Mastrofini Fabrizio
Cosa resta del Sinodo dei vescovi?
2023/12, p. 1
Quattro settimane di lavori, 464 partecipanti, 365 votanti tra cui 54 donne; una conferenza stampa al giorno o quasi in Vaticano, relazioni e un documento finale che finale non è perché il Sinodo di quest’anno è un ponte per arrivare all’anno prossimo, con una nuova Assemblea e qualche decisione operativa.

Accedi alla tua area riservata per visualizzare i contenuti.

Questo contenuto è riservato agli abbonati a
Testimoni
.
XVI ASSEMBLEA GENERALE
Cosa resta del Sinodo dei vescovi?
Quattro settimane di lavori, 464 partecipanti, 365 votanti tra cui 54 donne; una conferenza stampa al giorno o quasi in Vaticano, relazioni e un documento finale che finale non è perché il Sinodo di quest’anno è un ponte per arrivare all’anno prossimo, con una nuova Assemblea e qualche decisione operativa.
C’è un’immagine che più di tutto racconta come questo Sinodo sia stato un’avventura vera e propria, di segno diverso rispetto al passato. L’immagine è quella dell’Aula Paolo VI attrezzata per i lavori. I partecipanti non erano nella classica platea rivolta verso un tavolo di presidenza ma disposti attorno a tavoli circolari con 8-10 posti per volta. Un modo per favorire il dialogo e lo scambio. In precedenza, ognuno parlava per pochi minuti e dalla massa informe di interventi si cercava a fatica di recuperare un filo conduttore. Tutt’altro metodo questa volta e la «sinodalità» è nello sforzo di mettere in relazione le persone, parlarsi, trovare aspetti su cui convergere. Papa Francesco lo ha detto chiaramente in apertura dei lavori: non siamo davanti ad una procedura «parlamentare» dove si cerca una maggioranza oppure ci si scontra e alla fine si decide per quantità di voti. Siamo in uno stile «sinodale» dove la ricerca della convergenza è un processo di discernimento e dialogo. Per il papa – e per la Chiesa – è un metodo di lavoro dietro il quale agirebbe lo Spirito Santo. Per chi è meno teologico, bisogna riconoscere che è in atto lo sforzo di superare contrapposizioni e tensioni attraverso un processo di dialogo.
Relazione di sintesi
Il Sinodo si è chiuso con una Relazione di sintesi, divisa in tre parti (i principi teologici che illuminano e fondano la sinodalità; la vita e la missione della Chiesa; lo scambio tra le Chiese e il dialogo con il mondo). L’obiettivo è portarla a livello locale per una più ampia e approfondita discussione, prima del prossimo appuntamento di ottobre 2024 per riprendere il filo del discorso e arrivare a delle conclusioni.
La lettura della Relazione sfuma i toni ed è tutta sull’impronta della gradualità. Ammettere le donne al diaconato e quindi sostituire il sacerdote in alcune funzioni (celebrare matrimoni, amministrare i sacramenti, benedire, predicare)? Qui si conta il maggior numero di opposizioni (69 no, 277 sì), indicando una possibile spaccatura qualora si proceda troppo velocemente. Anche se la proposta che «prosegua la ricerca teologica e pastorale sull’accesso delle donne al diaconato», e la proposta di «una più approfondita» ricerca teologica sul diaconato, hanno ricevuto rispettivamente 67 no e 279 sì e 61 no e 285 sì. Iniziare una riflessione sul celibato obbligatorio dei preti (regola introdotta dopo il Concilio di Trento)? Approvata con 55 no e 291 sì. 53 voti contrari e 293 positivi per il suggerimento di considerare, «caso per caso e a seconda dei contesti, l’opportunità di inserire presbiteri che hanno lasciato il ministero in un servizio pastorale che valorizzi la loro formazione e la loro esperienza». Ha raccolto 27 no – quindi molto pochi – la proposta di «garantire che le donne possano partecipare ai processi decisionali e assumere ruoli di responsabilità nella pastorale e nel ministero», e 26 voti contrari per l’affermazione che «clericalismo, maschilismo e un uso inappropriato dell’autorità continuano a sfregiare il volto della Chiesa e danneggiano la comunione».
Un punto di svolta
Da un punto di vista strettamente ecclesiale, il punto di svolta di un possibile effettivo cambiamento sta nelle 5 righe finali delle proposte approvate nel primo paragrafo della prima parte. Si parla di approfondire il tema della sinodalità, prima attraverso una specifica riflessione teologica; e poi si dice così: «Richiedono un analogo chiarimento le implicazioni canonistiche della prospettiva della sinodalità. A riguardo si propone l’istituzione di un’apposita commissione intercontinentale di teologi e canonisti, in vista della seconda Sessione dell’Assemblea. Pare giunto il momento per una revisione del Codice di Diritto Canonico e del Codice dei Canoni delle Chiese Orientali. Si avvii quindi uno studio preliminare».
Qui c’è lo snodo definitivo, perché tutte le proposte che verranno discusse e magari approvate l’anno prossimo, saranno nulle se non si trasformano in «canoni» del Codice di diritto canonico – nei suoi due rami, quello per la Chiesa di rito latino e per le Chiese di rito orientale. E ovviamente il cantiere è gigantesco.
Come ha scritto don Vinicio Albanesi, proprio a proposito di questo passaggio, «uno dei problemi più impegnativi sarà tradurre in termini giuridici lo stile sinodale, così che la Chiesa sia più vicina alle persone, meno burocratica e più relazionale». Concetti come «discernimento», «dimensione emotiva», «linguaggio liturgico», «denuncia profetica», «giustizia» dovranno essere tradotti giuridicamente (e quindi regolamentati), oppure rimarranno estranei a un diritto che risulterà poco più che un «mansionario» di impegni?
Seguendo la prima strada, il rischio è che il nuovo Codice sia poco più che un appello alle buone volontà, dopo l’invocazione allo Spirito Santo; nella seconda ipotesi, è forse più utile un «insieme di regole» precise e obbligatorie per aiutare a tradurre nei fatti ciò che la teologia, la spiritualità, il magistero e lo stesso Sinodo suggeriscono come nuovo stile. Per essere fedeli al Sinodo, è importante metter mano a quanto il Codice oggi afferma proprio a proposito di se stesso: se rimane stabile la definizione attuale del Sinodo come assemblea dei vescovi che «prestano aiuto con il loro consiglio al Romano Pontefice nella salvaguardia e nell’incremento della fede e dei costumi», la presenza dei fedeli cristiani rimarrà comunque marginale e insignificante. Aumenta l’utilizzo di una sinodalità relazionale, ma non sostanziale (can. 342).
Il cardinale gesuita Jean-Claude Hollerich, relatore generale del Sinodo, ha ribadito il suo punto di vista: «Non sono affatto preoccupato da questi risultati, credo che fosse chiaro che alcune questioni avrebbero incontrato resistenza: sono semmai sorpreso dal fatto che così tante persone hanno votato a favore, il che significa che le resistenze non sono così forti come qualcuno pensava». Sulla stessa linea il segretario generale del Sinodo, il cardinale Mario Grech, secondo il quale l’assemblea ha mostrato che «si sono aperti degli spazi»; «il ghiaccio si scioglie».
Per una corretta idea di sinodalità
Tuttavia il nodo è proprio nel far avanzare una corretta idea di cosa sia la sinodalità. Interessante in proposito il commento del cardinale Christophe Pierre, Nunzio Apostolico negli Usa. All’indomani del Concistoro in cui è stato creato cardinale, ha concesso una lunga intervista alla nota rivista dei gesuiti America. Ed ha affrontato lo snodo di cosa sia la sinodalità, rilevando l’importanza di questo processo nella Chiesa latinoamericana e sotto l’impulso dell’allora cardinale Bergoglio dopo l’Assemblea del Celam ad Aparecida (2007). I vescovi latinoamericani – ha notato il cardinale «hanno sviluppato una dinamica di lavoro e di ricerca di soluzioni condivise, per una migliore evangelizzazione, argomento di cui tratta il sinodo [sulla sinodalità]. Nient’altro: una migliore evangelizzazione. E hanno accompagnato le persone nella loro sofferenza, nelle loro difficoltà e nelle loro sfide». Ad Aparecida i vescovi decisero di scrivere un documento per far fronte «alla difficoltà di trasmettere la fede da una generazione all’altra» in un nuovo contesto culturale. L’allora card. Bergoglio, futuro papa Francesco, fu eletto presidente della commissione dei redattori con 112 voti su 130. Racconta poi che quando arrivò negli Stati Uniti, nove anni dopo, nel 2016, come Nunzio Apostolico, «sono rimasto meravigliato che molti vescovi non sapessero cosa fosse successo ad Aparecida. Non sapevano che la Evangelii gaudium, il primo documento di papa Francesco, aveva lì le sue radici. Non avevano notato ciò che era successo nel loro continente, in Sud America. Questo è molto grave, perché quello che è accaduto non è stato banale. È stato l’inizio di ciò che viviamo oggi. Non sapevano che il papa era uno dei vescovi di Aparecida, né che tutta la Chiesa sudamericana aveva compiuto un formidabile sforzo di sinodalità». Ad Aparecida, ha spiegato il cardinale, «i vescovi hanno affermato che la Chiesa e la società sono cambiate, e la trasmissione della fede non avviene attraverso la cultura come in passato, e quindi bisogna offrire nuove opportunità e modi affinché la gente possa avere un incontro personale con Cristo attraverso una Chiesa che si adatta alla nuova società, un nuovo modo di essere cattolico. Ciò richiede un riadattamento dell’approccio pastorale, cosa molto difficile da fare perché la gente, come tutti noi, siamo fermi alle nostre opinioni, al nostro modo di predicare e di organizzare».
Un altro commento di rilievo è del teologo tedesco Paul Zulhener; ha rilevato, pur in una visione positiva dell’insieme dei lavori, che «l’alto gradimento del presente testo è stato reso possibile dal fatto che molte questioni non sono state risolte, ma indicate come ancora aperte: il che, da solo, deve essere considerato un grande successo. Questo significa molto lavoro per l’anno prossimo. Il diaconato delle donne, la questione del celibato, la cultura sessuale, la questione di genere, la benedizione delle coppie omosessuali − sono tutte rimaste aperte. Da un lato, questo può deludere chi si aspettava già ora delle decisioni. Ma preoccupa anche chi voleva che questi temi fossero rimossi dal tavolo sinodale. Secondo le cifre del voto sulle questioni sensibili, questi ultimi non sono poi così pochi − circa un terzo».
Ma forse la visione più lucida della posta in gioco e del processo in atto è stata espressa da Michael Sean Winters sul periodico statunitense (progressista) National Catholic Reporter. Nota Winters che «per ragioni che alcuni ritengono inadeguate e altri necessarie, i primi tre papi post-conciliari hanno tutti percepito la necessità di frenare alcune delle forze centrifughe scatenate dal Vaticano II. Francesco riconosce che la piena ricezione del Vaticano II dipende dal reinserimento, forse anche dall'incoraggiamento, di queste forze centrifughe. Il mezzo che ha adottato è questo processo sinodale, senza dubbio in gran parte grazie alla sua esperienza dei processi sinodali in America Latina. Pur nella loro diversità, le Chiese dell'America Latina condividono molti legami comuni, mentre la Chiesa globale contiene molte barriere socioculturali. Superare queste barriere per forgiare l'unità ecclesiale per via sinodale non sarà facile. È notevole come molti delegati sinodali abbiano usato parole come «duro lavoro» e «estenuante» per descrivere le loro riunioni! I conservatori scommettono, forse alcuni sperano addirittura, che l'intero processo sinodale si rivelerà troppo faticoso e che la Chiesa tornerà al suo metodo preferito per forgiare l'unità ecclesiale: l'obbedienza a una casta clericale e soprattutto alla Curia romana. Questo approccio ha dimostrato la sua inadeguatezza in troppi modi, dalla crisi degli abusi sessuali del clero ai pasticci finanziari del Vaticano, fino alla deliberata ignoranza delle mutevoli speranze e dei sogni di quella metà della razza umana che è femminile! Francesco ha chiesto di provare un approccio diverso, un approccio sinodale. Il sinodo appena concluso ha chiesto di proseguire con riflessione e preghiera lungo il cammino sinodale. L'attuazione creativa dell'ecclesiologia del Vaticano II da parte dei delegati può non soddisfare alcuni, ma è una svolta importante nella ricezione del Vaticano II. Vale la pena continuare su questa strada. D'altronde, non c'è davvero alternativa».
Da notare, tra i commenti, quello del noto teologo Severino Dianich, tra l’altro uno dei Padri Sinodali. Spiegando alcuni passaggi della Relazione finale, ha sottolineato che «non è sorprendente ma, a mio giudizio, è di fondamentale importanza il ricorrente riconoscimento che i fedeli laici sono veri soggetti della missione nelle loro attività sociali, che le loro esperienze e competenze sono l’attuazione, per ciascuno, di una sua vocazione specifica, per cui non è la frequentazione assidua di spazi ecclesiali a fondare la loro rilevanza nel partecipare ai processi decisionali della Chiesa, bensì la loro genuina testimonianza evangelica nelle realtà più ordinarie della vita». (…) La Relazione suggerisce anche alcuni ambiti su cui operare: rendere obbligatori ai diversi livelli i consigli pastorali, dotarli e, a certe condizioni, della capacità di dare un voto deliberativo, il conferimento anche alle donne di «ruoli di responsabilità nella pastorale e nel ministero» e del ruolo di «giudici in tutti i processi canonici», favorire «un esercizio più collegiale del ministero papale», liberare il vescovo dal ruolo di giudice, da affidare ad altri, in modo da permettergli di esercitare la sua paternità. (…) È anche la prima volta, salvo l’eventuale smentita di una verifica da fare, che in un documento ufficiale si avanza un interrogativo a proposito dell’obbligo di celibato dei preti: «Se la sua convenienza teologica con il ministero presbiterale debba necessariamente tradursi nella Chiesa latina in un obbligo disciplinare». La denuncia, proveniente soprattutto da parte delle donne, del maschilismo e del clericalismo è ricorrente e robusta. Tanto che, alla fine, l’assemblea ha sentito il dovere di esprimere tutta la gratitudine della Chiesa ai preti per il loro quotidiano prodigarsi nel ministero pastorale, per evitare anche la parvenza di voler dare su di loro un giudizio negativo generalizzato.
FABRIZIO MASTROFINI