Cozza Rino
Transitare dal lavorare «per» all’essere «con»
2023/12, p. 17
Non basta «fare del bene» (lavorare «per»), ma bisogna «voler bene» (essere «con»); il mondo attuale chiede ai religiosi/e scelte di condivisione di vita attraverso persone che nel territorio abbiano la capacità di «contaminarsi» con mondi, linguaggi, volti concreti, senza chiudersi nelle proprie rassicuranti prospettive e abituali prestazioni.

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SGUARDO SUL PRESENTE PER IL FUTURO
Transitare dal lavorare «per» all’essere «con»
Non basta «fare del bene» (lavorare «per»), ma bisogna «voler bene» (essere «con»); il mondo attuale chiede ai religiosi/e scelte di condivisione di vita attraverso persone che nel territorio abbiano la capacità di «contaminarsi» con mondi, linguaggi, volti concreti, senza chiudersi nelle proprie rassicuranti prospettive e abituali prestazioni.
Le attuali forme di vita apostolica vengono dal tempo in cui si credeva che la bellezza e fecondità di una data forma di vita consacrata fosse data dagli atti religiosi e dai «servizi» che prestava (lavorare «per»), ma oggi, con maggior ragione si va dicendo che la bellezza le dovrebbe essere data dalla capacità di testimoniare il volto di Dio manifestato in Gesù Cristo, attraverso esperienze concrete di vita che portino ad uscire dai consueti discorsi che spesso rischiano di cadere in fondamentalismi paralizzanti.
Cosa non facile, perché le esperienze che i religiosi/e nei secoli scorsi hanno fatto e ancora stanno facendo, hanno offerto certezze che non intendono abbandonare, dimenticando che il cristianesimo – come religione dell’incarnazione – in ogni sua forma deve evitare irrigidimenti, perché la fedeltà le è data dall’essere discepoli di «colui che fa continuamente nuove tutte le cose». Per questo motivo, nel tempo in cui la storia dell’umanità non fa che ricominciare, la vita religiosa non può esserne esente, soprattutto nel momento in cui dal suo interno sempre più emergono domande, inquietudini, e malesseri vari, che vengono a dire che non si può più continuare come prima.
Risposte alle domande di oggi
«Mi aspetto che ogni forma di vita consacrata si interroghi su quello che Dio e l’umanità di oggi domandano».
Questa espressione di papa Francesco sottende il suggerire ai religiosi che oggi servono stimoli atti a costruire risposte che, anche se incomplete o precarie, abbiano comunque lo spessore della sfida e della speranza, per il fatto che oggi la vita consacrata non è più sufficientemente riconoscibile nella sua dimensione identitaria, cioè quella il cui vero fine è di sollecitare a vivere il Vangelo in forma chiara e forte, secondo il sogno di Cristo, generatore di nuove consapevolezze che spingano a rischiare i passi su strade non ancora percorse, perché «solo così – disse papa Francesco – è possibile quella scossa capace di risvegliare il nostro mondo intorpidito».
Servono perciò figurazioni di vita religiosa più libere da quell’immagine di sé che si sta eclissando, per il fatto che tutte le istituzioni, pur importanti per la loro forza d’inerzia che aiuta ad andare oltre il tempo, tuttavia si portano pian piano a non sognare, e se sognano – disse il teologo Metz – difficilmente portano a maturità i sogni, perché prive di passione, essendo per loro natura esposte a divenire qualcosa di organizzativo e amministrativo.
Per una trasparenza evangelica
È il momento di «far sorgere altri luoghi dove si viva la logica del dono, della fraternità, dell’accoglienza, della diversità».
La possibilità che ciò possa avvenire è riposta in luoghi di incubazione di nuovi significati culturali a partire dai quali sia possibile inventare nuove forme di vita religiosa, sia individuale che collettiva, consapevoli che la vera identità della vita religiosa consiste nell’essere sovrabbondanza di trasparenza evangelica: in questo sta la sua vocazione piuttosto che in consuetudini svuotate della loro sostanza perché incapaci di ascoltare il respiro sempre nuovo del Vangelo. Con ciò si intende dire che in questa nuova epoca, non basta «fare del bene» (lavorare «per»), ma bisogna «voler bene» (essere «con»); ossia che il mondo attuale chiede ai religiosi/e scelte di condivisione di vita attraverso persone che nel territorio abbiano la capacità di «contaminarsi» con mondi, linguaggi, volti concreti, senza chiudersi nelle proprie rassicuranti prospettive e abituali prestazioni.
Dunque l’operare a cui i religiosi sono preferenzialmente chiamati, è quello espresso da persone che sappiano impastare la propria missione con quella di tutti i battezzati con i quali avere rapporti di eguaglianza, per osare percorsi di una spiritualità che si fa disposizione d’animo a percepire dall’interno le inquietudini dell’uomo, stando nel mondo, abitandolo. A spingere a questo c’è la consapevolezza che «il senso della vita consacrata non è da considerarsi soltanto come inserimento in uno o più ambiti di impegno, ma piuttosto come un modo di essere in tutte le situazioni in cui si è chiamati a vivere».
È dunque necessario che i religiosi/e trovino nuove strade «uscendo», per «andare verso», al fine di poter «essere con», sentendosi viandanti con coloro che cercano, prendendo per mano coloro cha hanno bisogno di imparare a badare a se stessi, e di organizzarsi per divenire delle persone e delle comunità umane responsabili. È da queste vite che ai nostri giorni passa l’annuncio evangelico.
L’immagine suggestiva che il papa ha proposto dell’«essere con», è quella di lasciarsi impregnare dell’«odore» di coloro con i quali si entra in relazione, che significa non temere di sporcarsi le mani con il toccare in profondità la miseria degli uomini e delle donne, dopo essersi presi in carico gli sguardi imploranti, per continuare a essere presenza viva di un Dio che si commuove e si china su di loro per averne cura: è questo il modo di vivere che non cesserà di essere «profumato».
Chiamati a valorizzare la visione di Dioche ama lumano
Con l’incarnazione Cristo ha espresso l’attitudine ad annunciare la storia della salvezza come la salvezza dell’uomo nell’integrità di quell’umano che Dio ha creato e contemplato come fondamentalmente buono, in tutta la sua ricchezza di sensibilità, corporeità, impulso vitale, desiderio, emozioni, bisogno di tenerezza. Per tutto ciò, l'esperienza di fede dev’essere un percorso di profonda umanizzazione.
Si tratta allora per i religiosi/e di imparare a distinguere – nel proprio modo di essere e di fare – tra la religiosità che Cristo ha smascherato, da quella vera, che salva l’umanità nella sua integrità. Compito non facile per una forma di vita iniziata nel tempo in cui si pensava che la spiritualizzazione disincarnata fosse preferibile alla «umanizzazione», idea che orientò a quei paradigmi ascetico-penitenziali, che in qualche misura sono giunti fino a noi, supportati dal credere che ai primi posti della graduatoria del merito ci sia il sacrificio, la sofferenza, la rinuncia. Ma l’ascesi cristiana non è rinnegare l’umanità ma è soprattutto rinnegare in noi quello che ci impedisce di asciugare le lacrime dell’umanità, con quella tenerezza che cancella ogni distanza. Da qui l’urgenza di un religioso/a «da cui traspaia che credere non è un farsi imbrigliare l’umanità, la corporeità, la vitalità, la bellezza, la spontaneità, ma semmai farla esplodere in pienezza».
Si tratta allora «di convincersi che soltanto sentendosi responsabili della felicità degli altri potremo piacere veramente a Dio, perché gli assomiglieremmo nell’amore. Diversamente «quando perdiamo il contatto con la realtà sofferta, disse il papa si è alla deriva». È il momento di convincersi che la salvezza del cristiano si gioca principalmente nel «profano», secondo l’indicazione di Cristo: «avevo fame, sete, ignudo, carcerato, forestiero», tutte situazioni molto terrene, espresse dall’evangelista Matteo con verbi e sostantivi che appartengono a quell’umano con cui Cristo si è identificato con il dire: «tutto ciò che avrete fatto agli altri lo ritengo fatto a me». Da qui il credere che per Cristo, il destino dell’uomo è dato da come ognuno ha affrontato il bisogno dell’altro.
Dalla fecondità funzionale
a quella evangelica
È tempo di passare dalla fecondità funzionale, a quella evangelica. Il motivo per cui dover fare tale passaggio è espresso in «Evangelii nuntiandi» (n. 95), ove si dice che «oggi sono sempre meno coloro che chiedono alla vita religiosa di essere utile con le tradizionali risposte, attraverso cui ormai in molti casi si esplica un funzionalismo manageriale il cui principale beneficiario non è il popolo di Dio ma piuttosto l’istituzione», per cui non è più il tempo di organizzazioni ecclesiali che mettano in primo piano i «servizi istituzionali», un tempo doverosi, ma che oggi hanno trovato i propri professionisti. Da qui l’esortazione ai religiosi, espresso nel documento Rallegratevi, «a uscire dal nido, per abitare la vita degli uomini e delle donne del nostro tempo e consegnare noi stessi a Dio e al prossimo». Un dire, questo, che rivela la consapevolezza che la vita religiosa andava evolvendosi come modello di impresa che per ogni malattia o bisogno produceva assistenza e cultura. Ma - come disse il card. Martini - «quando non si ha più la capacità di evidenziare e rendere appetibile la primaria identità della vita religiosa, dietro l’angolo c’è il pericolo che l’attenzione di un Istituto si riversi su impegni dai risvolti sempre più funzionalisti che portano a sviluppare burocrazie che assorbono le forze migliori» con la conseguenza di portarsi così ad essere avvicendati nel compito di generare all’evangelismo, dalle altre forme che nel frattempo sono sorte o vanno sorgendo. Per tutto ciò non è da stupirsi se papa Francesco invitò a essere «testimoni di un modo diverso di fare, di agire, di vivere». Espressioni che vengono a dire che in questa nuova epoca, l’annuncio messianico non passa da vite subordinate alla custodia del proprio sistema organizzativo che nel tempo si è portato a rivelare i problemi delle istituzioni più che la bellezza di quelle persone che per le istituzioni danno la vita.
È perciò ulteriormente evidente che la scelta di appartenenza ad una forma di vita da discepoli, oggi non è data primariamente da esperienze funzionaliste ma piuttosto da esperienze concrete di vita a misura di quelle di Cristo.
Chiamati a incontrare le persone nelle loro strade
Siamo dunque vocati a incontrare le persone nelle loro strade. Papa Francesco suggerisce un criterio essenziale per il riconoscimento di un carisma: «la capacità di integrarsi nella vita del popolo santo di Dio per il bene di tutti». Il non sapersi adeguare a ciò, non porta soltanto ad appiattirsi in una deriva ma anche a mancare di voglia o possibilità di reinventarsi per imparare a stare diversamente nella storia con forme che sappiano ospitare i nuovi temi della vita, con l’andare oltre i modelli ereditati.
Disse Hannah Arendt: «solo mantenendo la tensione tra tradizione e innovazione è possibile attraversare il tempo, e rendere viva e dinamica, non morta e rigida, la propria identità».
Per quanto detto sembra evidente che nell’ora presente «siamo chiamati a un esodo fondamentale per passare da una idea di vita religiosa come “status” in cui si entra, all’idea che essa sia invece una porta perennemente aperta: un passaggio per entrare in uno stato di continua uscita».
RINO COZZA csj