Savagnone Giuseppe
La nuova via aperta da papa Francesco
2023/3, p. 10
La svolta di papa Bergoglio è stata quella di puntare in modo radicale sul vangelo e sulla sua forza dirompente. Tra luci e ombre, questi dieci anni hanno costituito una stagione di fondamentale importanza per la Chiesa, continuando a far discutere animatamente i suoi sostenitori e i suoi detrattori.

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DIECI ANNI DI PONTIFICATO
La nuova via
aperta da papa Francesco
La svolta di papa Bergoglio è stata quella di puntare in modo radicale sul vangelo e sulla sua forza dirompente. Tra luci e ombre, questi dieci anni hanno costituito una stagione di fondamentale importanza per la Chiesa, continuando a far discutere animatamente i suoi sostenitori e i suoi detrattori.
A dieci anni dalla sua elezione al soglio pontificio, papa Francesco continua a far discutere animatamente i suoi sostenitori e i suoi detrattori. Forse nessuno fra i suoi predecessori era mai stato così al centro di opposte fazioni all’interno della Chiesa. Si è addirittura negata la legittimità del suo ministero, sostenendo che le dimissioni del suo predecessore non erano valide e non avevano comunque comportato la rinunzia alla potestas petrina, ma solo al suo esercizio attivo. Il «vero papa» sarebbe stato dunque Benedetto. Non era solo un problema giuridico. Alla base c’è stato il rifiuto di una parte consistente della comunità cristiana nei confronti di un pontefice che, rispetto ai suoi predecessori, segnava una evidente rottura.
Uno stile diverso
Questo è stato chiaro fin dalla sera della sua prima apparizione in pubblico, 13 marzo 2013, da quel «Fratelli e sorelle, buonasera!» con cui nessun pontefice si era mai presentato. Era solo l’inizio. Lo stile di Bergoglio in seguito avrebbe confermato in mille occasioni questa voluta rottura con le solenni consuetudini a cui i suoi predecessori avevano sempre obbedito, disorientando le persone pie e suscitando la simpatia del mondo laico, con cui papa Francesco ha sempre avuto un particolare feeling (si pensi al suo rapporto privilegiato con il laicista Eugenio Scalfari).
La prima consuetudine violata è stata quella della residenza: non più il palazzo pontificio, ma la semplice Casa Santa Marta. Così come non più le lussuose auto ufficiali, ma una modesta utilitaria.
Anche nei confronti di cardinali e della Curia romana, Francesco ha fortemente sollecitato un rinnovamento in questo senso, condannando spesso il carrierismo e la ricerca del potere. Su questa linea, sulla scia di Benedetto XVI, ha intensificato la lotta contro la piaga della pedofilia dentro la Chiesa, non esitando a revocare il titolo ad un cardinale, O’Brien, che ne era colpevole. Degli sforzi significativi papa Francesco ha dedicato alla riforma della struttura della Chiesa. Il più significativo è stato la costituzione di un «Consiglio di cardinali», composto da otto porporati, «per consigliarlo nel governo della Chiesa universale».
Tra le innovazioni che più hanno sorpreso c’è stata quella dei criteri in base a cui attribuire il cardinalato. A ricevere la porpora non sono stati più i vescovi delle diocesi più grandi, ma quelli di diocesi almeno numericamente minori. È stata chiara l’intenzione di sovvertire stili curiali che, al di là delle responsabilità dei singoli, favorivano logiche di potere. Lo stesso è accaduto per le nomine dei vescovi, spesso scelti sovvertendo graduatorie precostituite e puntando su «uomini nuovi». Anche da questo punto di vista la caratteristica di papa Francesco è stata una certa imprevedibilità.
Tutto questo, è vero, ha comportato un risvolto problematico che ha indubbiamente pesato su questo pontificato: la solitudine. Tutti i papi sono sempre stati soli, ma Francesco lo è stato più di tutti e per una sua scelta di libertà che lo ha spinto a non dipendere dalle indicazioni di collaboratori stabili. Perciò a differenza dei suoi predecessori, non si è avvalso della fedele assistenza di un segretario stabile, evitando così il rischio, tutt’altro che immaginario, di delegare a lui scelte importanti, ma anche pagando il prezzo di quella solitudine di cui si parlava.
Paradossalmente, il papa che ha più insistito sulla sinodalità è stato – almeno finora – quello che ha operato di più con scelte assolutamente personali, che forse in qualche caso avrebbero potuto essere migliori se si fosse fidato di più dei consigli dei suoi collaboratori. E forse anche la riforma della Curia romana sarebbe stata più efficace se Francesco avesse contato di più su un gruppo di lavoro che lo aiutasse in questa ardua impresa. Da questo punto di vista la stessa creazione del Consiglio dei cardinali non sembra aver avuto quella forza innovatrice, nella direzione della collegialità, che si poteva sperare avesse.
Oltre «i valori non negoziabili»
Ma lo sforzo di attualizzazione del messaggio cristiano che ha caratterizzato questo pontificato si è espresso soprattutto nel magistero di Francesco. A fronte di un insegnamento che negli ultimi anni aveva sottolineato forse eccessivamente l’aspetto etico espresso nei «valori non negoziabili», la svolta di papa Bergoglio è stato di puntare in modo radicale sul vangelo e sulla sua forza dirompente. Nella Esortazione apostolica che ha in qualche modo costituito il «manifesto» del suo pontificato, la Evangelii gaudium (2013), il pontefice fa notare che oggi, nella presentazione mediatica, «alcune questioni che fanno parte dell’insegnamento morale della Chiesa rimangono fuori del contesto che dà loro senso», cosicché l’annuncio non viene più visto nel suo intimo rapporto «con il nucleo essenziale del Vangelo che gli conferisce senso, bellezza e attrattiva» (n.34). Questo spostamento dell’asse portante dell’annuncio dalla morale al vangelo ha, peraltro, una ricaduta sulla interpretazione della stessa morale. Innanzi tutto su quella pubblica. Dedicando il suo primo viaggio ai poveri naufraghi di Lampedusa, Francesco ha messo in primo piano un problema su cui la Chiesa istituzionale non aveva preso mai posizione con una forza paragonabile a quella usata per i «valori non negoziabili». La vita nella sua interezza, e non solo nel suo nascere e nel suo morire: ecco ora il valore «non negoziabile» nel dibattito pubblico.
Un’etica della maturità
Ancora più radicale – al punto da apparire a molti cattolici scandalosa – è stata la rilettura dell’etica privata. Nell’Esortazione apostolica Amoris laetitia (2016), che ha fatto seguito al Sinodo sulla famiglia, si legge: «È vero che le norme generali presentano un bene che non si deve mai disattendere né trascurare, ma nella loro formulazione non possono abbracciare assolutamente tutte le situazioni particolari» (n.304). A questo punto diventa fondamentale il ruolo della coscienza personale: «Stentiamo a dare spazio alla coscienza dei fedeli, che tante volte rispondono quanto meglio possibile al vangelo in mezzo ai loro limiti e possono portare avanti il loro personale discernimento davanti a situazioni in cui si rompono tutti gli schemi. Siamo chiamati a formare le coscienze, non a pretendere di sostituirle» (n.37). Ne consegue che, «a causa dei condizionamenti o dei fattori attenuanti, è possibile che, entro una situazione oggettiva di peccato – che non sia soggettivamente colpevole o che non lo sia in modo pieno – si possa vivere in grazia di Dio, si possa amare, e si possa anche crescere nella vita di grazia e di carità, ricevendo a tale scopo l’aiuto della Chiesa» (n.305). È il caso dei divorziati. Ma il principio vale per tutti i casi in cui la comunità cristiana ha finora escluso dalla sua comunione persone che si trovavano «in una situazione oggettiva di peccato». «Si tratta di integrare tutti, si deve aiutare ciascuno a trovare il proprio modo di partecipare alla comunità ecclesiale» (n.297). Il rischio, naturalmente, è quello di un soggettivismo che porti a giustificare ogni comportamento. Per questo l’Esortazione non si stanca di ricordare che «i presbiteri hanno il compito di “accompagnare le persone interessate sulla via del discernimento secondo l’insegnamento della Chiesa e gli orientamenti del vescovo”», sollecitando anche «un esame di coscienza, tramite momenti di riflessione e di pentimento» (n.300). Il pontefice ‒ che deve qui fare i conti con l’insistenza di Giovanni Paolo II, nella Veritatis splendor, sugli atti «intrinsecamente cattivi» ‒, cita a sostegno della continuità del suo insegnamento con la tradizione le parole di san Tommaso, secondo cui «in campo pratico non è uguale per tutti la verità o norma pratica rispetto al particolare». Ma è evidente il carattere fortemente innovativo dell’intervento di Francesco, confermato da un certo disorientamento dei presbiteri e dalle difficoltà delle comunità ecclesiali a dare concreta applicazione all’invito di avviare i percorsi di accompagnamento nel discernimento previsti dall’Esortazione.
Un papa rivoluzionario
Forse il documento che rivela più di ogni altro la provenienza culturale di papa Francesco è la sua prima enciclica, la Laudato si’ (2015). Un documento che si situa nel tradizionale insegnamento sociale della Chiesa, ma lo fa in modo originalissimo, riprendendo un tema caro alla teologia della liberazione, il legame tra lo sfruttamento della natura e quello degli esseri umani: «L’ambiente umano e l’ambiente naturale si degradano insieme» (n.48). Da qui l’esigenza «di una ecologia integrale, che comprenda chiaramente le dimensioni umane e sociali» (n.137). Una ecologia che entra in rotta di collisione con le logiche del neocapitalismo: «I poteri economici continuano a giustificare l’attuale sistema mondiale, in cui prevalgono una speculazione e una ricerca della rendita finanziaria che tendono a ignorare ogni contesto e gli effetti sulla dignità umana e sull’ambiente» (n.56). A questo proposito l’enciclica non esita a denunciare scelte concrete da parte del sistema, come «il salvataggio ad ogni costo delle banche» (n.189). La sola soluzione a questo stato di cose, secondo il documento, è un cambiamento radicale di rotta: «La politica non deve sottomettersi all’economia e questa non deve sottomettersi ai dettami e al paradigma efficientista della tecnocrazia» (ivi). Già Giovanni Paolo II nella Centesimus annus (n.42) aveva avvertito che il fallimento del marxismo non legittimava il capitalismo come sistema. Però quello di Francesco è un vero e proprio attacco frontale, che spiega perché in certi ambienti degli Stati Uniti le reazioni all’enciclica siano state molto negative e abbiano dato luogo a una sistematica opposizione a questo papa.
La sfida della fraternità
Che gli esseri umani, secondo il Vangelo, siano tutti fratelli, non è certo una novità. Eppure l’enciclica di papa Francesco Fratelli tutti (2020) ha suscitato una reazione polemica da una parte del mondo cattolico. Soprattutto per la sua impostazione. Portando all’estremo una tendenza già presente nella Laudato si’, questo documento segna un cambiamento importante nel concetto stesso di «enciclica». Mentre tradizionalmente con questo termine si indicava una lettera del papa ai vescovi della Chiesa cattolica e, attraverso di loro, ai soli fedeli, questa di papa Francesco è rivolta a tutti gli uomini e le donne, credenti e non credenti, nella consapevolezza che, non potendo contare ormai sulla premessa della fede, il senso del messaggio è quello di un contributo alla riflessione comune. Lo spiega lo stesso Francesco, fin all’inizio dell’enciclica: «Pur avendola scritta a partire dalle mie convinzioni cristiane, che mi animano e mi nutrono, ho cercato di farlo in modo che la riflessione si apra al dialogo con tutte le persone di buona volontà» (n.6). Da qui un cambiamento profondo nella struttura stessa del documento. Mentre le encicliche normalmente partivano dalla esposizione dei dati della fede, già nella Laudato si’ il primo capitolo è dedicato ai problemi della terra e solo nel secondo capitolo entra in gioco il discorso relativo alla Rivelazione. Nella Fratelli tutti addirittura il riferimento esplicito alla prospettiva religiosa e a quella più specificamente evangelica compare solo nell’ottavo capitolo, l’ultimo. E, alla luce di quanto si è detto, dovrebbe essere chiaro perché: Francesco ha voluto parlare a tutti, anche a quell’immenso numero di persone che non si riconoscono nella sua Chiesa.
Il dialogo interconfessionale e interreligioso
In questa prospettiva che valorizza la fraternità rispetto alle contrapposizioni, il pontificato di papa Francesco ha realizzato iniziative importanti nella direzione del dialogo con le altre confessioni cristiane e con le altre religioni. Quanto al primo punto, si sono fatti passi molto significativi in particolare nel dialogo con i luterani. Il 31 ottobre 2016 papa Bergoglio inaugurava l’anno di Lutero, incontrando i rappresentanti del luteranesimo mondiale nella cattedrale svedese di Lund. A un anno esatto da quella data, le poste vaticane hanno emesso un francobollo che celebra la nascita del protestantesimo: V Centenario della Riforma protestante, si legge in cima al francobollo. Per quanto riguarda il dialogo interreligioso, in particolare è stato significativo l’incontro con l’imam di al Azhar e presidente del Consiglio degli anziani dell’Islam, con il quale nel 2019 Francesco ha firmato il «Documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune», superando definitivamente una stagione di incomprensioni legate al discorso di Ratisbona di Benedetto XVI.
Le questioni del matrimonio dei presbiteri e dell’ordinazione delle donne
I due problemi su cui papa Francesco si è trovato non più davanti all’opposizione degli ambienti conservatori della Chiesa, ma a quella dei «progressisti», sono stati quelli del matrimonio dei presbiteri e dell’ordinazione delle donne. Grande attesa c’era, riguardo a questi due punti, dopo il Sinodo sull’Amazonia, per l’Esortazione apostolica Querida Amazonia (2020), in cui si pensava che Francesco avrebbe fatto delle aperture almeno alla prima di queste possibilità. La risposta del papa ha deluso queste aspettative. Ma lo ha fatto in nome di una logica che non è quella conservatrice del «si è fatto sempre così», anzi punta sul superamento di un vecchio vizio della Chiesa, che è il clericalismo. Non si può e non si deve credere che il problema sia di moltiplicare i preti. Certo, «c’è necessità di sacerdoti, ma ciò non esclude che ordinariamente i diaconi permanenti (…), le religiose e i laici stessi assumano responsabilità importanti per la crescita delle comunità» (n.92). In particolare, c’è urgenza che vi siano «responsabili laici maturi e dotati di autorità» (n.94).
Un analogo ragionamento sta dietro il rifiuto di aprire all’ordinazione delle donne. Contro la convinzione «che si accorderebbe alle donne uno status e una partecipazione maggiore nella Chiesa solo se si desse loro accesso all’ordine sacro», col risultato di «clericalizzare le donne», bisogna ribadire che è necessario, piuttosto, «che le donne abbiano un’incidenza reale ed effettiva nell’organizzazione, nelle decisioni più importanti e nella guida delle comunità, ma senza smettere di farlo con lo stile proprio della loro impronta femminile» (n.103). Si può apprezzare la coerenza di questa scelta. Ma, deludendo i suoi tradizionali sostenitori – senza per questo far cessare l’ostilità dei suoi oppositori ‒ essa ha esposto Francesco a un isolamento doloroso che sta caratterizzando questi ultimi anni del suo pontificato. Alle minacce sempre incombenti di uno scisma da parte dei tradizionalisti, ora se ne è aggiunta una che viene invece dagli ambienti progressisti della Chiesa tedesca. Eppure, tra luci e ombre, questi dieci anni hanno costituito una stagione di fondamentale importanza per la Chiesa. Senza nulla togliere ai meriti di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI, forse Francesco è stato il primo pontefice che ha preso sul serio fino in fondo l’appello al rinnovamento del concilio Vaticano II. Questo non poteva avvenire senza rischi e senza contraddizioni, anche perché il concilio aveva cercato di riconciliare la Chiesa con una modernità che stava concludendosi e che ormai oggi ha lasciato il posto a una post-modernità assai più difficile da definire. Su questo terreno inesplorato Francesco ha dovuto avventurarsi per cercar di restare fedele all’esigenza espressa nel Vaticano II, senza però potersi sottrarre ad una sfida di creatività che veniva dalla novità del contesto culturale. Su alcune prospettive del suo pontificato si dovrà certamente ancora meglio riflettere, ma possiamo fin da ora essere certi che esso ha aperto una via su cui ormai non si potrà tornare indietro.
GIUSEPPE SAVAGNONE