È questo il tempo delle profezie e dei sogni
2023/12, p. 1
Nel corso della 63ma Assemblea nazionale della CISM, tenutasi ad Assisi
dal 6 al 10 novembre, e che aveva come tema «Sogno e profezia nella vita
religiosa. Discernere in un cambio d’epoca», si sono messe a fuoco le tre
fasi del processo di discernimento, descritte da tre verbi – riconoscere,
interpretare, scegliere.
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Testimoni
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È questo il tempo delle profezie e dei sogni
Nel corso della 63ma Assemblea nazionale della CISM, tenutasi ad Assisi dal 6 al 10 novembre, e che aveva come tema “Il tema di quest’anno è «Sogno e profezia nella vita religiosa. Discernere in un cambio d’epoca», si sono messi a fuoco le tre fasi del processo di discernimento, descritte da tre verbi – riconoscere, interpretare, scegliere. Questo primo anno è dedicato in particolare all’azione del «riconoscere». I cambiamenti non si avviano da bisogni, ma a partire da sogni. Il sogno missionario aiuta a ridire il perché del nostro esserci oggi come chiamati a essere, per dirlo con il compianto padre Pier Giordano Cabra, «trasparenza dell’amore di Dio». Conterrà tre elementi: nuclei evangelici in grado di scaldare oggi il nostro cuore, elementi di discontinuità che siamo chiamati a realizzare per tornare ad essere attrattivi, elementi trasformativi che vogliamo generare laddove si vive per poter coinvolgere gli altri. Di seguito le sintesi degli interventi del teologo Jean-Paul Hernandez, del nunzio in Italia, il cardinale Paul Emil Tscherrig, e del cappuccino Roberto Pasolini.
Come ospedale da campo
La Chiesa come «ospedale da campo» è una delle immagini che più ci ha profondamente toccato. Ci richiama sia un aspetto interno alle nostre realtà sia una visione dell’umano. L’immagine dell’ospedale da campo ci aiuta a recuperare il tema della leggerezza e della semplicità sia nelle relazioni che nelle strutture. Una leggerezza che non si piega alla logica delle necessità ma ci obbliga a camminare scegliendo l’essenziale che è la vita, la vita tutta, con profondità e generatività. Dall’altra parte, il richiamo all’ospedale ci parla di una umanità ferita. Un’umanità che comprende tutti, anche noi consacrati.
In questo ospedale ogni ferita e ogni paura è curata dalla Pasqua di Cristo che da creature ci rende «creature salvate» e più «preziose» di prima, perché rimpastate dal suo sangue (dallo spazio al tempo). Questo passaggio è pieno di luce e speranza: non torneremo come prima e neanche peggio, ma migliori perché la logica pasquale della salvezza ci rende uomini e donne di speranza.
Questa immagine pone anche una contraddizione da sciogliere: l’ospedale in quanto opera ci rassicura, perché comunque ci assegna un posto nel mondo. Abbiamo il nostro posto, abbiamo le medicine, ma non sappiamo quale terapia proporre sia per gli altri che per noi, in quanto siamo anche noi pazienti e bisognosi di cura. La nostra vulnerabilità e dolore possono costituire al tempo stesso la risorsa per una esperienza di trasfigurazione.
È questo il tempo opportuno
Di fronte ad un senso diffuso di inadeguatezza, possiamo però dirci che «è questo il tempo opportuno». Tempo di esilio e di uscita da esso. Possiamo allora esplicitare la gratitudine per la presenza di Dio che agisce, ci precede e ci conduce nella realtà. Alla luce di questo ci sentiamo chiamati ad affrontare le paure, ma soprattutto le interroghiamo per trasformarle in energie nuove che ci mettono dinamicamente in ricerca (come Maria e Giuseppe che «angosciati» cercavano Gesù). Sarà allora questo un tempo di purificazione e di rinascita: per ritrovare un giusto rapporto con il passato, perché questo non diventi un peso; per ritrovare ciò che è essenziale per la vita: la fedeltà e la missione.
L’esilio ci chiama a fare esperienza di essenzialità: rimettere al centro il Cristo, lui stesso guaritore ferito, la Parola e i Sacramenti, il kerygma. Rimettere al centro il folle amore di Dio. Questa esperienza ci permette di passare dalla paura alla speranza valorizzando ogni esilio; di passare dalla «geriatria» (l’uomo vecchio) alla «ostetricia», l’uomo che può dire: «Non sono più io che vivo ma Cristo vive in me», quindi creatura capace di generare vita.
Il kerygma è il punto di congiunzione tra l’essere umano e il battezzato, ovvero traduce la relazione tra la Chiesa e il mondo. Dov’è il kerygma, quando ci rendiamo conto che nelle nostre comunità viviamo le stesse dinamiche di conflitto che vivono le famiglie? Dove è nelle ferite che si generano in esse?
Sulla strada per metterci in relazione
Una Chiesa sulla strada per incontrare le persone: ci sentiamo chiamati a recuperare una dimensione di incontro e più ancora di apertura all’incontro con tutti, di ascolto dei vissuti delle persone. A metterci in relazione con chi è diverso da noi, ad intra e ad extra della Chiesa. La relazione con gli altri ci aiuta a comprendere la nostra diversità scoprendo la pienezza di chi siamo nella valorizzazione dell’altro, vincendo ogni pregiudizio (come il popolo in esilio che è costretto a confrontarsi con i diversi).
L’alterità diviene occasione per uscire dall’autoreferenzialità, per ascoltare l’altro ciò che viene da fuori, sia rispetto a noi stessi sia rispetto alla comunità. Per ascoltare il «grande altro» che è chi è fuori dalla Chiesa. Alterità come rimedio alla omologazione per favorire le condizioni per una vita santa e non spegnere il fuoco. Alterità per diventare architetti di spazi comunitari dove si sviluppa e si vive il carisma anche nella condivisione con i laici. La vita fraterna, il vivere insieme diviene testimonianza che evangelizza. Sarebbe bello poterlo sperimentare quindi anche ad intra tra congregazioni/ordini.
Per un amore misericordioso
Da questo ascolto profondo di tutti (come comprensione profonda, spoliazione), si può attivare un processo di conversione, di accoglienza credente, in grado di suscitare in noi l’amore misericordioso di Cristo. Con questo amore possiamo superare le malattie spirituali che ci affliggono. Possiamo riconoscere il bello nella realtà tutta, senza escludere il dato umano. La misericordia diverrà così nella nostra vita la chiave di lettura per leggere Dio, le relazioni, la Chiesa come ospedale da campo: nel farci compagni di tutti, credenti di strada e non credenti, ripartendo dal comune essere feriti e tutti bisognosi di guarigione. Il passaggio dalla fede basata solo sull’etica a quella dell’incontro.
Riscoprire il battesimo: dinamica di morte e resurrezione
Abbiamo paura di morire e non ci fidiamo fino in fondo del Dio della vita. Ancora stiamo resistendo all'idea della morte e incolpiamo gli altri delle cause. Ci sentiamo chiamati a pensare che la morte delle nostre strutture accoglie il cadavere di Cristo come premessa di resurrezione. La dinamica battesimale ci ricorda che siamo chiamati a morire con Cristo per risorgere e vivere con Lui.
Sentiamo di dover sperimentare la Pasqua come dinamica da vivere, nella quale entrare come persone e come istituzioni per passare dalla morte alla vita. Non si può procedere senza speranza, ma nella fiducia che Dio agisce ancora nel mondo, nella storia, nei giovani. Che il bene può venire anche dagli altri che non consideriamo «nostri».
Dobbiamo imparare nuovamente a leggere ogni nostro fallimento in una logica pasquale. Accettare sia il grido di dolore che ci abita, sia il grido di gioia come dinamiche di una nuova vita di ritorno dall’esilio. Come il popolo, tornato dall’esilio si riappropria e riscopre il valore formativo della Parola, nell’ascolto, nella meditazione e nella celebrazione, così per noi la frequentazione della Sacra Scrittura diventa un percorso urgente e necessario per ogni cammino di conversione, che genera vita e gioia.
Possiamo allora avere uno sguardo positivo sul mondo e sui giovani dove lo Spirito è già presente. Proprio dai giovani, anche consacrati, ci sono appelli ad una maggiore autenticità, appelli che dobbiamo saper riconoscere, ad esempio il fatto che il lavoro è in funzione della vita e di una maggiore fraternità.
Dobbiamo allora interrogarci ancora: cosa significa per la vita consacrata oggi morire con Cristo? Pensiamo che ci è richiesto un cuore guarito, che abbia contrazioni e dilatazioni.
La sfida della piccolezza: contrazione del cuore
Una forma di contrazione del cuore è quella di farci piccoli, accettando di essere quello che siamo, cioè fragili, sia personalmente sia istituzionalmente. Proprio nell’essere piccoli si torna a vivere il Battesimo.
Piccolezza e radicalità provano che sentiamo la verità del Vangelo ancora viva dentro di noi e ci invitano a tornare all’essenziale – le relazioni – lasciando andare tutto il resto. Infatti, la piccolezza è l’essere piccoli per creare spazio all’altro e permettere a lui di crescere nella carità e nella fraternità. Uno stile di relazione evangelica: come kenosi di Gesù e nostra kenosi.
Piccolezza è accoglienza della fragilità personale e altrui, affinché diventi il legame che ci unisce ad intra e ad extra e come via per promuovere il lavoro di squadra.Nella piccolezza si diviene più autentici: ci è chiesta una spoliazione dei nostri modelli e una relazione diretta con il Cristo presente in chi incontriamo. Piccolezza non come perdita, quindi, ma come arricchimento. Ci invita a raccontarci, ad usare lo strumento semplice del proprio esserci e del proprio raccontarci senza filtri. Come occasione per presentarci senza maschere, per sentirci «nel mondo» e non solo di fronte/davanti al mondo, e per cogliere il mistero di un Dio attento ai dettagli: capaci di scrutare la presenza di Dio che sta nel piccolo, nel dettaglio, nel frammento e nello scarto.
Vivere autenticamente le relazioni
Una forma di dilatazione del cuore che sentiamo fondante è la capacità di stupirsi. La qualità della nostra fede possiamo riscontrarla nel modo in cui viviamo le relazioni personali, in particolare le relazioni alla pari. Certo, spaventano le diversità che gli altri (i miei confratelli) rappresentano, abbiamo imparato a onorare le regole di comunità evitando accuratamente le relazioni.
Abbiamo bisogno di riconoscere fino in fondo che la relazione con l’altro è il criterio di verifica della nostra fede. La morte dei nostri confratelli, ad esempio, è espressione del grado di legame e di appartenenza alla nostra famiglia religiosa. È a partire dal criterio della relazione che diventiamo generativi e capaci di fidarci delle nuove generazioni.
L’autenticità consiste proprio nella capacità di mostrare e prendersi cura dell’umano nelle relazioni, con la consapevolezza di essere piccoli/umili e allo stesso tempo autorevoli.
Lo stesso tema di una teologia del piacere e della sessualità ci richiama che la Chiesa è «questione di relazioni unitive, tra corpo e corpo». Ci aiuterà a dire l’Incarnazione e l’ecclesiologia, scaldando i cuori, anche a chi non comprende più il nostro linguaggio. Sentiamo di non dover avere paura di confrontarci sui temi della sessualità per capire che il nostro corpo deve compiersi anche nell’eros.
Profezia da testimoniare
La profezia si presenta come orizzonte di una vita alta da vivere e da testimoniare. In essa risuona l’aspetto consolatorio: «Dio, mentre noi facciamo storie, continua a fare la storia».
Vediamo e sentiamo la bellezza di una comunione dei carismi: trovando più ciò che ci unisce rispetto a ciò che ci divide: cioè la vita evangelica, nel riconoscimento reciproco del legame vitale di ciascuno con il proprio carisma.
Un invito: «Uccidi e mangia». Individuare il modo migliore per comprendere cosa sacrificare in vista di un dialogo possibile e costruttivo con il «pagano» e tra noi. Rafforzare il coraggio per rimettersi in discussione costantemente, come Pietro che ascolta lo Spirito e rivede le sue motivazioni. Solo così potremo camminare verso prospettive di rinnovamento deciso e concreto.