Renzi Riccardo
Un evento da contemplare
2023/5, p. 32
L’Incarnazione da Péguy alla poesia di Mario Luzi.

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POESIA, FILOSOFIA E FEDE
Un evento da contemplare
L’Incarnazione da Péguy alla poesia di Mario Luzi
Charles Péguy fu uno dei poeti e filosofi francesi più influenti e conosciuti del suo tempo. Ebbe fin da piccolo un profondo credo che però si trovò ad abbandonare negli anni dell’adolescenza perché non riusciva a concepire il dogma dell’inferno, ma la recuperò con forza all’età di ventotto anni. In quegli anni si avvicinò al socialismo, mantenendo però sempre un profondo credo ed intervenendo in numerosi dibattiti pubblici e su riviste che affrontavano il problema della divisione tra stato e chiesa. Nel 1907, dopo aver ritrovato la fede, si convertì al cattolicesimo e riprese la stesura del poema drammatico su Giovanna d’Arco, interrotto durante l’adolescenza. Egli per tutta la vita cercò la fede nell’esempio delle vite dei santi e dei beati, così scrisse anche Il Portico del mistero della seconda virtù e Il mistero dei Santi innocenti. Nel 1912 il figlio minore, Pierre, si ammalò gravemente ed egli fece voto che in caso di guarigione sarebbe andato in pellegrinaggio a Chartres; il figlio guarì e il padre decise di percorrere quei 144 Km di cammino in piena estate e in soli tre giorni. Ormai sempre più lontano dal socialismo, la sua fede si faceva sempre più forte e il grande pubblico lo identificava ormai come scrittore cattolico affermato. Dopo aver pubblicato il poema Eve, il saggio Il denaro, due pesanti critiche al mondo contemporaneo, seppur in forme diverse, iniziò la sua riflessione sulla figura del Cristo, esaminandone Incarnazione e passione. Tutta la concezione teologica e filosofica di Péguy si può riassumere con la seguente affermazione: «Il presente è il punto di passata del tempo». Questa è la riflessione con cui egli in Note conjointe sur M. Descarts et la philosophie cartesienne cercò di racchiudere tutta la concezione teologica legata all’Incarnazione del Cristo. In essa è racchiuso tutto lo stupore, che ha accompagnato Péguy nel corso della sua esistenza, legato alla contemplazione e al mistero dell’Incarnazione. Questa per Péguy non è più un fatto di fede, ma un dato biografico del Cristo, che come tale può essere solo contemplato. È una contemplazione non astrattiva che sa riconoscere nella realtà la presenza indiscutibile del Trascendente. Il verbo si è incarnato all’interno della finitezza e della miseria che connotano lo stato umano dell’essere. L’Incarnazione del Cristo è totalizzante, poiché presa nella sua pienezza ed esattezza, «Bisogna sempre considerare, l’abbiamo detto, che Gesù ha preso l’Incarnazione nella sua esattezza e nella sua pienezza. Senza alcuna limitazione o riserva. Senza alcuna prudenza o precauzione fraudolenta». Continua Péguy dicendo che il Cristo con il suo gesto ha rivoluzionato «le limitazioni che sono proprie dell’uomo». L’Incarnazione è un evento che è accaduto nel presente, che ha un luogo e un tempo ben preciso, e che come tutti gli eventi sottostà alle leggi dello scorrere del tempo. Dunque, per Péguy, l’Incarnazione è un evento storico, che può essere contemplato come tale, ma non può essere oggetto di discussione. L’Incarnazione è il dato biografico per eccellenza della vita del Cristo. Nel presente (storico) finito è passato e si è incarnato l’infinito. La vita del Cristo è la storia del figlio di Dio, che però può essere raccontata, poiché è la storia del Dio che si è fatto uomo tra gli uomini, che è dunque divenuto oggetto storico. Essendo uomo tra gli uomini, essendosi fatto toccare, conoscere e vedere, ha permesso che la sua vita fosse raccontata. L’infinito diviene storia incarnando la finitezza umana. I Vangeli sono perciò le biografie del Cristo, «I Vangeli sono per Gesù ciò che i Processi sono per Giovanna d’Arco», sono dunque testimonianza storica. Quelle dei Vangeli non sono profezie compiute in modo determinato, poiché esse sono passate attraverso le libere scelte del Cristo, che in quanto uomo poteva scegliere ciò che volesse. «Appartiene all’ordine dell’uomo e dell’avvenimento, il passaggio dalle profezie ai Vangeli», continua poi «I Vangeli non sono le profezie avvenute, sono le profezie realizzate», attraverso la scelta, poiché come egli spesso sottolinea, il Cristo era libero anche di non realizzarle. La grandezza del Cristo sta proprio nel mantenimento delle profezie. Secondo Péguy, la profezia e il suo mantenimento non possono essere concepite come un prima e un dopo, in uno schema cronologico, ma sono una scelta immanente del libero arbitrio del Cristo, in quanto uomo. Dunque, per Péguy, l’Incarnazione fu un fatto storico che può solo essere contemplato e i Vangeli sono la biografia della vita e delle scelte del Cristo.
Mario Luzi
Venendo ora a Mario Luzi, nato a Castello, in quel tempo frazione di Sesto Fiorentino, secondogenito di Ciro Luzi, locale funzionario delle ferrovie, e di Margherita Papini. La famiglia paterna era di origini marchigiane, di Montemaggiore al Metauro. Dopo una prima parentesi nel senese, Mario trascorre l'infanzia a Castello, frequentando qui i primi anni di scuola. Nel 1926, in seguito al trasferimento del padre a Rapolano Terme in provincia di Siena, si trasferisce a casa dello zio Alberto a Milano dove rimane per solo un anno; nel 1927 ritorna a Rapolano Terme dalla famiglia per poi, nel 1929, ritornare nella sua città natale e terminare a Firenze gli studi presso il Liceo Ginnasio Galileo.
A differenza di Péguy, la profonda fede religiosa lo accompagnò per tutta la vita, non ebbe mai dubbi. La sua produzione poetica copre più di cinquanta anni: la sua prima raccolta in versi, La barca, è del 1935, l’ultima del 1994, Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini. È ormai giudizio diffuso che Luzi fu il simbolo e il massimo esponente di quell’ermetismo poetico fiorentino degli anni Trenta del Novecento. Tre sono gli elementi di fondo che connotano la poesia di Luzi:
-Un’assenza e una totale distanza dalla realtà contingente.
-La costante presenza di preziosismi formali tipici della poesia ungarettiana.
-Un forte fervore religioso che anima continuamente e ininterrottamente la sua poesia.
È proprio su quest’ultimo punto che ci andremmo a soffermare. Per Luzi fare poesia è cercare la verità e l’unica verità esistente è quella cristiano cattolica. Ha osservato Romano Luperini: «la visione della realtà presente nelle opere luziane è quasi sempre angosciata e cupa, ed egli rientra, rispetto alla tradizione cattolica cui è riconducibile, nel filone pessimistico di Pascal e di Manzoni». Per Luzi nella parola poetica può esprimersi il significato della vita e del mondo, poiché essa è il mezzo può forte concesso all’uomo e il Cristo non è altro che il verbo (la parola) che si è fatta uomo. L’apax poetico luziano è raggiunto nella sua prima fase, quella che dura sino agli anni sessanta del Novecento, così detta della «dignità del quotidiano». È questa la fase della pienezza poetica e dei suoi risultati più alti. I gesti, i mesi, le stagioni e le ore si susseguono in ciclo continuo, che però non è insignificante, poiché si ritorna a quel tempo scandito dalla preghiera, dove tutto ha un senso e rientra in un disegno divino. In questa visione del mondo, l’Incarnazione del Cristo è per Luzi un atto di quotidianità che nel momento che si realizza si fa fatto storico. Così per Luzi come per Péguy l’Incarnazione può essere contemplata solo come dato biografico e in quanto tale storico. L’Incarnazione è Dio che si fa quotidianità, cioè uomo che con la sua finitezza vive il quotidiano ed è proprio questa quotidianità che si storicizza nel tempo. L’Incarnazione è però anche il verbo che si fa uomo e dunque nella concezione poetica di Luzi della «incarnazione del quotidiano» del verbo nella poesia c’è quasi una blasfemia. Ma a scongiurare ciò sovviene in ausilio la concezione altissima, quasi divina che Luzi ha del verbo poetico. In lui, infatti, è costante un linguaggio parabolico, visionario, quasi profetico, proprio solo delle sacre scritture. Per Luzi la poesia è il verbo che si fa vita e «La religiosità intrinseca della poesia trova un limite solo nella superficialità o nella frivolezza dell’umano». Nuovamente in chiusura ritorna la finitezza propria dell’essere umano, che si oppone all’infinitezza divina e si fondono solo nel concetto dell’Incarnazione.
RICCARDO RENZI