Brena Renzo
Inquieti e in ascolto come profezia sinodale
2023/2, p. 1
Dal 21 al 25 novembre 2022, presso la Casa del pellegrino-Santuario dell’Amore misericordioso di Collevalenza, si è tenuto il tradizionale Convegno organizzato da CISM, USMI e Ufficio nazionale per la pastorale delle vocazioni della Cei.

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Inquieti e in ascoltocome profezia sinodale
Dal 21 al 25 novembre 2022, presso la Casa del pellegrino-Santuario dell’Amore misericordioso di Collevalenza, si è tenuto il tradizionale Convegno organizzato da CISM, USMI e Ufficio nazionale per la pastorale delle vocazioni della Cei. Introducendo i lavori del 39° Convegno dell’Area Formazione della Vita consacrata, il salesiano Carlo Maria Zanotti ha rivolto un pensiero riconoscente a don Beppe Roggia «per il suo servizio umile, gioioso, competente, appassionato e creativo», che a Collevalenza di anno in anno ha sempre offerto un valido contributo per la formazione personale dei formatori e di ogni consacrato. Un impegno rinnovato anche nell’ultimo Convegno che ha messo a tema “Chiesa inquieta: ascolta e cammina! Vita consacrata e presenza profetica sinodale”, dove la «fraternità e la sinodalità» sono la sfida, l’unica sfida per riformare la Chiesa e le comunità religiose. Per questo le giornate di Collevalenza hanno privilegiato la sinodalità come metodo «per ascoltare ed accogliere le differenze, mettendosi in gioco, provando a leggere nei cammini quotidiani le inquietudini che rallentano o frenano la realizzazione di una fraternità sinodale». Che cosa in questo momento storico non aiuta la vita consacrata ad essere presenza profetica sinodale? È questa la domanda di fondo che ha guidato tutto il Convegno. E per non rinchiudersi «nella sicurezza di tanti slogan sulla sinodalità», ha detto don Zanotti, aprendo i lavori, «vogliamo vivere una esperienza di vero ascolto, confronto, apertura e conversione».
In queste pagine presentiamo – in una nostra riduzione – il contributo del dehoniano Renzo Brena sulle inquietudini della vita consacrata, e le conclusioni di don Carlo Maria Zanotti, che ha ripercorso le intense e feconde giornate del Convegno di Collevalenza.
Inquietudini dentro le comunità religiose
Ecco alcune inquietudini riscontrabili nei singoli consacrati/e e nelle nostre comunità/famiglie religiose che toccano il nostro senso di identità e di appartenenza. Non sono novità, ma credo che permettano di intuirne anche altre.
Calo vocazionale – Negli ultimi due decenni si è verificata in ogni famiglia religiosa un’emorragia di vocazioni difficile da ignorare, ed è un dato che inquieta, ovviamente. Al desolante dato numerico dovrebbe seguire però una riflessione seria, che non si riduca alla semplicistica critica al cambio dei tempi, alla scristianizzazione della società, al relativismo morale, al calo demografico, ecc. che ci vede spostare sempre il problema all’esterno.
Ciò che io sento – e cerco di condividere coi confratelli – è una domanda sola, declinata in vari modi: che cosa dice a noi questa crisi vocazionale? Visti gli attuali fenomeni culturali, che cosa chiede a noi il Signore oggi, in questa realtà storica e culturale? Non sarà che noi, il modo di percepire la nostra vocazione e il nostro stile di vita dicono poco o niente al mondo d’oggi? Se è così, che cosa possiamo/dobbiamo cambiare in noi e nel nostro modo di credere e di vivere?
Questione delle opere – È un problema serio che, unito a quello del calo vocazionale, ci mette in una condizione faticosa e difficile da sostenere. Diminuiamo numericamente, ma opere e strutture rimangono. Ciò vuol dire che il carico di lavoro e responsabilità aumentano, fino a rasentare, in certi casi, forme e situazioni che sfiorano il “disumano”!
Il portato emotivo/affettivo di questa situazione è un ingombrante groviglio interiore fatto di senso di colpa, senso di inadeguatezza, fratelli/sorelle più o meno in condizioni di burn out, la sensazione diffusa di non sapere bene chi siamo e perché dobbiamo fare tutta questa fatica!
A tutto ciò, ovviamente, paga pegno anche la nostra vita interiore e di preghiera. La nostra lucidità è messa alla prova: è difficile dare senso a una vita vissuta di corsa e trovare tempo ed energia interiore per starci dentro con Dio...
Certo, decidere di lasciare certe grandi opere chiede il coraggio di sapersi ripensare in modi diversi e in forme inedite, cosa che richiede un lavoro di discernimento molto impegnativo ma, proprio per questo, in linea con la chiamata alla conversione e a un servizio aggiornato alle urgenze di oggi... tenendo presente che il dato economico è importante, ma non è l’unico riferimento né il più importante.
Senso della vita consacrata cercasi! – Come da manuale, le nostre comunità continuano la loro vita, sostenute dalla struttura dell’orario, della liturgia, del lavoro pastorale alla luce del carisma. Ma c’è un virus che erode la nostra quotidianità a livello esistenziale, riconoscibile nella pesantezza con cui viviamo la quotidianità, il fatalismo con cui subiamo la realtà, l’insoddisfazione, la scarsa creatività e il vivere all’insegna del minimo indispensabile, la fatica a dare senso alla propria vita e la rassegnazione... E sottotraccia c’è una domanda che non ci poniamo volentieri: qual è il sapore, la qualità della nostra vita comunitaria? Possiamo dire, onestamente, di percepire ancora la vocazione come dono e di vivere ogni giorno “in stato” di vocazione?
Senso della missione – È diretta conseguenza dello smarrimento appena descritto. La missione non è più percepita come fonte di un dato identitario evangelico – quindi trasformativo – ma sempre di più come un lavoro che ci vede presenti al mondo come semplici operatori sociali (educatori, insegnanti, infermieri, assistenti sociali, ecc...) come “funzionari di Dio” (cfr. E. Drewermann). Le tante opere, che sentiamo come un peso, palesano un senso missionario con il fiatone grosso quanto a capacità di lettura dei segni dei tempi e creatività, e spesso finiscono per essere vissute, più o meno consapevolmente, come una giustificazione. Inoltre, a motivo del calo dei preti diocesani, la pastorale parrocchiale diventa per i consacrati una sorta di impegno ministeriale “sicuro”... anche dal punto di vista economico!
C’è inquietudine e inquietudine
Condivido, ora, un paio di considerazioni a partire da queste inquietudini.
Nel servizio di animazione mi guida una frase del santo John Henri Newman: «diecimila difficoltà non fanno un dubbio». È vero! Le difficoltà manifestano la presenza di un problema, stimolano a un passaggio da compiere, un cambiamento da operare: se accettate e affrontate, sono un crogiuolo che raffina la nostra esperienza, ci conducono alla progressiva scoperta della realtà, della nostra identità, personale e comunitaria. E inquietarsi, di fronte alle vicende della vita, non aiuta e non porta frutti di crescita.
Sento come un dovere richiamare continuamente a me stesso e ai miei confratelli questa sana inquietudine: diventare sempre più, libera e piena trasparenza della misericordia del Padre. Essa prova la presenza in noi di un desiderio evangelico di giungere alla libertà di amare come ama Gesù, aperti a tutti gli esseri viventi, così come sono, con il coraggio dell’umiltà di chi accetta il duro lavoro della vita e delle relazioni, senza cedere al bisogno esibizionistico di calcare le ribalte reali o virtuali per dimostrare di essere “qualcuno”. Un mondo già abbondantemente nevrotico non ha bisogno di una vita consacrata altrettanto nevrotica, ciarliera, smaniosa di farsi notare, ma di gente umile, concreta, votata al servizio di ogni essere umano! Sono queste presenze evangeliche che fanno la storia della salvezza...
Papa Francesco ci richiama spesso al pericolo della mondanità spirituale che, nella vita consacrata, porta a un calo nel senso di appartenenza nelle derive ormai ben note dell’individualismo, dell’identificazione col ruolo, di un malinteso senso della privacy e di una riservatezza che produce isolamento anche nei nostri conventi.
È preoccupante il silenzioso diffondersi nelle nostre comunità di uno stile relazionale di sfruttamento dell’altro. Ovviamente non lo teorizziamo, anzi, parliamo di comunità e di comunione ma, a ben guardare, non viviamo al servizio del bene reciproco: ognuno si pensa al singolare, pensa ai suoi impegni, al suo ministero, dando per scontato che, per le cose comuni, «ci penserà qualcun altro». È sempre più frequente vedere il frate/la suora che si fa gli affari suoi, trascura le cose comuni e sfrutta il lavoro, l’impegno comunitario di pochi altri, con il risultato concreto di una distanza affettiva sempre più marcata tra confratelli/consorelle, silenzi e vuoti di partecipazione nei momenti comunitari e incomprensioni che si sclerotizzano nel tempo...
Questi atteggiamenti rivelano una preoccupante assuefazione alla logica regressiva della cultura attuale che obbedisce a un imperativo psicologico egocentrico: «esisto io con i miei bisogni», e si esige che il bisogno sia gratificato, perché in ciò consiste il vero benessere.
In questo contesto, anche i voti religiosi, simbolo di totalità del dono di sé, sono vissuti nella logica di un’osservanza minimale, a cui manca lo slancio e la profondità del dono di sé. Nelle nostre comunità la castità sembra essere diventata un valore opzionale, che ognuno si aggiusta come più gli garba, a seconda delle proprie inclinazioni, una dimensione tanto “privata” che non se ne parla mai (o quasi) e raramente riesce a dare colore e calore alla vita comunitaria; la povertà è vissuta con tanti “distinguo” ed eccezioni ben razionalizzate; l’obbedienza è un problema per i superiori più che un sano desiderio di libertà evangelica di ciascun consacrato/a.
Insomma, la “radicalità evangelica”, locuzione con cui fino a non molto tempo fa si definiva la vita consacrata, l’abbiamo persa per strada...
La nostra vocazione ha il pregio di porci nella storia con la potenza rivoluzionaria del paradosso della libertà evangelica, per il quale: sei veramente vivo quando sei disposto a morire; sei davvero ricco quando ti spogli di te stesso; sei davvero sicuro quando ti lasci condurre; sei davvero libero quando ti lasci “condizionare” dalla ricerca del bene dell’altro e sei disposto a lasciare le tue (pseudo) sicurezze; realizzi davvero te stesso quando sei uno con l’altro... Questo è un progetto inverosimile, ma attualissimo, possibile solo nella fede!
Possiamo cogliere la forza della fraternità e goderne i frutti solo quando accettiamo di fare i conti con la fragilità nostra e degli altri. La vita fraterna dei consacrati è un segno grande, un lampo che illumina il mondo egocentrato di oggi. Ma è anche un segno fragile perché affidato a noi, creature segnate dal limite e dal peccato. È fragile e lo resterà sempre, perché noi siamo creature fino alla fine della nostra vita. E questa fragilità non è un dato negativo, ma è grazia, perché ci conferma che la fraternità è un dono del quale non siamo mai padroni, che vive in noi solo se lo accogliamo nel fratello/sorella. La nostra fragilità di creature è humus di vita accolta come grazia che ci coinvolge nella creazione, sempre attuale, del Regno di Dio!
In questa linea, la fraternità ha a che fare con l’accettazione della morte e ha un dinamismo pasquale. La fraternità ci pone costantemente di fronte allo svelamento di ciò che veramente siamo e vogliamo, alla scelta concreta se vivere chiusi su noi stessi e sulle nostre abitudini più o meno sane, o aperti all’Altro e alla Vita, la quale ci viene sempre offerta/donata attraverso l’altro (bello/ brutto, simpatico/antipatico, amabile/brusco, connazionale/straniero, ecc.), ci costituisce nell’essere, ci provoca, ci mette alla prova dei fatti e costruisce la nostra identità nel rischio della fiducia reciproca, che è vera radice di appartenenza.
Ma se davvero la vita fraterna in comunità è una realtà pasquale, come mai ci ritroviamo irrigiditi nei nostri schemi, difendiamo le nostre posizioni, siamo così distanti o superficiali – eccetto poche “amichevoli” eccezioni – invece di sperimentare la potenza trasformante della vita di risorti? La risposta è che noi vogliamo soluzioni definitive ai problemi, e fatichiamo ad accettare che la soluzione passa attraverso ciascuno di noi, attraverso la nostra vulnerabilità, l’inquietudine, la tensione e la fatica della crescita, le rinunce implicite nell’esercizio della nostra libertà, nella scelta dell’“unico necessario”.
Il risultato di questo atteggiamento è sotto gli occhi di tutti: anche noi abbiamo messo al centro della nostra vita il mondo delle sensazioni, delle emozioni, degli affetti, del benessere personale, per cui il mondo dei valori evangelici è accolto a livello superficiale, dandoci una sensazione di tepore, ma non è quel fuoco di cui parla Gesù, che brucia dentro, dal quale ti lasci prendere in profondità, ti cambia la vita e si irradia ad altri...
Della Pasqua noi istintivamente cogliamo la bellezza del ritorno alla Vita e dimentichiamo che prevede il passaggio della morte a se stessi, dell’offerta, del dono disinteressato motivato solo dall’Amore, in pura perdita! È questa libertà di Gesù che ci ha acceso il cuore in gioventù, ed è solo camminando in una libertà di amare e servire come la sua che possiamo essere segno di speranza per il mondo di oggi!
RENZO BRENA SCI