Prati Anita
Dire tempo al tempo
2023/2, p. 40
Che cos’è il tempo? È scesa un’altra sera, un altro fine settimana si è presentato, tra poco un altro anno si concluderà, e il nostro commento ancora una volta sarà «Com’è passato in fretta…» Com’è passato in fretta, il tempo. Sì, ma il tempo cos’è?

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Testimoni
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Il tempo della storia e della vita
Dire tempo al tempo
Che cos’è il tempo? È scesa un’altra sera, un altro fine settimana si è presentato, tra poco un altro anno si concluderà, e il nostro commento ancora una volta sarà “Com’è passato in fretta…” Com’è passato in fretta, il tempo. Sì, ma il tempo cos’è?
Il tempo è acqua?
Per dire “tempo” i greci non si accontentavano di una parola sola, come noi, che siamo così parsimoniosi da servirci addirittura dello stesso vocabolo per indicare tanto il tempo-che-passa quanto il tempo-che-fa. I greci, invece, distinguevano, innanzitutto, tra il tempo della meteorologia e il tempo dell'orologio. Il tempo della meteorologia era h tou aéros katàstasis – la condizione dell’aria. Il tempo dell'orologio… – beh, i greci, si sa, non avevano orologi ma clessidre, clessidre ad acqua, e quindi, per esempio, durante un processo, quando la durata dei discorsi delle parti doveva essere misurata con precisione, il tempo era udor, acqua. Acqua che scorreva nelle clessidre. La classe non è acqua, il tempo a volte sì. Il tempo come acqua è spesso un dato molto concreto della nostra realtà quotidiana, il tempo con cui facciamo i conti ogni giorno e che ogni giorno cerchiamo di imprigionare nelle nostre rozze clessidre, il tempo che sempre ci sfugge e non ci basta mai: eccoci lì, ogni giorno, affannati a capovolgere clessidre su clessidre nel maldestro e quasi mai riuscito tentativo di trattenere nelle nostre giornate tutto il-tempo-che-ci-serve-per.
Tempo senza tempo
Il termine greco più noto per dire “tempo” è chronos. È un termine che conosciamo tutti perché si è intrufolato in moltissime parole della nostra lingua a parlarci del tempo come di una geografia dalle coordinate facilmente identificabili. Perché il chronos può essere tempo trascorso, passato, e può essere tempo a venire, futuro. Il chronos è una linea che dal punto presente si protende verso il dopo e verso il prima, un luogo da attraversare, un luogo già attraversato. Una retta forse infinita – come infinito è, forse, lo spazio di questo nostro universo in espansione – ma non indefinita. Comunque misurabile, esplorabile, immaginabile. Rassicurante, nella sua linearità.
Ora, considerare il tempo come chronos non è cosa scontata: in Omero, il tempo degli eroi è ancora un tempo-senza-tempo, indefinito, come il “c'era una volta” delle fiabe. Possiamo situare la conquista del concetto di chronos da parte dei greci in un preciso sfondo storico-culturale: quando, alle soglie del V secolo a.C., la storiografia comincia a fare i suoi primi passi e il racconto di ciò che è stato esce dai confini indefinibili del tempo-senza-tempo per indossare i panni della narrazione storica e della cronaca. Ma, prima... Prima, per i greci, c’era stato un tempo in cui tutto era divino. Il cielo. La terra. La luce. Le tenebre. La notte. Il giorno. Un tempo in cui ogni grano di polvere sulla terra, ogni astro luminoso nel cielo, era un dio. Quel tempo-senza-tempo, popolato soltanto da presenze divine, i greci lo chiamavano aiòn. Strana parola, aiòn. Imparentata con l’avverbio aèi, che significa “sempre”, aiòn indica anche la forza vitale, la vita nella sua essenza più intima – il midollo dell’essere. Aiòn è il tempo della vita che sempre si rinnova, che non conosce il prima e il dopo, ma che sempre – aèi, appunto – ritorna a ripercorrere lo stesso ciclo. Le vicende del mito – così come il “c’era una volta” delle fiabe – vivono di questo ripetuto rinnovarsi del medesimo in una dimensione non dimensionabile. Achille insegue Ettore attorno alle mura di Troia, ma non chiediamoci quando. Domanda non pertinente. Penelope tesse la sua tela e poi la disfa, la tesse, e la disfa, la tesse, e la disfa... Aiòn è la tela di Penelope, filo che in perpetuo viene svolto e avvolto.
Ma poi dalla Ionia, terra di frontiera, arrivano i primi logografi, che si mettono a raccontare le storie dei loro viaggi in terre lontane e dei popoli che quelle terre abitano. È la geografia che insegna la storia. Sfondo della narrazione non sono più luoghi indefiniti in un tempo-senza-tempo, ma orizzonti spaziali e temporali tanto definiti da poter diventare mappa geografica e catena di genealogie. Ecateo e gli altri logografi aprono una breccia nel tempo circolare del mito – aiòn-, e dalla circonferenza schizza fuori la tangente - chronos- che insegnerà agli uomini a contare i propri giorni.
Occasioni
Kairòs è un dio recente, che Omero ed Esiodo non conoscono. Pausania, nel suo gran tour in giro per la Grecia, afferma di aver visto un altare a lui dedicato ad Olimpia, la città dei giochi. Ma è il poeta Posidippo di Pella, del III secolo a.C., a fornircene la prima e più dettagliata descrizione. In un breve componimento epigrammatico di carattere ecfrastico, Posidippo descrive una statua per noi perduta del famoso scultore, suo contemporaneo, Lisippo. L'epigramma si presenta come un vivace dialogo tra un anonimo osservatore e la statua stessa che, rispondendo alle domande incalzanti dell'interlocutore, rivela il nome del proprio artefice, svela la propria identità e presenta i propri tratti irrinunciabili:
- Di dove viene e chi è mai il tuo scultore? - È di Sicione. - Il suo nome?
- Lisippo. - Tu chi sei? - Kairos che tutto doma.
- E perché cammini sulle punte? - Corro sempre. - Perché hai
un paio d'ali ai piedi? - Volo col vento.
- Perché tieni un rasoio nella destra? - Segno per gli uomini
che sono più aguzzo di qualsiasi punta.
- E la chioma, perché l'hai sul viso? - Perché chi mi incontra, m'acciuffi.
- E perché, per Zeus, hai la nuca calva?
- Perché nessuno, pur augurandoselo, m'afferri
da dietro mentre corro sui piedi alati.
- Perché l'artista ti ha plasmato?
- Per voi, straniero, e mi pose nell'atrio come insegnamento.
Kairòs è un dio giovinetto. Corre sempre, non si ferma mai. La testa senza capelli, non fosse per un ciuffo che gli scende sulla fronte, lo si può solo afferrare al volo, lo si può acciuffare solo giocando d'anticipo. Se lo si lascia passare, non lo si può più prendere, neanche per un pelo.
Anche fra le favolette di Fedro c'è un bell'indovinello dedicato a Kairòs:
TempusCursu volucri, pendens in novacula,calvus, comosa fronte, nudo occipitio,quem si occuparis, teneas; elapsum semelnon ipse possit Iuppiter reprehendere,occasionem rerum significat brevem.
Effectus impediret ne segnis mora,finxere antiqui talem effigiem Temporis.
Tempo
Dal passo alato, sospeso sul rasoio,
calvo, fronte chiomata, nuda la nuca,
se lo acciuffi, tienilo; una volta scivolato via,
neppure Giove potrebbe riprenderlo:
raffigura la breve occasione.
Perché il pigro indugio non intralciasse i risultati,
una tale effigie del Tempo plasmarono gli antichi.
Dai greci ai romani, con Fedro, l'immagine di Kairòs mantiene i suoi tratti inconfondibili. Ma, in modo quasi impercettibile, la grammatica evidenzia uno slittamento di genere: il titolo della favola rimanda al neutro Tempus; gli attributi e i riferimenti grammaticali sono al maschile (calvus, quem) come il greco Kairòs, ma il concetto sta già virando verso la femminile occasio. Solo un paio di secoli, infatti, e il poeta della tarda latinità Ausonio, imitando Posidippo, compone un epigramma in cui l'immagine di Kairòs ha ormai assunto degli inconfondibili tratti femminili:
Sum dea quae rara et paucis Occasio nota.
Sono Occasione, dea rara e a pochi nota.
La novità è che, per Ausonio, l'occasione non viene mai da sola. Accanto a lei sta Metanoia, il pentimento; una dea - genere femminile anche per lei, dunque - che sta lì, appresso ad Occasio, a suscitare perenne pentimento facti non factique, del fatto e del non fatto:
Sum dea quae facti non factique exigo poenas,
nempe ut paeniteat.
Sono la dea che esige la pena del fatto e del non fatto,
perché tu appunto te ne penta.
Le parole viaggiano e, nei loro viaggi, portano con sé concetti, pensieri, idee. E i concetti e le idee, incontrando nuovi paesaggi, inevitabilmente si modificano e trasformano, pur mantenendo sempre qualcosa del vecchio sé. Che ne è stato di Kairòs divenuto Occasio?
Niccolò Machiavelli, non solo trattatista ma anche cultore di poesia secondo la forma dantesca della terzina incatenata, nel suo breve Capitolo dell’Occasione si lascia ispirare dalla figura di Occasio così come l’aveva incontrata in Ausonio, poeta che s'era ritagliato una certa fama tra i poeti del Rinascimento:
-Chi se’ tu, che non par’ donna mortale,di tanta grazia el ciel t’adorna e dota?Perché non posi? e perché a’ piedi hai l’ale?
-Io son l’Occasione, a pochi nota;e la cagion che sempre mi travagli,è perch’io tengo un piè sopra una rota.
Volar non è ch’al mio correr s’agguagli;e però l’ali a’ piedi mi mantengo,acciò nel corso mio ciascuno abbagli.
Li sparsi mia capei dinanti io tengo;con essi mi ricuopro il petto e ’l volto,perch’un non mi conosca quando io vengo.
Drieto dal capo ogni capel m’è tolto,onde invan s’affatica un, se gli avvienech’i’ l’abbi trapassato, o s’i’ mi volto.
- Dimmi: chi è colei che teco viene?- È Penitenzia; e però nota e intendi:chi non sa prender me, costei ritiene.
E tu, mentre parlando il tempo spendi,occupato da molti pensier vani,già non t’avvedi, lasso! e non comprendicom’io ti son fuggita tra le mani.
In quello stesso torno d’anni – tra fine Quattrocento e inizio Cinquecento –, a Mantova Andrea Mantegna era impegnato al servizio di Isabella d’Este, coltissima e autorevole marchesana di una delle corti più illuminate dell’Italia rinascimentale. E a Mantova, nel Museo della Città di Palazzo San Sebastiano, si conserva oggi un affresco monocromo, attribuito a Mantegna e alla sua scuola, dal titolo Occasio et Poenitentia. Questo affresco era stato, con tutta probabilità, commissionato a Mantegna dalla stessa Isabella per il suo famosissimo studiolo. Il titolo e il soggetto dell'opera non lasciano dubbi: Mantegna trae la sua ispirazione dallo stesso epigramma di Ausonio cui si era pochi anni prima ispirato Machiavelli. Ecco, allora, un’operazione interessante: leggere il Capitolo dell'Occasione di Machiavelli come fosse una didascalia dell’affresco; o, viceversa, guardare l’affresco di Mantegna facendosi aiutare, per la comprensione, dai versi della poesia.
Ore e primavere
Giorno dopo giorno, a recuperare nella successione delle stagioni il senso di un ciclo che ha in sé la propria conclusione ed il proprio inizio :
If Winter comes, can Spring be far behind?
Se l'Inverno viene, può tardare Primavera?
Così Shelley nella chiusa della sua Ode al vento di Ponente. L'anno è un anello. Dove comincia un anello? Dove finisce? Ha un principio, un anello? Ha una conclusione? Se l'anno è un anello, l'inverno ha già in sé la primavera – e l’arrivo dell'inverno è primavera in prossimità. Il tempo ha una forma rotonda. Il corso del sole all'orizzonte, il ciclo della luna, il susseguirsi delle stagioni. Cerchi su cerchi – il tempo è una ruota.
Il tempo è una ruota e la primavera ogni anno ritorna. Ora, la chiamavano i greci. Ora è la primavera, l'età giovanile, la bellezza, la grazia. Suggestivi, sempre, i viaggi delle parole attraverso le lingue e attraverso i secoli. Per noi “ora” sono i sessanta minuti, la ventiquattresima parte del giorno; “ora” è adesso, in questo momento. Per i greci Ora è una fanciulla aggraziata. È una, anzi sono tre, perché tre per i greci erano le stagioni dell’anno: primavera, estate-autunno, inverno. Le Orai, custodi delle porte di quel cielo da cui scendono sul mondo tutti i fenomeni atmosferici, delimitano e proteggono l’orizzonte del tempo nel suo scorrere lungo l’anello dell’anno. Eunomia, Dike, Eirene. Esiodo, nella Teogonia, le dice figlie di Zeus, il padre degli dèi e degli uomini, e di Themis, la Giustizia divina, e sorelle delle tre Moire - Cloto, Lachesi, Atropo :
Per seconda prese in sposa Themis la salda, che generò le Ore,
Eunomia e Dike ed Eirene fiorita,
le quali proteggono le opere ai mortali,
e le Moire, cui moltissimo onore assegnò Zeus sapiente,
Cloto e Lachesi e Atropo, le quali danno
agli uomini mortali d’avere e il bene ed il male
A partire dalla seconda metà del III secolo a.C. i romani cominceranno a scandire la successione del tempo durante l’arco della giornata, e misureranno le horae con l’horologium. Ma in Esiodo le Orai sono immagini, figure - figura di qualcos’altro. Eunomia, Dike, Eirene. La buona legge o buon governo; la giustizia; la pace. Se le Ore sono figlie di Themis, Giustizia divina, l'ordine di natura non è figlio del caso, e il tempo non è abbandonato a se stesso. Una presenza Altra regola e sostiene il succedersi delle stagioni. Una presenza che parla di una giustizia superiore, di un sigillo non manipolabile da mano d’uomo, origine e sostanza di ogni opera di giustizia sulla terra. I greci questo lo sentono, e lo traducono, loro così misogini, nella forma femminile che presiede lo scorrere delle stagioni lungo la ruota del tempo. Una figura femminile che si tripartisce ma che, proprio nel suo essere trina, dà luogo all’unità. Eunomia, il buon governo e la buona legge, ma non solo, ma di più: la disposizione ad accogliere con rispetto l’indicazione data, il senso profondo della legalità. Dike, la giustizia come prassi, come azione efficace, come modus operandi, come strumento per relazionarsi in comunità. Eirene, la pace come condizione prima dell’esistenza: non semplice accordo stipulato fra le parti in lotta, non tregua scaturita da una transazione utilitaristica, ma dimensione di un vivere felice assegnata in dote a tutti i mortali. Figlie di Zeus e di Themis, le Ore custodiscono lo scorrere del tempo universale, il ritmo del tempo nel volgere della ruota, mentre le sorelle Moire governano il destino di ogni uomo: Cloto fila per ciascuno lo stame della vita, Lachesi lo misura, Atropo - l’inflessibile - lo recide.
In Esiodo, dunque, eventi naturali come le stagioni, il ciclo della natura, il seme nel buio della terra, il germoglio che spunta, il frutto che matura, vengono chiamati con nomi che con la natura sembrano non aver nulla a che fare. C'è però un'altra tradizione, più tarda, risalente a Pausania, che assegna alle Ore nomi apparentemente più pertinenti: Tallò, la Fiorita; Auxò, la Rigogliosa; Carpò, la Fruttuosa. Ma questo sarà dopo. In origine, con Esiodo e la sua Teogonia, quando si comincia a riflettere sul mondo e sul tempo, le stagioni sono fanciulle figura della Legge che governa l’ordine del cosmo.
Le Ore sono tre. E sono una. E l’Ora par excellence, nel mondo greco, è l’Ora primaverile, la stagione della rinascita della natura e della freschezza della prima vegetazione. La stagione della giovinezza. Prossima tanto alla notte invernale quanto alla pienezza estiva, Ora diventa, per i greci, sinonimo di “tempo”. Di un tempo connotato, senza correttivi, come “tempo buono”. Se Kairòs è il tempo opportuno in quanto occasione sempre fuggevole nell’instabile equilibrio dell’attimo, Ora è il tempo opportuno in quanto tempo “buono”, buono come la primavera e come la giovinezza.
Il mese, la luna
Chronos è il tempo della successione cronologica. Giorni, mesi, anni... Giorno dopo giorno, a costruire l’architettura del mese seguendo il sempre mutevole, ma armonico, corso della luna. Perché i greci guardavano il sole – ed ecco ēméra, il giorno. Ma nel buio della notte guardavano la luna – ed ecco mēn, il mese. Il mese organizza il tempo secondo una struttura che, nel flusso monotono del giorno dopo giorno, va ad aprire un senso ulteriore, non immediatamente s-contato. Il mese insegue qualcosa che non si dà nell'evidenza immediata – diversamente dal carro di Hélios, che quotidianamente percorre, da mane a sera, le vie del cielo. Il mese, per essere pensato, chiede di spiare nel buio della notte il mutamento che ciclicamente si rinnova. Il sole ogni giorno ritorna, sempre uguale a se stesso. Anche la luna ritorna, ma ogni volta sempre diversa. Giorno dopo giorno, notte dopo notte, sempre mutante, sempre in divenire, mai uguale alla se stessa del giorno prima, in una successione di fasi il cui replicarsi secondo un criterio di identità solo il tempo paziente e dispiegato della con-templazione del cielo permette di comprendere. Di comprendere e di misurare. Mēn, mese. Mēnē, luna. Quanti sono i giorni di un mese? Trenta giorni ha novembre, con april, giugno e settembre; di ventotto ce n'è uno... Ventotto è il numero giusto, all'inizio. Ventotto giorni in un mese, come ventotto i giorni del ciclo lunare. Il ciclo lunare è lo strumento primo di elaborazione del concetto di mese. E, dunque, in greco mēn (mese) e mēnē (luna) e mēniaia (mestruazioni); in latino mensis e il suo aggettivo menstruus, “mensile”. Aggettivo che, sostantivato, indica appunto il ciclo della fecondità femminile che con regolarità mensilmente si rinnova.
Le parole per dire “mese” in greco e in latino condividono la radice non solo con il nome della luna, ma anche con alcuni verbi che esprimono l'attività del pensiero, l'elaborazione di concetti, l'organizzazione del dato di visione, del ciò che si è visto, in un articolato schema di riflessione: calcolare, pensare, ricordare... Posso dare per certo e prevedibile il rapporto col sole. Se dormo fino a tardi, la sua luce mi sveglia. Se mentre vado a caccia o raccolgo erbe nella foresta non mi accorgo del tempo che è passato, il venir meno della luce del sole mi dice che il giorno è finito e che è arrivato il momento di ritirarmi al sicuro. Con la luna il rapporto è diverso. La luna devo andarla a cercare. Devo scovarla. Devo capirla. Non si dà nell'immediatezza della visione, la luna. Non sempre, quanto meno. A volte c'è, a volte non c'è. A volte c'è tutta, a volte un po' meno. E, così, per pensare la luna – la devo pensare. Il sole – mi basta vederlo. La luna, la devo capire e la devo pensare. E per pensarla bene, devo imparare a contare il tempo, dandomi il tempo di con-templare il cielo di notte. Solo se con-templo il cielo e conto il tempo, posso pre-vedere la luna anche quando non la vedo.
È per questo che, alla radice dei nomi del mese e della luna, c'è una radice indoeuropea che significa “calcolare, computare, pensare”: *man-, *mēn-, *mn-, *mon-, in tutte le sue varianti apofoniche. O forse è per questo che la luna ha dato il suo nome non solo al mese, ma anche a tutti quei verbi che indicano l'azione astratta del pensare. Troviamo questa radice in latino nel verbo metior, misurare, e nel sostantivo mensura; nei verbi memini e memoro, ricordare, e moneo, faccio menzione, e nei sostantivi memoria e mens, che hanno corrispondenza in greco nel verbo mimnēsko e nel sostantivo mnēmē. Questa radice è attestata anche in sanscrito e in accadico, dove si ritrova il termine manu, che significa calcolare, definire. E, d'altra parte, è questa anche la radice della parola latina manus, il nostro primo strumento di calcolo, e della parola greca metron, misura.
Tornano alla mente gli studi di Giovanni Semerano. Smentendo il legame etimologico, dato troppo spesso per scontato, tra il sostantivo homo e l'aggettivo humanus, il grande linguista riconnetteva piuttosto l’aggettivo humanus ad ummanu, parola accadica che significa “competente, scienziato”, e che rimanda appunto alla radice che indica il calcolare, il pensare.
Verrebbe da prendere il largo su questo pensiero – che alla radice dell'umanità ci sia la luna, il suo misterioso chiarore da meditare e contemplare nel silenzio.
Il giorno, l’effimero
Chronos è il tempo che vive, innanzitutto, della monotona successione del giorno dopo giorno, al ritmo del regolare sorgere e tramontare del sole. I greci per dire “giorno” usavano le parole hémar ed heméra, i latini dies, da cui l’aggettivo diurnum (tempus), che è all’origine della nostra stessa parola italiana. Dies, come deus, ha in sé, portato dalla radice *div-, il chiarore della luce, lo splendore rilucente che rischiara ed illumina. Questo spiega perché l’italiano, il latino ed il greco utilizzino i termini che significano “giorno” sia per indicare l’arco temporale delle ventiquattro ore, cioè il moto completo di rotazione della terra su se stessa, sia per parlare delle ore della luce diurna contrapposte alle ore del buio notturno, la corsa apparente del sole all'orizzonte - quello che, con doverosa precisione terminologica, l'astronomia ci inviterebbe, invece, a chiamare “dì”, in quanto parte distinta del giorno rispetto alla notte.
Pindaro non è, oggi, fra i poeti classici più amati, di quelli che si leggono per riconciliarsi con la vita. Di lui, nella memoria degli studenti, restano i voli – la capacità immaginifica di saltare da una situazione poetica all’altra – e poco di più. Pagato profumatamente per scrivere poesie che venivano recitate in occasione di pubbliche cerimonie, al momento della consegna dei premi delle gare atletiche, nelle sue odi lascia spazio solo alla celebrazione di chi sta sul podio a godersi il successo. Al perdente, uno sguardo di commiserazione, e nulla più.
Anche nella Pitica VIII c’è un vincitore da esaltare, un lottatore così possente e vigoroso da aver atterrato quattro avversari in un sol colpo. Ma Pindaro è vecchio, ormai, quando compone questa ode, che sarà anche il suo ultimo lavoro poetico. È vecchio, e di gare e di vincitori e di perdenti ne ha visti tanti, troppi.
Effimeri. Cos’è “qualcuno”? Cos’è “nessuno”? Ombra di sogno
l’uomo. Ma quando – dono divino – giunge un fulgore,
gioia splendente è sugli uomini
e dolce eternità.
Ha celebrato tante vittorie, Pindaro, tessendo versi perfetti per esaltare i nuovi eroi della sua contemporaneità, gli eroi delle gare sportive che entusiasmano le folle, che stanno sulla cresta del successo e tutti vorrebbero imitare. Anche lui, il sommo poeta, come i suoi eroi ha preso parte all’agone della fama, e anche lui un po' se ne è ubriacato – la gloria e il tripudio non gli sono affatto spiaciuti. Ma, dopo tutte le parole spese per acclamare questo e quello, di tanta mondanità che cosa rimane? È un Pindaro sconsolato quello che, a conclusione della sua ultima fatica poetica, si trova a constatare che gli uomini, i quali nel successo vorrebbero potersi pensare eterni, non sono altro che epameroi, effimeri – gente di un solo giorno, di una sola heméra. Il successo, la fama, la gloria: non lì dobbiamo cercare l’eternità. Successo, fama, gloria sono beni di breve durata, come di breve durata è l’uomo, effimera “ombra di sogno”. L'ombra è la notte, è l’oscuro. Ma l’oscurità non è il tutto della vita. La vita – giorno che si consuma in un battito di ciglia – può aprirsi all'aiòn, all’eternità, solo se a toccarla è una luce, dono divino – diòsdotos.
In-fine
Quando il pensiero si dilata fino al tempo ultimo, giunge all’èschaton, il tempo dei tempi. In greco èschaton è l'ex-tremus, ciò che sta oltre – extra – l'ex. Anche l'idea del tempo ultimo rampolla da un concetto spaziale. Anzi, più che un concetto, ex è un minimum spaziale. Ex è lo spostamento da, è ciò che, portandoti fuori, ti permette di uscire. Senza ex non c'è movimento e non c'è decisione. Ex: ti guardi alle spalle, e capisci che è da quel luogo là che provieni, è da là che hai preso le mosse. Là è la tua radice. Te ne sei allontanato/a, ne sei uscito/a; te ne puoi scindere, ma non ne puoi prescindere. In latino, da ex a extra, da extra ad exterior, da exterior ad extremus, diteggiando sfumature che marcano via via in modo più deciso la presa di distanza. In greco, da ex a eschaton senza passaggi intermedi. Per capire l'eschaton è indispensabile voltarsi all'indietro, gli occhi puntati all'ex. Lo sguardo rivolto all'indietro a guardare i passi compiuti misura la distanza in giorni di cammino. E lo spazio diventa, così, il tempo impiegato ad attraversarlo. Gli occhi puntati all'ex misurano lo spazio-tempo della vita compiuta e concepiscono lo spazio-tempo della vita da compiere, spingendo il pensiero fino alla fine della finitezza, là dove il finito si squarcia nella fissità definita della morte per poter - in fine - incontrare l'in-finito. Forse il nostro tempo patisce la mancanza di un pensiero escatologico perché ha perduto il senso della storia? Di generazione in generazione, mentre misura un tempo che è passato, si apre alla dimensione del tempo che verrà. Ma quando un anello salta o non tiene, la catena di trasmissione del senso si blocca. E il motore gira a vuoto su un eterno, ripetitivo e sempre ripetuto, presente.
Il tempo come una coperta, il cui lembo esterno è l'eschaton. Il tempo come una montagna, la cui cima è l'eschaton. O come un baratro, il cui fondo è èschaton. Niente a che fare con il sogno o con l'immaginazione. Èschaton, tempo della vita incommensurabilmente misurabile. Quando i Padri della Chiesa cercano una parola per riflettere sul tempo ultimo dell'esistenza umana, guardano al greco del Nuovo Testamento, e nell'alveo della teologia cristiana nasce l'escatologia. Noi, possiamo leggere una poesia di Emily Dickinson:
Poiché non potevo fermarmi per la morte -essa gentile si fermò per me -la carrozza conteneva solo noi due -e l'Immortalità -
Viaggiammo lenti – lei non aveva frettae io avevo messo da parteil lavoro, e il riposo anche,per la sua cortesia -
Passammo la scuola, dove i bambini correvano
in cerchio – in ricreazione .
Passammo i campi di grano attonito -
passammo il sole al tramonto -
o piuttosto – esso passò noi -
le rugiade scesero con un brivido gelido -
poiché era solo garza – la mia gonna -
lo scialle – solo tulle -
Sostammo davanti a una casa che sembrava
un rigonfiamento nel terreno.
Il tetto era appena visibile -
il cornicione – nel terreno -
Da allora – sono secoli – e tuttavia
sembra più breve del giorno
in cui prima sospettai che le teste dei cavalli
fossero verso l'eterno <p> Emily Dickinson, <i>Poesie</i>, a cura di Massimo Bacigalupo, Oscar Mondadori 1995, pag. 264-5 nr. 712 <p/><p> <p/>.
Il viaggio verso l'eschaton è il viaggio di tutta la vita. Lungo la strada, i compagni di viaggio non mancano. Ma quando, gentile, la morte si ferma davanti alla nostra porta, sulla carrozza non ci siamo che noi – noi, la morte e l'immortalità. Lentamente, senza fretta, la carrozza si avvia, percorre l'ultimo tratto. Il tempo del viaggio misura un giorno lungo come tutta la vita: bambini che giocano a scuola la mattina, e un meriggio di campi di grano, e il tramonto che porta con sé il brivido della frescura notturna sulla pelle nuda sotto l'abito leggero. La carrozza si ferma. Una casa ci aspetta - poco più di un rigonfiamento del terreno. A stento se ne scorge il tetto. Da allora – sono secoli. Since then - 'tis Centuries. Come si misura il tempo dell'eschaton? Sono passati secoli ex, da allora. Ma quei secoli scandiscono un tempo molto più breve dell'intera lenta giornata di viaggio che ha condotto toward Eternity - verso l'Eternità. L'Eternità è la misura dell'eschaton. E qui Emily è precisa come il più fine teologo.
ANITA PRATI