Cozza Rino
Vita consacrata e cristianesimo oggi
2023/5, p. 5
Ogni vita che rimanga chiusa in se stessa, prima o poi invecchia perché spiazzata rispetto al cammino della storia. Allora ci chiediamo: Quale vita consacrata dentro un cristianesimo in movimento?

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CAMMINI DI RINNOVAMENTO
Vita consacratae cristianesimo oggi
Ogni vita che rimanga chiusa in se stessa, prima o poi invecchia
perché spiazzata rispetto al cammino della storia. Allora ci chiediamo: Quale vita consacrata dentro un cristianesimo in movimento?
A una simile domanda papa Francesco nella «Lettera apostolica a tutti i consacrati» (21.11.2014) rispose così: «Mi aspetto che ogni forma di vita consacrata si interroghi su quello che Dio e l’umanità di oggi domandano» (parte II n. 5).
C’è in questo dire la presa d’atto che le immagini identitarie che ci erano familiari, stanno vivendo la fase terminale, per cui ci è richiesto di mettere in discussione le premesse su cui si basano non poche delle attuali convinzioni.
Da qui l’invito di lasciarsi alle spalle le vie già frequentate, senza farsi tentare dalla conservazione di una vita fatta di tradizioni rutinarie anziché impegnarsi a reimpiantare i carismi nel terreno dell’odierna cultura.
Ora è venuta meno una data prospettiva di vita consacrata per il fatto che ogni vita che rimane chiusa in se stessa, prima o poi invecchia perché spiazzata rispetto al cammino della storia. «Conseguenza questa – scrisse p. Radcliffe – dovuta al fatto di non aver saputo immergersi negli interrogativi dei nostri contemporanei», dispensandoci così dall’entrare nell’inquietudine esploratrice di nuove possibilità. Ed è così che il mondo un po’ autistico entro cui la vita consacrata si muove, le impedisce di dare attualità, presenza, incidenza storica agli appelli del vangelo in risposta alle attese dell’uomo d’oggi.
Ogni modello ha il proprio tempo
Il carisma è particolarmente vivace nella fase di «stato nascente»: è questo il momento in cui si generano i valori di cui l’istituzione vivrà. È la fase in cui i membri sono uniti da un forte legame che li porta ad anteporre i fini collettivi a quelli personali, con il sogno di perpetuare lo stato nascente e renderlo perenne.
I talenti delle persone in questa fase vengono orientati alle esigenze organizzative e di gestione, e tutta la creatività delle persone è indirizzata verso gli obiettivi definiti dettagliamene dall’istituzione, «rendendo così gli affiliati, più attenti ad «annaffiare» che a far germogliare nuove piante», con il pericolo conseguente - detto con le parole forti della teologa Antonietta Potente – di portarci nel passare del tempo a «essere semplici cultori o cultrici di tradizioni inutili».
In questa prima fase della vita di un carisma, non è facile immaginare un’altra forma di fedeltà che non sia la continuità con le parole e le scelte del fondatore, nate in risposta ai bisogni di quel dato momento storico. È questo il periodo in cui fedeltà equivale a osservanza. Ma dopo lo stato nascente, specie in un tempo come l’attuale, in cui le stagioni culturali cambiano rapidamente, la sola «osservanza» porta a confondere la fedeltà con quel conformismo che tendenzialmente può portare i religiosi/e dall’«essere inventori di strade a essere esecutori di ordini», ritrovandosi pian-piano con scarsa o nulla autonomia progettuale. Propensione solitamente apprezzata e tenuta in conto da chi governa, tanto da influire in quel modo di essere comunità che attira preferibilmente gente di cultura conformista. Non stupisce allora – scrive Luigino Bruni – «se la domanda di vita comunitaria tradizionale oggi proviene spesso da persone fragili in cerca di appartenenze ritenute forti, attratte dal ricordo delle comunità di ieri».
La perpetuità è il sogno ricorrente di tutti i movimenti, ma è una illusione perché nel momento in cui il carisma nasce, si apre il registro del tempo, e l’energia creativa e fluida dello stato nascente si oggettiva in strutture: si trasforma in princìpi, regole, norme, impegni solenni, cose d’altronde necessarie per durare nel tempo ma che non hanno la mutevolezza della vita; il tutto difeso da un vincolante apparato ideologico, organizzativo, secondo una visione gerarchizzata data dal concepire la società divisa in classi, non rispondente, soprattutto in questa nuova epoca, allo sviluppo di quella rivelazione che ci è data attraverso i segni dei tempi. Si apre così la fase destinata a essere sfidata da altri movimenti che sorgono in un ciclo senza fine. Dunque la storia della vita consacrata non può essere quella data dalla fossilizzazione delle espressioni storiche createsi in altri tempi in base ad altri presupposti, ma è data dall’essere un organismo animato dallo Spirito che cresce e si arricchisce in comprensione, strada facendo. Da qui l’intervento del Dicastero per la vita consacrata (DIVCSVA) che nella lettera «Rallegratevi» scrive: «Siamo invitati a destrutturare modelli senza vita per narrare l’umano sognato da Cristo, mai assolutamente rivelato nei linguaggi e nei modi».
Fino a non molti anni fa si pensava che la purificazione da tutto ciò che non serve più venisse dall’alto (capitoli, assemblee, ecc.) ma così non è stato perché al di là dei tanti roboanti slogan di questi ultimi sessant’anni, di fatto si è continuato a esprimere una mentalità religiosa ancora legata a ciò che sempre è stato, considerato privo di pericoli. Ma chi ha questa visione delle cose, difficilmente affronterà il nuovo in chiave evangelica, irretito in consuetudini svuotate di sostanza perché incapaci di ascoltare il respiro inedito del Vangelo, nella cui prospettiva – scrive papa Francesco con parole chiare – «non c’è più il fervore evangelico ma il godimento spurio di un autocompiacimento egocentrico».
È tempo di fedeltà creativa
Coloro che vengono dopo un fondatore, per non finire con il tradire l’anima del carisma, dovrebbero rendersi conto che è iniziato il tempo di passare da fedeltà come continuità a fedeltà come creatività, cioè capacità di innovare, ossia di andare oltre, di vivere esplorando sulle frontiere del possibile, cosa indispensabile alla continuità del carisma, per il fatto che dopo la stagione della fondazione, la possibilità di continuare il progetto degli inizi «dipende dalla capacità di far evolvere le forme di esercizio della fedeltà». Pertanto il carisma – come disse papa Francesco – non è dato per «essere conservato in bottiglia», perché «un seme cresce nel tempo che lo accoglie, in stretto rapporto simbiotico con l’ambiente in cui vive» da qui «l’impossibilità di capire una pianta guardando soltanto il “DNA” del seme: tra i due c’è il terreno, il clima, il susseguirsi delle stagioni, i cambiamenti climatici». Dunque a salvare il presente è il futuro di chi sa prendere sul serio le domande dell’oggi della storia; consapevolezza questa che già nei primi decenni del novecento, ad esempio, portò don Orione a dire ai suoi confratelli: «gettiamoci nel fuoco dei tempi nuovi».
Percorsi discepolari lungo la storia
Grazie alla ricerca storico-esegetica, oggi possiamo dire quasi con certezza che Gesù iniziò la sua attività all’interno del movimento di Giovanni Battista, dove restò per un periodo non breve. In questo movimento Gesù non era soltanto uno dei molti battezzati dal Battista, ma era un battezzatore (Gv 3,22-24).
Il movimento di Giovanni era una realtà fluida, normale, provvisoria, dove le persone venivano e andavano senza una vera vita in comune, diversamente dalla comunità degli Esseni allora fiorente (mai presa in considerazione da Gesù), costruita attorno a norme di vita comune molto precise e strette.
La comunità libera di Giovanni – scrive L. Bruni – fu un terreno così fertile da generare la libertà infinita di Gesù. Ma un giorno non precisato, Gesù lasciò il movimento del Battista per seguire la propria vocazione e per far nascere il proprio cammino discepolare. La prima cosa che Gesù fece a Cafarnao è stata una chiamata di discepoli, di compagni, per dirci che quello a cui pensava era una storia collettiva, la storia del «due o più» (Mt 18,20). Era questa una chiamata non avulsa dalla normalità di vita; infatti gli apostoli, di tanto in tanto, saranno visti mentre pescavano anche negli anni che vissero accanto a Gesù (cf. pesca miracolosa), a dire che lasciare le reti dei pesci per maneggiare quelle degli uomini non significa necessariamente lasciare definitivamente e materialmente le prime barche. E fu così che, a partire da Gerusalemme, iniziarono le varie comunità fatte di «condividenti» e non di «conviventi».
Quando poi nei primi secoli del cristianesimo (IV sec.) iniziarono a fiorire i monasteri, questi riproposero l’esperienza degli Esseni senza averla mai conosciuta perché conclusasi nel ’68 d.C., riproponendo una forma di vita stabile e di sottomissione al preposto.
In seguito, nel XIII sec. ad iniziare qualcosa di ancora diverso fu il movimento francescano per il quale Francesco scelse una vita peregrinante con al centro non la residenzialità, ma una forma di vita a un tempo più fragile, ma nello stesso tempo più forte della regola monastica perché somigliante a quella di Gesù.
Successivamente, nella seconda metà del novecento, la primavera del Concilio è stata anche la primavera delle forme comunitarie, soprattutto nei movimenti ecclesiali, che nelle comunità riscoprono nuove e straordinarie risorse, espresse in notevoli innovazioni, quali una nuova radicalità della Parola, il protagonismo del laicato, la rinuncia a sistemi organizzativi complessi, verticistici, inevitabilmente caratterizzati da spinte spersonalizzanti e che creano dipendenza. Realtà più liquide, decentrate, che non aggregano le persone tramite regole e vincoli giuridici ma con la forza del messaggio e dell’esperienza concreta, fatta di più spirito e meno legge, più «promesse» anziché «voti».
Infine, in quest’ultimo mezzo secolo, anche le congregazioni e gli ordini hanno apportato delle innovazioni, ma rare quelle giuridiche e istituzionali della vita comunitaria, senza toccare i rapporti individuo-comunità, continuando con forme e parole in gran parte eredità del mondo che volevano cambiare. Da qui l’odierna incapacità di rispondere alle nuove sfide organizzative, antropologiche e spirituali che stanno portando alla mancanza di energie giovani oltre che di idee, finendo con il ridursi quasi a delle realtà «biologicamente sterili».
Non rimane allora che prendere sul serio il fatto che «Il vino nuovo esige capacità di andare oltre i modelli ereditati», vale a dire che è tempo di inserirci in una storia che implica il passare dalla retrospettiva alla prospettiva.
A tal fine necessita di arrivare a un pensiero teologico «che non pretenda di costruire ‟per sempre”, ma di costruire ‟di continuo”, e che consegnandosi con libertà alle generazioni successive, sappia di stare vigilando sul futuro che è sempre in gestazione».
RINO COZZA csj