Radcliffe Timothy
Affettività e comunione
2023/4, p. 24
Arrivare alla maturità affettiva richiede molto tempo. Dobbiamo essere pazienti con gli altri e con noi stessi. Dobbiamo avere il coraggio di parlarci. Abbiamo il diritto di parlare e il dovere di ascoltare. Non dobbiamo avere paura.

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Affettività e comunione
Arrivare alla maturità affettiva richiede molto tempo. Dobbiamo essere pazienti con gli altri e con noi stessi. Dobbiamo avere il coraggio di parlarci. Abbiamo il diritto di parlare e il dovere di ascoltare. Non dobbiamo avere paura.
Quando mi sono avvicinato alla professione solenne, la domanda più difficile era questa: Sarò felice? Una parte di me desiderava avere un rapporto esclusivo con qualcun altro. Quella persona sarebbe stata la più importante del mondo per me, e io per lei.
Questa mi sembrava essere la povertà più radicale della nostra vita. Non che non potessimo possedere beni, ma che dovessimo rinunciare a possedere ed essere posseduti da qualcun altro. Era una povertà che ero disposto ad accettare? Se fossi stato privato di quell'amore esclusivo e appassionato, temevo di avere un cuore disseccato! Avrei potuto distruggere la mia umanità. Come avrei potuto parlare del Dio che è amore, se io per primo non avessi amato profondamente?
Il monaco trappista Thomas Merton amava raccontare una storia dei padri del deserto, di una ricca donna che voleva avere un eremita domestico nella sua tenuta; per lei era un accessorio per il suo stile di vita, come un personal trainer oggi. Un giorno, per mettere alla prova la sua santità, gli mandò una bella prostituta. Lui disse alla prostituta: «Sono un bastone secco, stai perdendo tempo». Allora la donna ricca gridò: «Quell'uomo è un impostore; buttalo fuori». La fedeltà alla nostra vocazione non consiste nel diventare vecchi bastoni rinsecchiti! Ho guardato i vecchi frati della mia Provincia e ho visto che la maggior parte di loro era profondamente umana ed era rimasta giovane nel cuore. Questo mi ha dato il coraggio di fare la professione e accettare l'ordinazione.
La gioia
segno del Regno
Quindi una prima domanda su cui riflettere: Ci preoccupiamo della felicità dei nostri fratelli sacerdoti? Se vediamo un confratello triste o solo, lo consideriamo un problema suo o anche nostro? Ci tratteniamo dall'avvicinarci a lui per non essere visti come un'interferenza? La felicità dei fratelli non è un optional per noi. La gioia è un segno del Regno, la felicità ultima per cui siamo fatti. Senza di essa, non possiamo predicare il Vangelo.
L’anno 1970 era un periodo difficile per fare un voto di castità a vita. Il poeta Philip Larkin ha detto che in Inghilterra il sesso è stato inventato alcuni anni prima! Era l'inizio della rivoluzione sessuale, quando il sesso era sempre nell'aria e la realizzazione sessuale sembrava essere un diritto umano inalienabile. Era giusto o addirittura possibile per qualcuno fare voto di castità?
Non volevo che il sacerdozio mi evirasse. Qui, come spesso, san Tommaso d’Aquino mi fu di aiuto. Diceva che le nostre passioni sono la forza motrice del nostro ritorno a Dio. Siamo persone appassionate e i nostri desideri sono dati da Dio e fondamentalmente affidabili. Certo, hanno bisogno di essere educati, e a volte ci andiamo a impelagare desiderando un bene illusorio, ma i nostri desideri sono fondamentalmente buoni e sani. I comandamenti non sono dati per limitare e sopprimere i nostri desideri, ma per approfondirli e indirizzarli nella giusta direzione, il Bene ultimo. I comandamenti sono i segnali del desiderio. Anche se il filosofo Bertrand Russell ha detto che i dieci comandamenti sono come una prova d'esame: nessun candidato dovrebbe tentarne più di quattro!
Il problema di solito non è che siamo troppo emotivi, ma che non desideriamo abbastanza. Siamo stretti da piccole emozioni, piccole passioni. Sant'Agostino diceva: «Se vuoi pregare senza sosta, allora desidera senza sosta». Quando guardo i candidati all'Ordine, chiedo: sono appassionati di qualcosa? Non ha molta importanza di che cosa: potrebbe essere la giustizia e la pace, o lo studio, o il lavoro pastorale, o la poesia o la musica. Potrei anche pensare che si tratti di rubriche liturgiche, anche se questo mi fa un po’ pensare! Ma deve esserci una passione profonda che li apra alla fame di Dio. Se sono solo compiacenti, autosufficienti, cosa impedirà loro di cadere nell'inerzia totale?
Naturalmente, la passione più fondamentale di tutte è l'amore. Per essere ecumenico, permettetemi di citare un gesuita! Pedro Arrupe ha scritto: «Nulla è più pratico che trovare Dio, cioè di innamorarsi in modo assoluto, definitivo. Ciò di cui sei innamorato, ciò che cattura la tua immaginazione, influenzerà tutto. Deciderà cosa vi farà alzare dal letto la mattina, cosa farete la sera, come passerete i fine settimana, cosa leggerete, chi conoscerete, cosa vi spezzerà il cuore e cosa vi stupirà con gioia e gratitudine. Innamoratevi, restate innamorati, e questo deciderà tutto».
L’amore divino
è particolare e universale
Come si diventa celibi appassionati? La castità è un modo per abbracciare l'amore, non per limitarlo. Ogni amore è un ingresso nel mistero del Dio dell'amore.
Permettetemi di fare una grossolana semplificazione. L'amore divino, «che move il sole e l'altre stelle», è sia particolare che universale. In Inghilterra diciamo: «La buona notizia è che Dio ti ama. La cattiva notizia è che ama anche tutti gli altri!». Le diverse vocazioni offrono percorsi diversi in questo mistero.
Per alcuni, soprattutto per gli sposati, la loro vocazione si fonda su un amore particolare. Si dilettano in quella particolare persona che si diletta in loro. Come diceva Josef Pieper, vogliamo esclamare: «È meraviglioso che tu esista!». Il matrimonio è il sacramento dell'amore particolare di Dio. Ma gli sposi devono entrare nel mistero pieno dell'amore divino; non possono rimanere solo confinati da quell'amore particolare. Quello è il terreno, la terra in cui sono radicati, ma si apriranno all'amore per gli altri: figli, amici, persino estranei. L'eros si apre all'agape. Se rimangono solo a guardarsi negli occhi, chiusi in una relazione esclusiva, il loro amore sarà soffocante. Questa è l'illusione della moderna idea romantica dell'amore, in cui qualcun altro può essere tutto per me e io per lui. Il poeta inglese D.H. Lawrence la chiamava egoisme à deux! egoismo a due!
Altri, come noi sacerdoti, religiosi e alcuni laici, hanno un'altra strada per entrare nella pienezza dell'amore divino. Siamo piantati nel terreno dell’agape, l'amore aperto di Dio. La nostra vocazione è quella di amare lo straniero prima ancora di conoscerlo; di amare la persona che si presenta alla porta, le persone poco attraenti che nessuno ama. Infatti, la parola greca da cui deriva parrocchia, paroikos, significa «straniero», «estraneo». Una parrocchia è un insieme di persone che sono almeno inizialmente estranee. Ma questa vocazione è solo un cammino verso l'amore divino, se scopriamo come amare le singole persone profondamente. La nostra agape ci condurrà ad avere piacere per gli altri. Ci sarà una carica di eros. Se non impariamo ad amare le persone particolari, la nostra agape sarà fredda e vuota. Sant'Aelredo, abate cistercense del dodicesimo secolo, metteva in guardia i religiosi da «un amore che, rivolgendosi a tutti, non raggiunge nessuno». W. H. Auden, il poeta inglese, scherzava: «Siamo qui sulla terra per fare del bene agli altri. Per cosa siano qui gli altri, non lo so».
Così ogni seminarista e novizio deve chiedersi: in quale terreno sono chiamato a fiorire? Qual è il terreno in cui sono meglio piantato? Dovrebbe essere difficile discernere. Sarei un po' preoccupato se un giovane seminarista non dovesse interrogarsi su questo punto. Perché eros e agape sono in qualche modo presenti in entrambe le vocazioni. Sono due aspetti dello stesso amore. Anche quando amiamo l'estraneo, le persone sconosciute, ci dovrebbe essere un'apertura all'attrazione a godere di loro in qualche modo.
Nella sua enciclica Deus caritas est, papa Benedetto ha affermato la bellezza dell'eros, purificato da ogni egoismo, come parte intrinseca dell'amore a cui tutti siamo chiamati. Scriveva: «Così diventa evidente che l'eros ha bisogno di disciplina, di purificazione per donare all'uomo non il piacere di un istante, ma una certa pregustazione del vertice dell'esistenza, di quella beatitudine a cui tutto il nostro essere tende… Sono necessarie purificazioni e maturazioni, che passano anche attraverso la strada della rinuncia. Questo non è rifiuto dell'eros, non è il suo «avvelenamento», ma la sua guarigione in vista della sua vera grandezza». Il nostro compito di celibi non è quindi quello di fuggire dall'eros, ma di scoprirne l'autentica grandezza. Fa parte del nostro viaggio nell'amore che è Dio stesso.
Rischio e paura dell’insicurezza
Cento anni fa, Dom Hubert van Zeller, un novizio benedettino, scrisse allarmato al Provinciale domenicano inglese Bede Jarrett. Si era innamorato di una persona conosciuta solo come P. Non sappiamo nemmeno se P. fosse un uomo o una donna. Questo non è importante. Bede rispose: «Sono contento [che tu ti sia innamorato di P.] perché penso che la tua tentazione sia sempre stata verso il puritanesimo, una ristrettezza, una certa disumanità... La tua tendenza era quasi verso la negazione della santificazione della materia. Eri innamorato del Signore, ma non propriamente innamorato dell'incarnazione… Se P. non fosse entrato nella tua vita, avresti potuto saltare in aria. Credo che P. ti salverà la vita. Dirò una Messa di ringraziamento per ciò che P. è stato e ha fatto per te. Avevi bisogno di P. da molto tempo. Le zie non sono una via d’uscita. Né lo sono i provinciali tozzi e anziani.
Questo è pericoloso».
Herbert McCabe, OP ha detto: «Se ami, sarai ferito, persino ucciso. Se non ami, sei già morto». È rischioso e, nella nostra società poco avvezza al rischio, le persone hanno paura dell'insicurezza. Regolamenti per la salute e la sicurezza regnano ovunque. Ma Gesù è venuto perché possiamo avere la vita, non la sicurezza. Molti altri ordini religiosi hanno insegnato ai loro membri a guardarsi dalle «amicizie particolari». Da giovane frate mi è stato insegnato a temere di più le «inimicizie particolari».
Come attraversare le crisi
Inevitabilmente ci saranno delle crisi. I matrimoni entrano in crisi quando le persone vengono sradicate dal terreno del loro amore particolare da un altro amore. Le vocazioni sacerdotali entrano in crisi quando perdiamo il nostro radicamento in quell'agape spalancata di Dio. Il Signore dice: «Ti toglierò il cuore di pietra e ti darò un cuore di carne». L'operazione al cuore spirituale è di solito più dolorosa e prolungata di un intervento al cuore fisico. Per la maggior parte di noi si tratta di vivere una sorta di crisi affettiva, di innamorarsi e di essere profondamente disorientati! Il divenire umano si realizza solo attraverso le crisi: c'è la crisi straziante della nascita, l'uscita dal grembo materno. C'è la crisi della rinuncia al seno materno, per potersi sedere a tavola e parlare; la crisi della pubertà, quando si diventa capaci di un amore adulto.
C'è il trauma di lasciare la casa, sia per sposarsi che per andare in seminario o altro. Anche se oggi questo è sempre più ritardato! Infine, c'è la crisi più grande di tutte, la morte. Non si può diventare un adulto capace di amore senza passare attraverso una serie di crisi. E di solito è così anche per noi sacerdoti. Le crisi affettive fanno parte del cammino di quasi tutti noi. Non si tratta di un segno che, in fondo, non si ha una vocazione. Anzi, al contrario, mi preoccuperei se qualcuno non ce l'avesse!
Quindi una seconda domanda: quando i nostri confratelli sacerdoti e seminaristi attraversano una crisi, li lasciamo soli o li aiutiamo a viverla con frutto? Ci giriamo dall'altra parte o la cogliamo come un momento in cui il chicco può cadere nel terreno e portare molto frutto? Ogni crisi è un momento in cui si cresce insieme o ci si allontana. La crisi più grande di tutte è stata l'Ultima Cena, il sacramento della nostra comunione. Non dobbiamo temere le crisi. I confratelli americani mi hanno regalato una maglietta con la scritta: «Buona crisi!».
Non molto tempo dopo l'ordinazione, mi innamorai profondamente di una donna che si innamorò di me a sua volta. Ero profondamente confuso. Mi ero da poco impegnato nell'Ordine usque ad mortem, ed ecco che mi ritrovavo con la testa tra le nuvole, immaginando un'altra vita: il matrimonio era possibile, avrei potuto avere dei figli. Ma la provvidenza di Dio era all'opera. C'era qualcuno che mi amava, ma anche che amava la mia fede, la mia vocazione, e che era profondamente buono!
Lentamente, dopo molta confusione e errori, sono arrivato a credere che la strada da seguire non fosse quella di smettere di amarci, ma di amare come siamo veramente. La mia vocazione alla vita religiosa non era un lavoro a cui potevo rinunciare. È ciò che sono. E lei non poteva che amarmi come era anche lei, fedele alla sua vocazione. Così l'ho invitata a visitare la mia comunità e a conoscere i miei fratelli. Così ha potuto vedere chi sono, uno dei fratelli. La mia vita è intrecciata alla loro. E loro potevano vedere lei e capire meglio chi sono io, una persona che l'amava. Così ho potuto trovare una vita coerente e felice. A distanza di quarant'anni siamo ancora molto amici.
La prova più difficile è questa: Sarei felice di vederla amare qualcuno più di me? Il mio amore la rende libera di amare altre persone? Questa è la povertà della nostra vita, ma anche la sua gioia più profonda: un amore che rende l'altro libero di vivere e amare gli altri. È una condivisione dell'amore divino. Dio non vuole il nostro amore esclusivo. Dio si compiace quando amiamo gli altri, anche se li amiamo più di quanto amiamo Dio! Una volta il mio pronipote disse a mio fratello: «Nonno, ti amo più di quanto ami Dio!». Mi piace immaginare che Dio ne abbia sorriso!
Vivere la castità significa vedere le persone senza aver bisogno di afferrarle. Possiamo vedere il mondo con occhi avidi o con occhi che si dilettano senza impossessarsene. Uno dei miei confratelli, Herbert McCabe, ha smesso di fumare perché si è accorto che guardava chiunque entrasse nella stanza come una possibile fonte di sigarette. Dobbiamo quindi annullare gli occhi avidi di Adamo ed Eva che guardarono la mela e videro che era buona da mangiare, l'inizio del consumismo!
L'amore divino ci dà spazio. L'apparente assenza di Dio a volte è la sua infinita discrezione, che ci libera per amare gli altri. Ancora McCabe: «Ciò che ci dà libertà di movimento, ciò che ci dà spazio per crescere e diventare noi stessi, è l'amore che ci viene dall'altro. L'amore è lo spazio in cui espandersi, ed è sempre un dono… Dare amore è dare il prezioso dono del nulla, lo spazio. Dare amore è lasciare essere». La parola di Dio, come all'inizio della creazione, dice a ciascuno di noi: «Lascia che ci sia tu!».
Non credo che importi molto se un sacerdote è eterosessuale o omosessuale. Le sfide dell'amare in modo non possessivo sono le stesse.
Sicuramente conoscete la storia dei due padri del deserto che arrivarono a un fiume. Lì c'era una bella donna giovane che aspettava di attraversare il fiume, ma non voleva bagnarsi. Così un monaco la prese in braccio e la portò oltre. E continuarono a camminare. Un paio d'ore dopo l'altro monaco disse: «Padre, non è stato molto pericoloso prendere in braccio quella bella donna?». E il primo rispose: «Oh, stai ancora pensando a lei! L'ho lasciata al fiume».
Tutto questo richiede molto tempo. Secondo i documenti del Vaticano, dovremmo essere arrivati alla maturità affettiva al momento dell'ordinazione. Mi chiedo se io stesso ci sono già arrivato. Vedo in me ogni sorta di immaturità. Molti sacerdoti sono persone meravigliose e gentili, ma non ancora affettivamente mature.
Tempo per crescere e maturare
San Pietro è un grande incoraggiamento. Ha impiegato molto tempo per crescere. Nell'ultima cena ha promesso fedeltà. Anche se tutti gli altri fossero fuggiti, lui sarebbe stato fedele. Ma poche ore dopo negò di aver conosciuto Gesù. «Non conosco quell'uomo». Infine, secondo la leggenda, mentre sta fuggendo dalle persecuzioni a Roma, incontra Gesù che va nella direzione opposta e gli chiede: «Quo vadis? Dove stai andando?» Allora Pietro si volta e ritorna, abbracciando finalmente la sua vocazione. Aveva fatto il voto di morire per il Signore nell'Ultima Cena, e finalmente lo ha compiuto. Dio gli concede pazientemente del tempo. Confidiamo nella pazienza di Dio nei nostri confronti.
Il segreto di Pietro era che continuava a tornare al Signore, più volte. Vede il Signore risorto sulla spiaggia e nuota verso di lui. Dopo ogni battuta d'arresto, eccolo tornare alla presenza del Signore, finché finalmente diventa l'uomo che è chiamato a essere. Dobbiamo avere questa fiducia nel tornare al Signore, con qualsiasi cosa abbiamo fatto e siamo stati.
Diventare capaci di amicizia
L'amicizia cristiana è una partecipazione all'amicizia divina della Trinità, la vita stessa di Dio. I primi domenicani erano benedetti da una profonda amicizia tra uomini e donne. Domenico amava chiaramente le donne. Quando stava per morire, confessò di «essere stato più appassionato dalla conversazione con giovani donne piuttosto che essere importunato da donne anziane». Il beato Giordano di Sassonia, suo successore, scrisse le più belle lettere d'amore a una suora domenicana, la beata Diane d'Andalò, traboccanti di tenerezza. Diane era una bella donna di Bologna!
Santa Caterina da Siena era circondata dalla sua cerchia di amici amati - uomini e donne, vecchi e giovani, laici e religiosi - conosciuti come i caterinati, il popolo di Caterina. Bede Jarrett, provinciale domenicano cento anni fa, scrisse: «l'amicizia è per me la cosa più bella della terra».
La nostra vocazione è quindi quella di allargare l'amicizia. È il fondamento della nostra predicazione del Vangelo. Gesù disse ai suoi discepoli infedeli: «Vi chiamo amici». Il cuore del nostro ministero sacerdotale è diventare uomini capaci di amicizia con persone improbabili, con persone che sono lontane dalla Chiesa, che rifiutano Dio ma che sono cercatori. Siamo chiamati a incarnare l'amicizia di Gesù, che ha stretto amicizie scandalose con prostitute ed esattori delle tasse. Se non lo facciamo, le nostre parole sul Vangelo non avranno alcuna autorità. Dopo la caduta, non riesco a pensare a nessuna amicizia pacifica tra uomini e donne nell'Antico Testamento. Poi Gesù appare con la sua comunità di uomini e donne, santi e peccatori, e li chiama tutti amici. La nostra società è talvolta scettica nei confronti della possibilità di amicizia tra uomini e donne. Gli uomini possono persino essere nervosi di fronte al campo minato dell'intimità con l'altro sesso. Ma le nostre amicizie sono segni del Regno. Ecco perché l'abuso sessuale nelle nostre Chiese è così velenoso e distruttivo. Più che un peccato sessuale, è un tradimento dell'amicizia, che per Dante è il centro gelido dell'Inferno!
Ogni amicizia profonda cambierà ciò che siamo. Farà emergere un aspetto del nostro essere che non è mai esistito fino adesso. È per questo che non siamo la stessa persona con i nostri diversi amici. Quindi, se ci apriamo a molteplici amicizie, non avremo un'identità che è chiusa e ben definita.
Quando ero studente in Francia, alla fine degli anni Sessanta, il grido era «il faut être coherent». Bisogna essere coerenti. No! Siamo persone frammentate, un lavoro in corso. La coerenza è davanti a noi, nel Regno.
Sono cresciuto in una famiglia calorosa e molto tradizionale. Quando sono entrato nell'Ordine, ho stretto amicizia con confratelli molto diversi tra loro, che amavano cantare canzoni irlandesi rivoluzionarie e, orrore!, erano di sinistra. Tutto ciò mi confondeva! Chi ero allora? Forse lo scoprirò solo nel Regno.
Allora il lupo e l'agnello in ognuno di noi saranno in pace. San Giovanni dice: «Non sappiamo ancora che cosa saremo, ma sappiamo che quando egli [Cristo] apparirà, saremo simili a lui, perché lo vedremo così com'è» (Gv 3,2). Se abbiamo identità chiuse, fisse, scritte nella pietra, non saremo mai aperti all'avventura di nuove amicizie che sveleranno nuove dimensioni di ciò che siamo. Non devo preoccuparmi di sapere pienamente chi sono. Dio lo sa. Questo è sufficiente.
Questo può confondere noi stessi, ed è per questo che dobbiamo osare condividere con gli altri ciò che viviamo, mentre cresciamo nell'amicizia cristiana. Se mi innamoro di qualcuno, posso pensare che non dovrei dare questo peso a un fratello sacerdote. Ha già abbastanza a cui pensare. Ma se è mio fratello, è un mio diritto farlo e il più grande complimento che possa fargli. Un sacerdote diocesano americano, Michael Heher, ha scritto: «In un momento di crisi, le persone spesso trovano la libertà di esprimere cose che normalmente non esprimerebbero. Come uomini che hanno subito tanti colpi come noi negli ultimi due anni, noi sacerdoti possiamo parlare di qualsiasi cosa vogliamo e in qualsiasi modo. Ci siamo guadagnati questo diritto. Se resistiamo, se lasciamo che i nostri cuori si spezzino e si riformino, acquisiremo cuori di carne. Allora fioriremo e saremo profondamente felici».
Nel presbiterio, quindi, dovremmo preoccuparci della felicità dei nostri confratelli sacerdoti. Come possiamo parlare di Dio se non siamo felici? Quindi, se un fratello sacerdote è infelice, devo avere il coraggio di farmi prossimo per aiutarlo. E sì, questa gioia è inseparabile dal dolore. Ma questa è un'altra conferenza!
Non abbiate paura di attraversare le crisi. Se non abbiamo mai una crisi, probabilmente non cresceremo mai. Aiutatevi a vicenda nelle crisi. Se condivise ci uniscono, ma se non condivise ci allontanano. Il dono più grande che possiamo fare a un fratello è affidargli ciò che ci tocca più profondamente il cuore.
Arrivare alla maturità affettiva richiede molto tempo. Dobbiamo essere pazienti con gli altri e con noi stessi. Dobbiamo avere il coraggio di parlarci. Abbiamo il diritto di parlare e il dovere di ascoltare. Non dobbiamo avere paura.
P. TIMOTHY RADCLIFFE O.P.