Chiaro Mario
Dall’io al noi per costruire comunità umanizzanti
2023/12, p. 13
La fragilità e la vulnerabilità sono un importante fattore di prossimità, scardinando la logica autoreferenziale dell’individualismo e del singolarismo. Fragilità e vulnerabilità possono essere la via del passaggio dall’io al noi. Per una comunità umanizzante bisogna inventare una nuova sintesi tra la missione e l’autorealizzazione.

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CONVEGNO NAZIONALE ALFA OMEGA
Dall’io al noi per costruire comunità umanizzanti
La fragilità e la vulnerabilità sono un importante fattore di prossimità, scardinando la logica autoreferenziale dell’individualismo e del singolarismo. Fragilità e vulnerabilità possono essere la via del passaggio dall’io al noi. Per una comunità umanizzante bisogna inventare una nuova sintesi tra la missione e l’autorealizzazione.
È ormai un luogo comune che le ideologie siano morte. In realtà ciò è vero per tutte, tranne una: l’individualismo. Oggi il single è il vero protagonista della vita sociale. Tutto ciò ha un riflesso immediato sulla composizione della famiglia. Si osservava nel rapporto Istat 2022 che «se all’inizio del nuovo millennio la famiglia nucleare formata da una coppia con figli era ancora la più frequente, seppure non più maggioritaria, ai giorni nostri è superata dalla famiglia unipersonale». Per la prima volta in Italia quelle formate da una sola persona (33,2 %) sono più numerose di quelle costituite da una coppia con figli (31,2 %). Nel 2000 erano ancora solo il 24,0 %. Nel giro di pochi decenni in Europa si è passati, dalla famiglia patriarcale, a quella mononucleare e a quella composta di una sola persona.
L’individualismo liberale
La nostra società è caratterizzata da una tradizione liberale che ha messo in primo piano l’individuo, sottolineandone i diritti, primo fra tutti quello di proprietà (individualismo ‘possessivo’). Sulla proprietà è modellato il concetto di libertà, secondo cui «la libertà di ciascuno finisce dove comincia quella dell’altro». Di questo primato della proprietà vediamo oggi le estreme conseguenze in certe battaglie bioetiche: aborto indiscriminato (diverso da quello voluto per seri motivi di salute della madre o del figlio) che afferma «l’utero è mio e ne faccio quello che voglio»; eutanasia («la vita è mia e ne faccio quello che voglio»); maternità surrogata (la proprietà dell’utero è rivendicata per condurre la gestazione al posto di altri). In forza di questa visione, la dimensione comunitaria (la persona è zoon politikon, un animale sociale/politico) è stata ridotta a una sovrastruttura funzionale all’individualità. Così è cambiato anche il concetto stesso di politica: passaggio dall’idea di cooperazione (convergenza degli sforzi su un fine comune, in cui tutti crescono), che era proprio della famiglia, alla coordinazione (assunzione di regole comuni perché ognuno possa perseguire il proprio obiettivo, a scapito degli altri), tipica del mercato capitalistico.
Il ‘singolarismo’
Nella post-modernità si è sempre più affermata una variante dell’individualismo che lo modifica profondamente e che è il ‘singolarismo’. Davanti alla minaccia della massificazione, di cui l’individualismo è solo l’altra faccia, si è sentito il bisogno di tenere maggiormente in conto la concreta realtà delle persone. Nell’ambito dei diritti, si è passati dalla tutela di quelli «dell’uomo» a quelli «dell’anziano», «del malato», «dei bambini», etc. Su questa strada si è proceduto fino a sostituire l’anonima figura dell’individuo con quella delle persone in carne e ossa. E quando oggi si parla del trionfo del single, è a questa variante singolarista che si fa riferimento. Mentre ciò che costituisce l’individuo è il suo essere un atomo definito solo dal possesso di se stesso, della sua attività e delle sue cose, ciò che caratterizza il singolo è la sua autenticità, l’essere quello che sente di essere e il poter vivere su questa base. Resta una profonda continuità con l’individualismo. Solo che, mentre quest’ultimo ignora il ruolo degli altri, il singolarismo lo ritiene essenziale, ma in funzione autoreferenziale. Al singolarista non basta essere autonomo dalla comunità, vuole essere riconosciuto da essa nella sua identità. Questo lo rende più battagliero nella sua rivendicazione dei propri diritti, perché non vuole solo poter fare senza impedimenti le sue scelte, ma esige anche che la società esprima un apprezzamento di esse e le consacri nelle sue leggi. L’individualismo non è di per sé soggettivista: per esso il mondo c’è, anche se è solo il campo di battaglia in cui ognuno deve farsi valere nella competizione con gli altri. Per il singolarismo invece la realtà è come io la sento e la vivo: essa in sé non conta. È significativo che il concetto di «salute» sia ormai legato al benessere soggettivo del singolo. Lo dice il documento istitutivo dell’OMS (Organizzazione mondiale della sanità) del 1946, secondo cui la salute «non è soltanto l'assenza di affezioni o malattie, ma è il completo benessere fisico, psichico e sociale». Se la salute coincide col benessere complessivo del singolo, è chiaro che l'oggettività delle valutazioni sulla gravità dei disturbi da curare lascia il posto a scelte del tutto soggettive: essere grassi, per esempio, o avere il seno piccolo o il naso storto, o non avere figli, possono compromettere il benessere psicologico di qualcuno più che un'ernia o un'appendicite. Il solo arbitro ultimo del proprio benessere fisico psichico e sociale non può che essere il singolo. E poiché, a differenza dell’individuo, questi pretende di essere riconosciuto, le sue esigenze ricadono sulla società. Ciò, ai fini dell'equità nella distribuzione delle risorse, può rendere molto difficile stabilire una gerarchia di priorità. Alla fine, nella società capitalistica, lo spazio dove le pretese del singolo è il mercato e a fare la differenza è la disponibilità di risorse da parte di chi chiede le «cure».
Né l’individuo né il singolo esistono
In realtà l’individuo non esiste, come non esiste il singolo. Esistono persone individuali e singole. Questo è vero già per la nascita delle persone. L’essere umano, a differenza degli altri animali, non nasce compiuto e ha bisogno di molti anni per crescere e diventare se stesso. E non è vero che ci si fa da sé. L’esperienza dei cosiddetti «baby-lupo» (bambini smarriti e ritrovati dopo anni nella giungla, incapaci di camminare e di parlare) ci insegna che, senza relazioni con altri esseri umani, non saremmo neppure capaci di postura eretta e di linguaggio articolato. La comunità è costitutiva della nostra identità. Una cultura come la nostra, che mette al primo posto la figura del single, nella forma individualista-singolarista, è una violenza ideologica alla realtà. Quello che ognuno fa nella sua sfera, anche la più privata, ricade sugli altri. Nessun uomo è un’isola (J. Donne). Perciò non si possono separare l’autonomia dalla responsabilità, i diritti dai doveri. Di fatto il venire meno del concetto di bene comune ha comportato l’eclisse della politica e il suo assoggettamento all’economia, a sua volta dominata dal gioco selvaggio della finanza (Laudato si’, 54 e 109). Le conseguenze devastanti della crisi della politica sono sotto i nostri occhi: populismo, astensionismo, emergere dell’ultra-destra. A livello economico, le ingiustizie dilagano. In Italia ci sono più di 5mln di persone – i cosiddetti «incapienti» – che non pagano tasse perché non hanno un reddito sufficiente. È dunque necessaria una rivoluzione culturale, tornando alla formula della Rivoluzione francese: «libertè, egalité, fraternité». Ebbene, solo i primi due termini hanno avuto fortuna, mentre il terzo è stato di fatto misconosciuto o contraddetto dall’enfasi sui diritti e sul misconoscimento del senso di responsabilità reciproca. Ma senza la fraternità, anche gli altri due termini hanno assunto un significato diverso. La libertà si è trasformata in autonomia individuale (l’altro è un limite e non una risorsa) e l’uguaglianza si è ridotta a un concetto formale, compatibile con gravi disparità o con forme di massificazione.
Il soggetto fragile
Eppure vi sono degli aspetti della cultura contemporanea che possono condurci alla riscoperta del «noi». Uno è la sensibilità al tema della fragilità. Dopo il trionfo del «soggetto assoluto» nel pensiero moderno, è venuto Nietzsche che ha definito l’io «una favola, una finzione, un gioco di parole», una maschera dietro cui si nascondono cieche pulsioni e percezioni frammentarie. Un messaggio che ha trovato riscontro negli studi di Freud sulla psiche umana. L’io a questo punto diventa il risultato di spinte contrastanti, destinate a prevalere l’una sull’altra a seconda delle circostanze, determinando scelte prive di coerenza. Ma questo produce contraddizioni esistenziali, disturbi psico-fisici, che rendono le persone più fragili e più vulnerabili. Fragilità e vulnerabilità non coincidono, perché la prima è la condizione strutturale della seconda, che si riferisce agli assalti dall’esterno. Ma sono collegate e concorrono nel determinare la nostra umanità. Come scrive Donna Haraway, «la perfezione di un sé totalmente difeso, “vittorioso”, è una fantasia raggelante». Perciò ipotizza: perché non «immaginare la nostra vulnerabilità come una finestra sulla vita?» (Manifesto cyborg, 1995). Noi entriamo in rapporto col mondo attraverso le ferite che riceviamo. Più alla radice è la nostra fragilità che definisce la nostra autenticità. La tradizione biblica ha definito il peccato come tentazione del rifiuto della creaturalità che ci rende finiti. E la salvezza consiste nel riconoscerla. Come dirà Paolo, è nella debolezza umana che si manifesta la potenza di Dio: «Quando sono debole, è allora che sono forte» (2Cor 12,10).
La fragilità e la vulnerabilità
come fattori di prossimità
Proprio la fragilità e la vulnerabilità possono essere un importante fattore di prossimità. È significativo – anche per chi non è credente – che alle radici della tradizione cristiana stiano le parole del Prologo del vangelo di Giovanni: «E il Logos si è fatto carne» (Gv 1,14). Dio stesso è diventato nostro fratello assumendo la nostra fragilità. Fragilità e vulnerabilità possono essere la via del passaggio dall’io al noi. Fragilità e vulnerabilità possono innanzi tutto far saltare la logica dell’autoaffermazione che sta dietro sia l’individualismo che il singolarismo. Scoprirsi fragili e vulnerabili significa avere una visione diversa della propria stessa vita, accettandola fino in fondo in tutti i suoi aspetti. L’alternativa a questo è la fuga da se stessi, per inventarsi «un falso io». Kierkegaard ha individuato in questo atteggiamento l’essenza della disperazione, intesa come un «voler disperatamente sbarazzarsi di se stesso» (La malattia mortale, 1965). In effetti, colui che rifiuta di vedere e di accettare la propria fragilità e la propria vulnerabilità è «disperato»: «quell'io ch'egli disperatamente vuol essere, è un io ch'egli non è». Vincere la tentazione della disperazione permette di non provare paura o vergogna di avere bisogno degli altri. La fragilità e la vulnerabilità ci insegnano che non possiamo farcela senza gli altri. Si può – si deve – saper chiedere aiuto. Reciprocamente, scoprirsi fragili e vulnerabili non significa solo avere bisogno degli altri: è un modo per capirli nella loro debolezza, per accettarli nella vita quotidiana, per perdonarli nei loro errori, perfino nelle loro colpe. Da qui la possibilità di recuperare il valore della fraternità e la necessità della sua riscoperta. Perché la fraternità non teme la fragilità. Mentre l’amicizia suppone una certa uguaglianza, la fraternità si svolge nella asimmetria delle reciproche fragilità. I fratelli non sono necessariamente uguali, anzi il loro rapporto si evidenzia proprio quando uno dei due è in difficoltà. «È mio fratello», si dice allora, per spiegare comportamenti che sarebbero incomprensibili in una logica di pura e semplice reciprocità. Si può così costituire un «noi», recuperando tutta la ricchezza di questa valorizzazione del singolo, attraverso però l’esperienza dei suoi limiti. È essenziale per la fraternità la comune appartenenza a una famiglia, a una comunità.
La necessaria sintesi
tra autorealizzazione e missione…
Questo suppone due passaggi culturali oggi molto difficili. Il primo è il recupero del primato del bene rispetto all’autorealizzazione. Oggi il solo fine rimasto ai giovani – perché il solo trasmesso loro dagli adulti – è quello di realizzarsi. Un obiettivo in sé pienamente legittimo: una importante acquisizione della nostra cultura rispetto a quelle del passato, che in nome dei «valori» spesso chiedevano il sacrificio delle aspirazioni dei singoli. C’era un modo di concepire la «vocazione» e la «missione» che comportava una totale dedizione al fine, fatale alla felicità personale. La prospettiva dell’autorealizzazione restituisce ai singoli il diritto di cercare questa felicità. E tuttavia c’è da chiedersi se non ci si richiuda in un’ottica autoreferenziale che impedisce la stessa autorealizzazione. Perché assumere questa come unico scopo della professione – come di qualunque altro impegno, a cominciare da quello della famiglia – rischia di far perdere di vista qualcosa di essenziale. A chi dice di voler fare il medico perché così potrà realizzarsi andrebbe chiesto se è sicuro che la medicina sia nata perché i medici si realizzino, o se essi non debbano invece mirare, prima di pensare a se stessi, a curare le sofferenze degli altri. E lo stesso vale per tutte le altre professioni. Ma anche per il matrimonio. Oggi spesso è inteso dai due coniugi come il modo di autorealizzarsi. Manca la prospettiva di dar vita a una realtà nuova, perseguendola attraverso il sacrificio delle proprie spinte egocentriche. In questo modo l’unione di coppia è solo somma di due atomi che restano autoreferenziali: «stiamo insieme finché stiamo bene insieme». Da qui nasce una precarietà strutturale (mascherata dai momenti di piena sintonia) e la resistenza a fare figli (verso di loro la formula «stiamo insieme finché stiamo bene insieme» non può essere fatta valere. Per una comunità umanizzante bisogna inventare una nuova sintesi tra la missione e l’autorealizzazione.
… e tra complementarità e reciprocità
Questo comporta che si realizzi anche una seconda sintesi tra due concetti messi in netta contrapposizione soprattutto dal movimento femminista, per quanto riguarda il rapporto tra i sessi e per qualunque vita relazionale: complementarietà e reciprocità. In nome della complementarietà si sono consumate in passato le peggiori repressioni delle identità personali. Ad esserne vittime sono state in particolare le donne, confinate in ruoli che in realtà le mortificavano. Il tema dei diritti è legato, invece, all’idea di reciprocità, per cui ognuno può rivendicare esattamente quello che altri possono avere e fare. La reciprocità va bene come legge dell’amicizia, ma non di quella della fraternità. Non c’è reciprocità tra l’uomo ferito, abbandonato ai bordi della strada, e il samaritano che lo soccorre. Se si perde di vista la complementarietà, si cade in un’uguaglianza senza differenze, che, da un lato, mancando di un orizzonte comune, dissolve la stessa comunione in una somma di individui, dall’altro la può portare a una omologazione. Il frutto di questo equilibrio è un modello che può valere per ogni concezione riguardante la comunità. Non si possono superare l’individualismo e il singolarismo tornando a un primato della comunità che misconosca i diritti individuali. A qualunque livello si deve applicare il concetto di «bene comune»: esso non indica solo il bene del tutto, ma inscindibilmente, quello dei singoli membri della comunità e può realizzarsi solo promuovendo la loro realizzazione personale. Non ci può essere contrapposizione tra l’«io» e il «noi».
M.C.