A tal fine le nuove forme discepolari hanno abbandonato ciò che era ideale del mondo antico: l’ordine statico e leggi immutabili, appartenenze dominanti, adesioni totalizzanti, preferendo forme aperte e pertanto suscettibili di ulteriori arricchimenti, la cui bellezza e fecondità non è data dagli atti religiosi e neppure dai «servizi» che presta, ma dalla capacità di testimoniare il vero volto di Dio manifestatosi in Gesù Cristo.
Oggi ad attirare sono le forme discepolari che nascono dal non prediligere sistemi organizzativi complessi caratterizzati da spinte spersonalizzanti che creano dipendenza, ma da configurazioni che diano un volto nuovo, originale ad una santità che non escluda il settore privato, in cui soltanto si può crescere e portare a compimento la propria personalità; forme in cui, in ambito di comunione, ciò che oggi nella vita consacrata tra persone viene vissuto con la convivenza sotto lo stesso tetto, nei nuovi cammini evangelici viene vissuto in forme di «incontro».
RINO COZZA CSJ