Chiaro Mario
Aldo Moro: la sua passione per il nostro paese
2023/5, p. 42
Presentiamo un libro per scoprire un Moro inedito: pedagogo appassionato capace di grande ascolto dei giovani; politico appassionato, che crede nel dialogo con tutti, al punto di coltivare il desiderio di interloquire anche con le Brigate Rosse che l’hanno ammazzato; osservatore lungimirante dei movimenti della storia, con i tratti di un profeta utopico.

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Testimoni
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Aldo Moro il professore. E un piano per le BR
Giorgio Balzoni e Fiammetta Rossi, Lastaria Edizioni, Roma 2022, p. 364, € 16,50
Aldo Moro: la sua passione per il nostro paese
Presentiamo un libro per scoprire un Moro inedito: pedagogo appassionato capace di grande ascolto dei giovani; politico appassionato, che crede nel dialogo con tutti, al punto di coltivare il desiderio di interloquire anche con le Brigate Rosse che l’hanno ammazzato; osservatore lungimirante dei movimenti della storia, con i tratti di un profeta utopico.
Per operare un rinnovato discernimento sulla tragica fine dell’esistenza umana di Aldo Moro, può essere utile attingere all’omelia pentecostale che Giuseppe Dossetti tenne il 14 maggio 1978 alla sua comunità monastica (Piccola Famiglia dell’Annunziata). Ricordando che il rapimento dell’amico presidente della Democrazia Cristiana, è coinciso con la Settimana della Passione di Gesù e con il tempo pasquale fino alla sua Ascensione, Dossetti indica che proprio la morte di Cristo è «l’unica chiave capace di dare un senso agli eventi e riscattarli da una situazione di soggezione al male». Il suo invito è quello di «cogliere sempre l’umana vicenda come icona del mistero di Cristo e dei misteri supremi della passione della croce, della morte, della resurrezione, della glorificazione e dell’effusione dello Spirito». Alla luce di questo discernimento, appare oggi decisiva la scelta di una nuova modalità di racconto che consenta di avvicinarsi di più al «mistero Moro», un’esistenza culminata nell’offerta totale di sè. A fronte di tante indagini, ricerche, inchieste, letture strumentali e fuorvianti, è il momento di valorizzare la forma della testimonianza, anche per strappare il ricordo dello statista dalle pagine della cronaca nera restituendolo all’università, alla politica e a tutto il paese.
Moro, il pioniere
Un intreccio di testimonianze caratterizza il volume intitolato «Aldo Moro il professore e un piano per le BR», Lastaria Edizioni, Roma 2022), scritto da Fiammetta Rossi e Giorgio Balzoni, studenti sempre molto vicini al «Professore» (con la p maiuscola!). Si tratta di una seconda edizione a quarant’anni dai tragici eventi di via Caetani. Scorrendo l’indice colpisce che il filo rosso dello scritto siano proprio i ricordi degli anni della formazione universitaria, segnata da un vero e proprio «mentore», una guida saggia e paterna piena di ferma gentilezza. Il libro è suddiviso in due parti: Aldo Moro il Professore (pp. 19-205) e Aldo Moro e le Brigate rosse in Parlamento (pp. 236-348). Il testo ha ispirato l’omonimo docufilm di Rai Uno, interpretato da Sergio Castellitto.
Gli autori vogliono coinvolgere il lettore facendo rivivere il «pioniere» Aldo Moro con il racconto della loro esperienza nel corso di laurea in Scienze politiche. Retroscena, aneddoti, storie private e documenti preziosi, aiutano a riscoprire l’uomo dell’ascolto e del dialogo a tutti i costi. Nella prefazione gli autori scrivono: «Innovatore instancabile, immaginò per primo l’ipotesi di portare i socialisti al governo, quando erano ancora considerati pericolosi rivoluzionari. Poi si spinse oltre la linea d’ombra nell’avvicinare il PCI, fino a realizzare il governo di solidarietà nazionale insieme con Berlinguer, una scelta che li rese scomodi per russi e americani». Moro voleva anche un’Europa protagonista nel contesto internazionale: «La volontà di autodeterminazione dell’Ucraina di oggi – secondo i due autori – porta, in qualche modo, la sua firma»: nel 1975 a Helsinki viene firmato l’Atto finale, fortemente voluto da Moro, che pone le basi della distensione tra i blocchi contrapposti del mondo.
Oggi comprendiamo che, da politico credente e maestro dei giovani, ha avuto come bussola di tutta la vita l’indicazione di Gesù di amare i propri nemici. Lo ha fatto cercando di governare entrando profondo della storia, abbassandosi e soffrendo con l’altro. Il suo anelito era quello di promuovere una nuova condizione umana, costruita attraverso una vera e propria «strategia dell’attenzione» per ogni persona che si incontra.
La passione per l’insegnamento
Moro comprese il ’68 ed ebbe il coraggio di parlarne nelle assise più importanti della DC del tempo. Comprese quel passaggio storico perché ascoltava i giovani, riconoscendo che essi avvertivano di essere a un punto nodale della storia e non si riconoscevano nella società e quindi mettendola in crisi. Moro prende sul serio i segni di un travaglio doloroso nel quale nasce una nuova umanità. In questo contesto, gli autori presentano una inedita e suggestiva visione: «Moro si poteva salvare? Forse sì se, come pensava di fare da tempo, fosse riuscito ad avvicinare i giovani delle BR prima che scegliessero la violenza». Una ipotesi che spinge a studiare attentamente le testimonianze inedite raccolte nel volume.
Moro non salta una sola lezione all’università e, quando è necessario, chiede ai suoi studenti di raggiungerlo al ministero degli Esteri per recuperarla. Egli ha perseguito con ostinazione l’insegnamento universitario: lo ha fatto «sentendo la grande gioia del dare, anche pagando di persona, qualche cosa agli altri, al mondo, con questa mia partecipazione alla vita. A questo mio lavoro ho unito l’attività politica, certo assorbente. Ma è anche giusto che la politica non sia tutto» (L’altro Moro di Antonio Rossano). Il suo credo si basa sulla sacralità di ogni persona: «Hai la certezza che mentre tu parli lui ti stia davvero ascoltando. E lo fa perché cerca di capire proprio con noi quali siano i nuovi valori dei giovani, di quali sentano più bisogno. Con l’obiettivo di offrirli alla riflessione della Democrazia Cristiana perché il partito li faccia propri» (p. 25).
La nascita del nipote ha inciso sulle determinazioni del Professore: agli studenti che lo invitavano a non cedere all’abbandono della politica (una decisione presa al ritorno del viaggio negli Usa nel 1974, dove una persona di rilievo gli aveva detto di smettere di perseguire il piano di portare anche il Partito comunista a collaborare: «o lei smette di fare questa cosa o lei la pagherà cara») rivelò che aveva cambiato opinione dopo essere andato a trovare Luca nel nido dell’ospedale: «l’ho visto in mezzo a tutte quelle culle e mi sono detto: come si fa a lasciarli nei guai?». Poiché il penalista Moro voleva che i suoi studenti vedessero che cosa significava stare chiusi 365 giorni all’anno in una cella, li portava nelle carceri. Una volta andarono a visitare il manicomio criminale di Aversa e fu la più scioccante delle esperienze per gli studenti: «Ricordo un Aldo Moro gelido che, mentre salivamo sull’autobus, diceva: “domattina stessa ne parlerò al ministro della Giustizia”. Il direttore dell’ospedale qualche tempo dopo fu accusato di vari reati» (p.88). I due autori confessano anche che il fidato capo della scorta, Oreste Leonardi, è stato il regista del loro matrimonio. «Una mattina il Professore era stato chiaro: “Io sono un uomo del Sud (Moro era nato il 23 settembre 1916 a Maglie, in provincia di Lecce). Sono stato il primo a capire quanto stava accadendo tra voi e quindi devo essere il vostro testimone di nozze”» (p. 101).
La passione per la politica
Moro era decisamente contrario alla logica del clan nella DC. Durante una riunione dei cosiddetti «morotei» affermò: «Noi non possiamo, non dobbiamo costituirci in corrente. Il nostro gruppo deve essere una porta aperta, dove ognuno può entrare senza bussare e uscire senza salutare» (Tina Anselmi sul «Il Giorno», 20 ottobre 1978). Moro non intendeva avvalersi, nelle sue battaglie, dei soliti centri di potere. «Dice, nel 1969, al congresso del partito: “Il successo è affidato al consenso. Un democratico può promuoverlo con tutte le sue forze, ma non può esigerlo mai”. È l’originalità della proposta il banco di prova, la sua capacità di realizzarsi e non di imporsi con la sola forza dei numeri» (p. 41). Questo elemento emerge con evidenza nel 1974 quando, emarginato da anni, riaprendo la fase del centro-sinistra e liberando il partito dalla camicia di forza del centrismo, «dimostra che la maggioranza formata da dorotei e fanfaniani ha i numeri ma manca di leadership e il timone del partito è nelle sue mani. Amaramente, dopo il suo assassinio, il figlio Giovanni si chiederà se la mancanza di una corrente organizzata, di una forza da poter spendere sul tavolo della DC, non sia stata una delle ragioni del tragico epilogo della sua vicenda».
Nel contempo il politico credente deve fronteggiare la rivendicazione della gerarchia ecclesiale di indicare ai fedeli le scelte da fare sul piano politico e sociale (vedi l’editoriale dell’Osservatore Romano con i «punti fermi» scritti dai cardinali Tardini, Siri e Ottaviani). Nel 1980 la rivista gesuita la «Civiltà Cattolica» scrive invece che lo statista ha disegnato un partito cristiano nuovo rispetto al passato, «facendo sì che i cattolici, per lungo tempo estranei allo Stato italiano, non solo si sentissero cittadini a pieno diritto, ma rivendicassero una funzione di guida» (p. 46).
L’utopia: un piano per le Brigate Rosse
Il volume riporta la deposizione di Eleonora Moro alla prima Corte d’assise di Roma (12/07/1982), in cui rende manifesto che il coniuge non riteneva il terrorismo come un nodo da stroncare con la sola repressione, ma come un fenomeno da indagare e a cui dare risposte politiche, cosciente che qualcuno, all’interno delle istituzioni e dei partiti, pensava di strumentalizzare la violenza per impedire il rinnovamento di cui il paese aveva urgente bisogno. La vedova Moro dichiara espressamente che una delle preoccupazioni dello statista era di «cercare di trovare il modo di aprire un dialogo con queste persone, in maniera che fosse un rapporto democratico a portare avanti i loro desideri, le loro istanze, i loro propositi e non questa maniera assurda di distruzione con cui procedevano. Intendeva e desiderava, per quel che posso capire, trovare un mezzo, un tipo di contatto, una possibilità che gli permettesse di avviare un dialogo con questa gente e di uscire da questa situazione di terrorismo, se possibile, in una situazione democratica. Diceva che era un problema molto grosso questo della lotta armata» (pp. 256-257).
Moro, sin dai lavori che sfoceranno nella Costituzione italiana, era allenato a leggere i segni dei tempi e cercava sempre di decifrare la condizione che attraversava il paese. Avvertiva la crisi dell’ordine democratico, il dato serpeggiante del rifiuto dell’autorità, della deformazione della libertà, che non sappia accettare né vincoli né solidarietà. Era consapevole delle punte acute di questa crisi, ma chiedeva al suo partito di riflettere proprio sulla crisi endemica dell’Italia. Come ammisero nel processo le stesse Brigate Rosse, Moro era un osservatore formidabile (cfr. Il prigioniero di Braghetti e Tavella). A Benevento (18/11/1977), in cui delinea la «terza fase» del raggiungimento della democrazia compiuta, Moro conclude il suo discorso su questa linea: «Vogliamo pensare che accanto a quella che è la doverosa, rigorosa azione dello Stato, per l’osservanza della legge, accanto alla funzione di responsabilità di tutte le istituzioni, vi sia anche, come dire, la nostra azione culturale, la nostra capacità di persuasione, quel penetrare nel paese per ricreare quel clima di libertà e tolleranza» (p. 263).
Nell’affrontare tutte queste vicende occorre avere ben chiaro che in Moro sono legate insieme le figure del credente, del giurista e del politico. Egli aveva un’intelligenza degli eventi e dei tempi. Il 12 dicembre 1977 a Bologna il presidente nazionale delle DC rimprovera chi pensa che alcuni nodi della storia debbano essere tagliati e non sciolti. Anche Pierluigi Castagnetti ha un vivido ricordo dell’evento. Nella presentazione del libro di Angelo Picariello Un’azalea in via Fani, sottolinea che l’ultimo discorso di Moro si tenne a Bologna. In quell’occasione egli parla per due ore della foto che ritrae un giovane contestatore con la P38 in mano: «quando un giovane prende la P38 vuol dire che non ha più fiducia nella possibilità di cambiare le cose con la democrazia […] quando si decide di ricorrere alla violenza vuol dire che si è persa ogni traccia di fiducia, di speranza, di convinzione che si possano cambiare le cose se non con la violenza» (p. 271). Occorre allora rompere il cerchio infernale dell’azione e della reazione. Una prova di questa profonda convinzione, durante il sequestro, viene addirittura da un corsivo anonimo, favorevole alla trattativa, pubblicato sull’Osservatore della Domenica (14 maggio 1978): «Si è discusso sugli ultimi scritti estorti nell’angoscia mortale della coercizione. Ma non è affiorato, forse, anche in essi, scritti in condizioni a noi ancora ignote, il fondo riflessivo e disarmante del prigioniero?» (p.275).
Il libro nasce dal prorompente desiderio di raccontare Aldo Moro a chi non ha avuto la fortuna di conoscerlo. Può contribuire a rompere un silenzio eccessivo, riempito di travisamenti, falsificazioni e invenzioni. Può far conoscere quanto egli abbia inciso, come nessun altro, nella nostra storia. Infatti, su nessuno più di lui è sceso il velo della memoria. «Non esistono una Prima e una Seconda Repubblica. Esiste un “prima” e un “dopo” Moro. È lì che si rompe il rapporto tra cittadini e partiti, intesi come mediatori delle istituzioni. A cominciare da quei giorni la politica dimostra tutti i suoi limiti che ancora oggi non ha saputo correggere. Aldo Moro ha fatto troppo per questo paese perché il desiderio di vivere in pace con se stesso comporti la rinuncia alla sua figura, ai suoi insegnamenti. Dobbiamo avere il coraggio di riconoscere che è morto per noi perché ha scelto di non abbandonare il suo impegno quando avrebbe potuto farlo».
Ognuno dunque è chiamato a cercare di comprendere cosa intendesse quando ha detto che «questo paese non si salverà, la stagione dei diritti e delle libertà si rivelerà effimera, se in Italia non nascerà un nuovo senso del dovere».
MARIO CHIARO