Bignardi Paola
La fede esperienza difficile
2023/5, p. 29
L’esperienza umana del credere è impegnativa. Credere in qualcuno significa far credito al bene che c’è in lui/lei, anche quando non ci sembra così evidente. Credere implica fidarsi, affidarsi, spostare il baricentro della propria vita verso l’altro/Altro, confidando che questo non ci farà perdere l’equilibrio, pur non essendone certi.

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ESPERIENZA UMANA DEL CREDERE
La fede
esperienza difficile
L’esperienza umana del credere è impegnativa. Credere in qualcuno significa far credito al bene che c’è in lui/lei, anche quando non ci sembra così evidente. Credere implica fidarsi, affidarsi, spostare il baricentro della propria vita verso l’altro/Altro, confidando che questo non ci farà perdere l’equilibrio, pur non essendone certi.
L’esperienza umana del credere è impegnativa. Non è solo difficile la fede religiosa; è l’atto stesso di credere che comporta un processo in cui sono messe in gioco le dimensioni più profonde e vere dell’esistenza personale. E se la fede che sostanzia la relazione con gli altri, soprattutto i più cari e i più vicini, è impegnativa, a maggior ragione lo è la fede in Dio, con il suo carattere di assolutezza e di definitività. Molte sono le ragioni che oggi spingono i giovani ad allontanarsi dalla fede: occorre non giudicarli, ma cercare di capire i motivi di scelte che denunciano la difficoltà di un’esperienza umana che non è facile per nessuno, nemmeno per noi adulti. Per aiutare i giovani e per capirli dovremmo esaminare ciò che significa per noi, per renderci conto che spesso siamo giudici troppo severi di un mondo giovanile che è in cerca di autenticità e che spesso deve aprirsi questa strada nella solitudine e nella disillusione.
La vita è piena di atti di fede
Credere in qualcuno significa far credito al bene che c’è in lui/lei, anche quando non ci sembra così evidente. La fatica della fede – fiducia la si sperimenta in ogni relazione seria, che chiede di accettare nell’altro anche ciò che non è evidente, non è visibile, è misterioso. È l’«invisibile agli occhi», il segreto che la volpe consegna al Piccolo Principe divenuto ormai amico; invisibile agli occhi, ma accessibile al cuore, solo che si abbia la capacità di sporgersi oltre se stessi e di non temere quel salto nel buio, nell’inesplorato, nell’incomprensibile, che ogni relazione importante implica.
Credere implica fidarsi, affidarsi, spostare il baricentro della propria vita verso l’altro/Altro, confidando che questo non ci farà perdere l’equilibrio (ma non essendone certi). Implica sempre un rischio, un salto nell’ignoto, che è il mistero dell’altro. La fede spinge oltre se stessi, a differenza della spiritualità che, nell’interpretazione che i giovani oggi ne danno, orienta verso se stessi e la propria interiorità.
Non ogni relazione comporta questo impegnativo affidarsi, ma certo ogni rapporto che tocca in profondità la vita: l’amore, l’amicizia, la fede religiosa, la condivisione di progetti importanti…; è l’esperienza che fa ogni innamorato, ogni amico verso l’amico, ogni genitore che consegna i propri figli a un docente che dovrà aprirli alla vita, ogni persona che si affida a una guida spirituale che dovrà accompagnarla nelle vie dello Spirito.
Bastano queste riflessioni per comprendere che si è in presenza di un’esperienza impegnativa. Del resto, un proverbio popolare sembra invitare allo scetticismo: «fidarsi è bene, non fidarsi è meglio». Vi sono giovani che oggi si definiscono proprio in relazione alla sfiducia. Dice una giovane ventenne «I ragazzi non solo non credono in Dio, non credono più in niente. Non è facile oggi credere. Credere in qualcosa, credere nel futuro, avere fede. Si tratta di una generazione di disincantati che a stento crede in se stessa».
Le condizioni materiali in cui i giovani vivono accentuano il loro guardare la vita quasi in distanza: il lavoro è rimandato sempre più lontano nel tempo; il mondo adulto sembra chiuso al loro contributo trasmettendo alle nuove generazioni un messaggio di diffidenza; l’autonomia – economica, lavorativa, affettiva, sociale… – è subordinata a una serie di fattori materiali che finiscono con il trattenere le nuove generazioni in una condizione di dipendenza deresponsabilizzante… Come guardare con fiducia al futuro in queste condizioni? Davanti a sé i giovani non vedono la possibilità di realizzare sogni e ideali attrattivi, ma rischi e minacce.
I giovani sembrano a volte indifferenti e apatici, ma forse la loro passività è il frutto di un contesto che sembra ostinarsi a voler fare a meno di loro.
I giovani non credono in niente?
Molti oggi pensano che i giovani non credano più in niente. Anche molti educatori -genitori, insegnanti, catechisti, sacerdoti…- sono convinti che il mondo interiore dei giovani sia arido come un deserto. Ma per capire in che cosa credono i giovani occorre guardarli con empatia, con attenzione, e scrutare anche un modo nuovo di affidarsi: è quello delle piccole cose quotidiane e non dei grandi progetti; è quello delle azioni concrete, che ogni giorno sono alla loro portata…. Credono nelle azioni modeste, umili, quelle che sono alla portata delle loro possibilità. È più facile vedere un giovane che va a fare la spesa a un anziano, che uno che entra a far parte di un’organizzazione di volontariato. La fiducia nelle azioni modeste e possibili è anche figlia della sfiducia che i giovani hanno in organizzazioni impersonali, dove il loro contributo si perde dentro le decisioni altrui, non si sa bene chi e come. Può sembrare il loro un «mondo piccolo», in effetti è soprattutto un mondo concreto, dove si può vedere l’effetto di un’azione diretta e immediata.
E poi i giovani credono negli affetti familiari. I genitori, soprattutto la mamma, tutti i familiari continuano ad essere i loro punti di riferimento. È un dato di fatto che da una parte dice la forza dei legami familiari e dall’altra dice la povertà di una rete sociale – docenti, sacerdoti, educatori… – che in passato poteva essere più ricca e più influente.
Credere in Dio
Se queste considerazioni si trasferiscono sul piano dell’esperienza cristiana, esse mostrano quanto siano in grado di modificare la sensibilità religiosa delle nuove generazioni.
Dice un giovane con uno sguardo disincantato e sincero: «Credere in Dio, che non si vede e non si compra, oggi è difficilissimo». Due sono gli ostacoli per credere, secondo lui: la misteriosa e silenziosa invisibilità di Dio, che la mentalità di oggi tende a liquidare come inesistenza, e la mentalità dei consumi. E una ragazza si chiede: «Viviamo in un’epoca in cui tutto deve essere conciso e immediato. (…). In una società in cui il tempo viene misurato in byte vi è ancora posto per Dio?».
Si tratta di difficoltà che i giovani di qualche generazione fa non hanno conosciuto. Cresciuti in un contesto in cui tutti o quasi «andavano in chiesa», era naturale una religiosità supportata dal consenso generale. C’è da chiedersi quale tipo di fede fosse quella delle generazioni in cui la pressione sociale e l’appartenenza ad una comunità facevano passare in secondo piano molte delle domande che oggi i giovani si pongono su Dio e sul rapporto che Egli ha con il mondo e con le singole persone. Purtroppo molte proposte formative e soprattutto catechistiche sono impostate su un modello nozionistico e cognitivo dell’idea di Dio e della fede. Si tratta di un approccio che non chiama in causa se non minimamente tutta la vita; tutt’al più la interpella sul piano morale, in cui Dio diventa facilmente il giudice severo dei comportamenti negativi. Se Dio è una persona con cui stare in relazione, il rapporto con Lui mette in movimento tutta la vita e mette alla prova la disponibilità a fidarsi di Lui, in una vera, profonda esperienza di fiducia.
Il modo con cui i giovani si rapportano al mondo religioso tende ad escludere la Chiesa, la sua funzione magisteriale, i suoi linguaggi, la sua cultura, le sue posizioni su una serie di questioni controverse: la sessualità e in particolare l’omosessualità, l’aborto, l’eutanasia…. Ma escludere la Chiesa non significa escludere Dio. Ascoltando i giovani e analizzando le loro posizioni ci si rende conto che ciò che fa problema non è tanto il contenuto della fede, quanto il processo del credere. La loro domanda fondamentale non riguarda l’esistenza di Dio, ma quale Dio può stare in una relazione personale con me. È una posizione chiarissima nella testimonianza di questo giovane diciannovenne: «La fede nasce dal rapporto personale che hai tu con Dio, un Dio indeterminato... che può essere cristiano come non. Dio è dentro di noi. Io con il mio Dio ho un rapporto personale. Ognuno di noi ha un rapporto singolare col proprio Dio. Ognuno di noi è unico e quindi ognuno di noi ha la sua idea di Dio».
È un testo su cui ci sarebbe molto da riflettere: vi sono tutti gli elementi di un modo personale, soggettivo, di intendere Dio e la relazione con Lui. Dio, se si incontra, si incontra dentro di sé, nella propria interiorità. Per la maggior parte dei giovani gli aspetti tradizionali della relazione con Dio – preghiera, liturgia, riti, Messa… – costituiscono forme religiose esteriori che non permettono di comunicare con Dio. La fatica della fede entra in gioco proprio qui, dentro questo processo che riescono ad abitare solo quei giovani che hanno acquisito una fiducia di base nella vita, che sono disponibili ad un salto nell’invisibile. Sono evidenti i rischi di un simile atteggiamento, ma anche la ricchezza possibile di un’esperienza in cui entrano in gioco la propria libertà, la propria responsabilità e che apre a cammini interiori ricchi, personali, originali. Veramente su questi percorsi può operare lo Spirito, molto più che su esperienze religiose in cui l’abitudine e la tradizione possono esaurire l’esperienza spirituale.
Le ragioni di molte lontananze
La fatica di credere si sperimenta soprattutto in un contesto come l’attuale in cui la religiosità non è più scontata. Per molti giovani diventa una difficoltà insormontabile, immotivata, spesso vissuta nella solitudine. Molti si allontanano dalla Chiesa, senza che questo comporti sempre l’abbandono della fede: piuttosto una ricerca inquieta, come quella di questa giovane ventiseienne che si definisce così: «sono come una persona che è in una stanza buia e cerca di trovare l’interruttore».
Le ragioni dell’allontanamento vengono poi formulate in modi diversi. Per la maggior parte è frutto del rapporto con la Chiesa, che i giovani percepiscono vecchia, perentoria nei suoi insegnamenti, lontana e rigida. Non vi sono in genere motivazioni ideologiche alla base di una scelta che avviene in maniera graduale, per lento raffreddamento di un’esperienza infantile che spesso è stata vissuta all’insegna della costrizione e del controllo. È il passaggio dalla fede infantile ad una fede consapevole e personale che non riesce ad avvenire. Molti adolescenti hanno l’impressione di non aver mai creduto: andavano alla catechesi o perché la mamma li mandava oppure perché erano contenti di stare con i propri amici e compagni di gioco. Nel momento in cui la fede deve diventare un’esperienza personale e consapevole, si trovano soli a fare un cambiamento che avrebbe bisogno di accompagnamento e di sostegno.
Conclusione
Queste considerazioni mostrano come la fede dei giovani partecipi dell’umana fatica del credere, che è fidarsi e affidarsi, senza garanzie e senza certezze evidenti. E coinvolge la fede religiosa in una dinamica umana che partecipa pienamente della vita.
A partire da questa sensibilità, come la Chiesa potrà reinterpretare la sua proposta formativa? Come modificare la sua sensibilità spirituale? Come passare da una formazione che ha al centro i contenuti da credere a una formazione che metta al centro la vita con la sua esuberanza, le sue ricchezze e le sue contraddizioni?
È quanto cercheremo di vedere nel prossimo numero.
PAOLA BIGNARDI