Quale spiritualità è evangelica?
2023/2, p. 17
Occorre chiederci se nella spiritualità vissuta nella maggior parte delle forme di vita religiosa ci sia qualcosa che non ha a che vedere con ciò che impregna le pagine del Vangelo.
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Testimoni
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UN INTERROGATIVO CHE INTERPELLA
Quale spiritualità è evangelica?
Occorre chiederci se nella spiritualità vissuta nella maggior parte delle forme di vita religiosa ci sia qualcosa che non ha a che vedere con ciò che impregna le pagine del Vangelo.
Dai racconti evangelici emerge che Cristo presentò il suo messaggio sulla spiritualità (religiosità) come qualcosa che era alla portata di tutti, che si poteva apprendere in qualsiasi luogo: per le strade dei villaggi, lungo il cammino, nelle case della gente, nei campi.
In questa nuova epoca, nella ricomprensione della spiritualità, come può esserci di aiuto la teologia? Y.Congar - sulle orme di Chenu – risponderebbe così: «abbiamo sempre pensato che la teologia avesse qualcosa da dire agli uomini d’oggi, a condizione però che non si limitasse a ripetere le formule di una volta e sapesse cercare una risposta ai problemi del tempo».
Qualcosa da portare a guarigione
Immagino sia stata proprio questa la preoccupazione di Gesù nel rispondere alla domanda della Samaritana presso il pozzo di Sicar; una risposta che fa intravvedere che nella religiosità – di allora e di oggi – c’è qualcosa o molto da portare a guarigione.
Agli inizi del cristianesimo faceva scuola, quale istanza di vita, la teoria di Platone e degli stoici secondo cui corpo e spirito, sono due realtà distinte e contrapposte; da ciò la dottrina sull’anti-divinità della materia per la quale diminuendo l’umano crescerebbe il divino. Idea questa che portava al disprezzo del corpo e della condizione umana, e alla ricerca di dure privazioni di vario genere.
Oggi è incontestabile che la spiritualità cristiana, dopo gli inizi apostolici, abbia ereditato un notevole accento neoplatonico, e questo lo si rileva dalle immagini di santità susseguitesi, caratterizzate prevalentemente dalla rinuncia intravista nello stile di vita austero, mortificato, distaccato dal mondo, penitente, dolorifico. Accentuazione riscontrabile in seguito, ad esempio nel dire di Rembaldo di Liegi (verso il 1120) il quale arrivava ad affermare che, «se vogliamo vedere le cose di Dio, è necessario che deponiamo l’animalità e assumiamo la spiritualità».
Successivamente tutto il medioevo - tranne alcune eccezioni - si è nutrito di una concezione sostanzialmente negativa del mondo: ne fa fede il «De contemptu mundi» di papa Innocenzo III.
E ora a che punto siamo?
Ci troviamo nel tempo in cui l’immagine prevalente che specie le nuove generazioni hanno dei membri di Ordini e Congregazioni, non è più sufficientemente attraente – anche per il fatto che oggi, in Europa l’età media di questi è di circa settantatré anni. In particolare i giovani ritengono che molta parte dei religiosi sia diffidente verso le nuove correnti spirituali, paga dei propri abituali schemi sovraccarichi di forme devozionali destoricizzate, ripetute acriticamente, e orientate a mappe di spiritualità compassata, con paradigmi ascetici dovuti al credere che l’amore di Dio si meriti e che ai primi posti della graduatoria del merito ci sia il sacrificio e la rinuncia. Ma nel Vangelo la radicalità non si misura con la rinuncia ricondotta a ideale in sé. È interessante quanto scrive C. M. Martini in riferimento a s. Paolo il quale mette in guardia dalle dottrine devianti: «Ci domandiamo – dice il noto biblista – quali sono le teorie perverse? Per noi – continua - «oggi è perversa quella che esagera le esigenze della santità, quella che impone atti di ascesi e di devozione assurdi».
Questo dire parte dal fatto che Gesù non fece suo né il pensiero stoico né quello platonico, rifiutando anche per i suoi discepoli ogni rigorismo ascetico. Questo dire non mette in discussione la quotidiana disciplina dell’ascesi, infatti, come sinonimo di «asceta», san Paolo usa in senso spirituale la parola «atleta» (1Cor 9,24-27), termine che rimanda all’esercitazione dello spirito, ad allenamento dell’intelletto e volontà, ad accogliere il «discorso della montagna» in cui l’uomo trova la sua autenticità non solo cristiana ma anche umana, poiché accetta liberamente e con gioia il fardello di dolore, sofferenza, angoscia, preoccupazione presenti nella vita. Allora ascesi cristiana non è rinnegare l’umanità ma è soprattutto rinnegare quanto in noi ci impedisce di «amarci gli uni gli altri». È questo ciò per cui Cristo si spese rivolgendosi indistintamente a tutti coloro che incontrava, per abilitarli a gesti nel quotidiano, come erano i suoi, cioè gesti di ascolto, di servizio e di dono, gesti di pace e di giustizia; e non si è mai rivolto a gruppi di prescelti, nell'intento di separarli dagli altri.
Nel Vangelo, Gesù «lo vediamo fermarsi, ascoltare, toccare occhi, labbra, orecchie, spezzare il pane, entrare nelle case, sedere a mensa, posare una carezza sul fondo dell’anima e parlare delle cose d’amore come nessuno prima aveva saputo fare». È questo modo di «essere» e «fare» che valorizza la visione di Dio come amante della vita (Sap.11,26): quella che lui ha creato, contemplato come fondamentalmente buona in tutta la sua ricchezza di sensibilità, corporeità, impulso vitale, desiderio, emozioni, tenerezza.
Esperti in sapienza del cuore
È questa la realtà essenziale con cui venire a contatto, per lasciarsi da essa interpellare. Diceva Milani: è il prendersi cura, («I care») la modalità imprescindibile del camminare dietro a Cristo, perché è vera spiritualità quella che si fa disposizione d’animo a percepire dall’interno le inquietudini dell’uomo.
L’eccezionalità di Gesù non si scopre soltanto in ciò che ha detto, e neppure nei suoi poteri: tutte cose grandi, ma l’apice della sua genialità è stata nell’essere sensibile ai bisogni degli altri, comprovando così che per il cristiano il comandamento supremo che Lui ci ha lasciato (Gv 13,33-35), quello che condensa tutti gli altri, è il comandamento dell’amore, avendo tutti bisogno per vivere, di ricevere affetto e di darne agli altri.
Spiritualità come dono di sè
Nei Vangeli più di qualche volta è messo in luce che per Gesù l’etica del bisogno altrui veniva prima dell’etica del dovere, tanto da essere visto come minaccia e un pericolo che la religione del suo popolo non riuscì a tollerare. Allora spiritualità è fare della vita il tempo per «stare con».
Per i cristiani, questa spiritualità trova fondamento e alimento nella parola di Dio pregata e meditata (lectio divina) come incontro con “Qualcuno” che cambia l’esistenza con lo spingere al dono di sé, impensabile e impossibile se non nasce dall’esperienza di quella preghiera che agevola l’incontro con il Signore della vita. Si tratta quindi di porre mano alla tradizione culturale in fatto di preghiera, ridotta a insieme di pratiche devozionali (dette pratiche di pietà); una preghiera – come talvolta richiamato dal papa Francesco – fatta di ripetizione spesso meccanica di un alfabeto formato di molte parole, di riti, di liturgie, dentro a un impianto che oggi appare intimista, poco appassionato e appassionante. Non è che tali pratiche siano inutili. Il problema sta nel fatto che queste da sole non è detto che modifichino realmente l’intimo della vita di una persona e di una comunità.
Da qui la necessità per la vita religiosa – mutuando dal dire di p. Magrassi in riferimento alla Messa – di «passare a meno preghiere ma più preghiera», frutto di una spiritualità in armonia con la vita, sostenuta – ebbe a dire P. Schalück - da una liturgia con meno riti, ma con maggiore intensità, e con il senso della bellezza.
Fede che sia un percorso di umanizzazione
In altri tempi non sarebbe stato tanto facile parlare di antropologia nella vita religiosa, ma se lo specifico del cristianesimo, in quanto religione dell’incarnazione di Dio è di ritenere l’umanità il luogo della manifestazione del divino, allora essere cristiani ed essere pienamente uomini diventa alla fine la stessa cosa.
Jean M.Tillard, co-artefice del documento conciliare sulla vita consacrata Perfectae Caritatis, in un suo commento di questo testo, indicò con acutezza e autorevolezza che questo era stato scritto a partire da due fondamentali costituzioni pastorali «Lumen Gentium» e «Gaudium et Spes», entrambi di chiaro indirizzo antropologico. Questo porta a dire che se Cristo è venuto a cambiare il modo di essere uomini, il cristianesimo – e dunque anche la vita religiosa - ha da esprimere trasparentemente l’attitudine ad annunciare la storia della salvezza come la salvezza dell’uomo, di tutto l’uomo.
«Chiunque segue Cristo, uomo perfetto, diventa anch’egli più umano»
Oggi a dirlo è l’agire di papa Francesco il quale presenta nei gesti un cristianesimo che si offre come custodia della qualità dell’umano, per cui la qualità della fede cristiana e la sua credibilità si giocano sulla sua capacità di rendere pienamente umano l'uomo.
È allora tempo di dire un sì a quel Dio descritto da Benedetto XVI come «un Dio compagno dell'umano, che offre piste di senso e di luce, un Dio della gioia e della pienezza, che si trova frequentando fino in fondo l'umanità».
Ne consegue che nel cristianesimo, come religione dell’incarnazione, per trovare Dio, qui nel suo regno, è necessario prendere le distanze da ciò che aliena dall’umano autentico, non essendoci fedeltà al divino che non sia fedeltà a ciò che è nell’uomo. Nella «Gaudium et Spes» (n.1) è detto: «nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel cuore dell’uomo».
Allora camminare nello Spirito è innanzitutto chinarsi verso terra, vale a dire che la nostra vocazione non è di diventare maggiormente angeli, ma uomini e donne che prendono in considerazione il rapporto con coloro nei quali Dio si rende a noi presente e con i quali si è identificato dicendo: «quello che avete fatto a uno di loro, lo avete fatto a me».
«Una vita dunque, che Dio vuole anzitutto che sia vissuta, e all’occorrenza offerta, per rispondere con amore alla richiesta di vita, di qualità della vita e di salvezza della vita del fratello bisognoso, povero, sofferente, peccatore».
RINO COZZA