Lotta per i diritti umani in Palestina
2023/3, p. 40
Un recente Report dell’ONU conferma che questo è il momento giusto per rafforzare
la coscienza della necessità di una lotta per l’uguaglianza civile e religiosa di israeliani e palestinesi, qualunque sia la decisione politica (due Stati o uno).
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REPORT ONU
Lotta per i diritti umani in Palestina
Un recente Report dell’ONU conferma che questo è il momento giusto per rafforzare la coscienza della necessità di una lotta per l’uguaglianza civile e religiosa di israeliani e palestinesi, qualunque sia la decisione politica (due Stati o uno).
Nel novembre del 1947, l’Assemblea generale dell’ONU adottava la risoluzione n. 181 sul «governo futuro della Palestina», comprendente il piano di spartizione che prevedeva la fine del mandato britannico entro il 1948, la costituzione di uno Stato palestinese e di uno Stato ebraico, con un’unione economica per tutta la Palestina e un regime internazionale speciale per Gerusalemme. L’anno dopo, il Consiglio nazionale per lo Stato ebraico proclamava – unilateralmente – la creazione dello Stato d’Israele. Immediatamente le forze degli Stati arabi (Egitto, Siria, Transgiordania, Libano, Iraq, Arabia Saudita), che si opponevano alla spartizione della Palestina e alla creazione di uno Stato ebraico, hanno invaso il territorio israeliano. Da questo punto in poi si è sviluppato un permanente aspro e sanguinoso conflitto, fatto di decine di accordi internazionali puntualmente annullati, di ingerenze delle superpotenze, di atti terroristici, di manifestazioni violente da ambo le parti, di occupazione di territori con costruzione di insediamenti ebraici, della costruzione di un muro tra i due popoli. Questo conflitto è al centro della perdurante instabilità in Medio Oriente.
«Due Stati per due popoli»
Nel 1917, durante la Prima guerra mondiale, l’Inghilterra occupò la Palestina dopo secoli di dominio turco ottomano. Una lettera, nota come «Dichiarazione Balfour» (dal nome dell’allora ministro degli esteri britannico), annunciò che il governo inglese vedeva con favore l’istituzione in Palestina di un «focolare nazionale» per il popolo ebraico. L’allora segretario di stato del Vaticano, card. Pietro Gasparri, nel maggio del 1922, scrisse alla Società delle Nazioni che la Santa Sede non si opponeva al fatto che gli ebrei avessero uguali diritti civili in Palestina, ma non poteva accettare che a essi venisse concessa una posizione privilegiata. Di fatto, durante il periodo di governo della Palestina da parte dei britannici, una popolazione arabo-palestinese di musulmani e cristiani riteneva quei territori come la propria patria e si batteva per l’autodeterminazione. Emergeva in questo contesto la tensione tra l’appello a creare un «focolare nazionale» ebraico e il rispetto dei diritti civili e religiosi della popolazione «non ebrea». I palestinesi sin dall’inizio si sono opposti al piano di spartizione, presagendo che l’intenzione di Israele era di mantenere per sempre i territori di Giudea e Samaria: negli anni successivi si è constatato che il modo migliore per farlo era l’accelerazione della colonizzazione di queste aree. In quel momento la Santa Sede, accogliendo con favore che Gerusalemme sarebbe stata un’identità a parte, espresse il suo sostegno al principio «due Stati per due popoli». La decisione di creare questa spartizione si basava sulla convinzione che, dopo l’Olocausto (Shoah), il popolo ebraico avesse bisogno di una patria sicura. A partire da questo presupposto, nel 1949 lo Stato di Israele ha ottenuto la sovranità sul 78% del territorio della Palestina, mentre il 22% fu conquistato dalla Giordania (la Cisgiordania con Gerusalemme est) e dall’Egitto (la Striscia di Gaza). Nella cosiddetta «guerra dei sei giorni» (1967) l’esercito di Israele arriverà a controllare il Sinai, la Cisgiordania, la striscia di Gaza e le alture del Golan: di fatto l’intera Palestina, compresa la città di Gerusalemme. L’Assemblea generale delle Nazioni Unite condannò in particolare le misure prese da Israele nei confronti della città di Gerusalemme, considerandole «non valide». Nel 1988, in concomitanza con la rivolta contro l’occupazione israeliana (la prima intifada), l’Olp (Organizzazione per la liberazione della Palestina) dichiarò la nascita dello Stato di Palestina, suscitando proteste, che però non intaccarono il sostegno internazionale al principio «due Stati per due popoli». Lo Stato di Israele già dal 1949 fa parte dell’ONU; la Palestina solo nel 2012 ha ottenuto la condizione di «Stato osservatore non membro» (come è la Santa Sede).
La posizione del Vaticano
Papa Benedetto XVI, nella sua visita in Terra Santa del 2009, fece un accorato appello: «Non più spargimento di sangue! Non più scontri! Non più terrorismo! Non più guerra! Rompiamo invece il circolo vizioso della violenza. Possa instaurarsi una pace duratura basata sulla giustizia, vi sia vera riconciliazione e risanamento. Sia universalmente riconosciuto che lo Stato di Israele ha il diritto di esistere e di godere pace e sicurezza entro confini internazionalmente riconosciuti. Sia ugualmente riconosciuto che il popolo palestinese ha il diritto a una patria indipendente sovrana, a vivere con dignità e a viaggiare liberamente. Che la “two-state solution” (la soluzione di due Stati) divenga realtà e non rimanga un sogno».
Più di recente, papa Francesco, nel gennaio 2022, davanti al corpo diplomatico, denunciando l’aumento della violenza tra palestinesi e israeliani, ha espresso l’auspicio che «le autorità dello Stato d’Israele e quelle dello Stato di Palestina possano ritrovare il coraggio e la determinazione nel dialogare direttamente al fine di implementare la soluzione dei due Stati in tutti i suoi aspetti, in conformità con il diritto internazionale e con tutte le pertinenti risoluzioni delle Nazioni Unite».
Un nuovo e più realistico approccio
Nel numero 4138/2022 la rivista «La Civiltà Cattolica» (n. 4138, 2022) ha pubblicato un articolo di p. David Neuhaus, superiore dei gesuiti in Terra Santa, in cui fa notare alcuni dati emersi in recenti sondaggi: solo il 32% degli ebrei israeliani è favorevole alla soluzione dei due Stati e solo il 37% dei palestinesi l’appoggia. A partire da questi dati, l’autore evidenzia che la soluzione «due Stati per due popoli» non è più realistica, sottolineando che «questo potrebbe essere il momento giusto per rafforzare la coscienza della necessità di una lotta per l’uguaglianza di israeliani e palestinesi, in qualunque quadro politico possa evolversi la situazione (due Stati o uno)».
Un comunicato stampa, diffuso dall’Assemblea degli ordinari cattolici di Terra Santa nel 2019, va nella stessa direzione: «La proposta della soluzione dei due Stati non è andata da nessuna parte e viene ripetuta invano. Infatti, ogni discussione riguardo a una soluzione politica sembra vuota retorica nella situazione presente. Quindi promuoviamo una visione secondo la quale ognuno in questa Terra Santa abbia piena uguaglianza, l’uguaglianza che spetta a tutti gli uomini e donne creati uguali a immagine e somiglianza di Dio. Crediamo che l’uguaglianza, qualsiasi soluzione politica venga adottata, sia la condizione fondamentale per una pace giusta e duratura. Abbiamo vissuto insieme in questa terra nel passato, perché non dovremmo viverci insieme anche nel futuro?». Le Chiese e le guide spirituali sono dunque chiamate a indicare un’altra strada.
Report dell’ONU sulla Palestina
«Lo stato dei diritti umani nei territori palestinesi occupati dal 1967» è il titolo di un rapporto dell’ONU del 2022, che presenta una ricostruzione storica, politica e giuridica di 55 anni di occupazione dei territori da parte di Israele. La firma dello studio è quello della relatrice speciale, l’avvocata Francesca Albanese. L’affermazione chiave è la seguente: «l’occupazione militare israeliana ha impedito la realizzazione del popolo palestinese all’autodeterminazione, tentando di “de-palestinizzare” il territorio palestinese occupato e cercando di trasformare la maggior parte di esso in un’estensione permanente del territorio metropolitano israeliano. Questo comportamento […] si è consolidato con l’acquiescenza della comunità internazionale». A questo proposito, viene ricordato che nel 2019 l’allora primo ministro di Israele, Benjamin Netanyahu, dichiarava: «Uno Stato palestinese metterebbe in pericolo la nostra esistenza. Non dividerò Gerusalemme, non evacuerò nessuna comunità e mi assicurerò di controllare il territorio a ovest del Giordano». Numerosi governi israeliani, leader politici e militari hanno riaffermato queste posizioni. In questo modo i palestinesi hanno sperimentato un colonialismo d’insediamento in un momento storico in cui il resto del mondo stava lentamente progredendo verso la decolonizzazione.
Le forti critiche e le violazioni descritte nel rapporto mettono dunque a nudo la natura dell’occupazione israeliana: quella di un «regime intenzionalmente segregazionista e repressivo», progettato per impedire la realizzazione del diritto del popolo palestinese all’autodeterminazione. L’occupazione israeliana viola la sovranità territoriale palestinese e la sovranità dei palestinesi sulle risorse naturali necessarie per sviluppare un’economia indipendente. Viene messa in pericolo l’esistenza culturale di un popolo e viene repressa la sua attività politica. Secondo gli estensori del rapporto, per porre fine a questa situazione è necessario «smantellare una volta per tutte l’occupazione coloniale israeliana e le sue pratiche di “apartheid” (discriminazione etnica)». Il processo di pace in Medio Oriente e i tentativi bilaterali di pacificazione si sono dimostrati insufficienti e non hanno incentrato i loro approcci sui diritti umani. «Sottrarre Israele al rispetto del diritto internazionale e alle sue responsabilità mina la deterrenza e alimenta una cultura dell’impunità».
Il paragrafo conclusivo del rapporto contiene coraggiose richieste rivolte a tutte le istituzioni internazionali: una esplicita condanna delle violazioni intenzionali del diritto palestinese all’autodeterminazione; la scelta di una presenza internazionale di protezione (per limitare la violenza e per tutelare la popolazione palestinese); un’indagine indipendente e trasparente su tutte le violazioni del diritto internazionale umanitario; l’accertamento della responsabilità dei colpevoli anche attraverso la Corte penale internazionale; la messa in campo di misure per prevenire e riparare tutte le violazioni dei diritti umani da parte delle imprese commerciali; la pubblicazione del database aggiornato delle imprese coinvolte negli insediamenti. Dopo la pubblicazione del rapporto, l’avvocata Albanese è stata accusata di «antisemitismo», da media israeliani e non solo. Alcuni osservatori hanno ribattuto che l’accusa di antisemitismo viene spesso utilizzata in modo strumentale contro chi critica e denuncia le politiche dei governi israeliani nei confronti dei palestinesi.
MARIO CHIARO