BUSTILLO FRANÇOIS
L’urgenza di amare
2023/11, p. 4
Ci può essere una vita comunitaria secondo le regole canoniche, ma senz’anima. La vita religiosa fallisce nella sua missione quando la comunità non è fraterna. Per cominciare ad amare, dobbiamo evangelizzare il cuore, altrimenti sarà pieno di noi e vuoto di Dio

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Testimoni
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UNA VITA RELIGIOSA RINNOVATA
L'urgenza di amare
Ci può essere una vita comunitaria secondo le regole canoniche, ma senz’anima. La vita religiosa fallisce nella sua missione quando la comunità non è fraterna. Per cominciare ad amare, dobbiamo evangelizzare il cuore, altrimenti sarà pieno di noi e vuoto di Dio.
Voltaire, nel racconto filosofico L'uomo dalle quaranta corone, descrive questa terribile percezione della vita religiosa del suo tempo: «la vita monastica, qualunque cosa se ne dica, non è affatto da invidiare. È una massima ben nota che i monaci sono persone che stanno insieme senza conoscersi, vivono senza amarsi e muoiono senza rimpiangersi». I monaci non si conoscono, non si amano e non si rimpiangono l'un l'altro. Sono esseri senza legami affettivi, uomini senza amore. Ci può essere una vita comunitaria secondo le regole canoniche, ma senz’anima. La vita religiosa fallisce nella sua missione quando la comunità non è fraterna. La fraternità, infatti, è il volto amorevole della vita comunitaria. Possiamo tranquillamente avere una vita religiosa ordinata e che funziona, ma non avere la linfa dell'amore che scorre tra i suoi membri. Possiamo avere religiosi e religiose straordinari nelle loro qualità umane al di fuori della comunità, ma passivi o addirittura aggressivi all'interno. Il cammino di fraternità è un lavoro permanente nella vita religiosa, per tradurre la gioia del dono della vita in una testimonianza credibile e profetica. La visione di Voltaire è terrificante. Questa visione del passato potrebbe essere una sana provocazione per la nostra attuale vita religiosa. Senza fare letture anacronistiche o opportunistiche, è giusto tornare al cuore della vita religiosa. La nostra vocazione è l'amore. Non siamo fatti solo per sapere cose sull'amore o per predicare l'amore agli altri, ma per amare. La nostra vocazione religiosa non è quella di avere a che fare con le persone e le situazioni, ma di amare le persone. Durante la formazione iniziale e continua, abbiamo sentito parlare molto di «gestire» la vita affettiva con i suoi meandri, di prestare attenzione alle dipendenze e alle compensazioni affettive. Siamo stati educati ad accompagnare le pulsioni e a superare le tentazioni. Attraverso l'accompagnamento spirituale e psicologico siamo stati iniziati all’autocontrollo di noi stessi (cf. Galati 5,23). Queste dinamiche, che sono del tutto giuste, potrebbero condurci a una gestione tecnica e volontaristica della vita affettiva se dimentichiamo il senso e lo scopo della nostra vita. Lo scopo della nostra vita non è solo quello di gestire la vita affettiva, ma di amare. Gesù ci ha dato un insegnamento chiaro: amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta l'anima e con tutta la mente. Questo è il grande, il primo comandamento. E il secondo è simile al primo. Amerai il prossimo tuo come te stesso (cf. Matteo 22,37-39). Se la storia della vita religiosa, di ogni vita religiosa, non è una storia d’amore, rischiamo di perdere la nostra vocazione e di impoverire la vocazione degli altri. Se nei nostri contatti non amiamo le persone che il Signore ci mette davanti, rischiamo di perdere l'Amore, l'Amore vero e liberante, l'Amore che sopporta tutto, si fida di tutto, spera tutto, sopporta tutto (cf.1 Corinzi 13,7). Parlare d'amore oggi è complicato. Indicare l'amore come la via da seguire può sembrare astratto, concettuale o addirittura poetico. Il senso dell'amore deve seguire il movimento dell'incarnazione.
Parlando d'amore, si potrebbe scivolare, con una certa facilità, o nella dimensione leggera e sentimentale dell'amore, nello stile peace and love o, al contrario, nel volontarismo puro e duro dove si deve amare. In una società violenta come la nostra a causa delle ideologie, la visibilità dell’amore fraterno non può essere un'opzione facoltativa della vita religiosa. Gesù disse: Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri (Giovanni 13,35). Quindi amare è un'urgenza per la vita religiosa. Quando amiamo, diamo un senso alla nostra vita e a quella degli altri. Abbiamo amore l'uno per l'altro? Per alcuni sì, ma per tutti, forse no. Alla nostra società occidentale piacciono le etichette: un gruppo politico di destra o di sinistra; una religione tradizionale o moderna; una vita sociale progressista o reazionaria; vita affettiva eterosessuale o omosessuale ecc. Insomma, ognuno dice qualcosa di sé agli altri, ma in modo parziale. La vocazione religiosa dice al mondo la scelta dell'amore per Dio e per gli altri? La nostra vocazione all’amore deve andare oltre le prospettive binarie.
Evangelizzare la mentalità
Per amare, è fondamentale partire da dentro. Gesù dice che è dal di dentro, dal cuore dell'uomo, che escono i pensieri cattivi (Marco 7,21). Per cominciare ad amare, dobbiamo evangelizzare il cuore, altrimenti sarà pieno di noi e vuoto di Dio. Così San Paolo ci invita a uscire dalla mentalità del mondo: non prendete a modello il mondo attuale, ma trasformatevi rinnovando il vostro modo di pensare per discernere ciò che è la volontà di Dio, ciò che è buono, ciò che gli è gradito, ciò che è perfetto (Romani 12,2). Con queste poche parole, ci dà squisite indicazioni per l'evoluzione. Propone la trasformazione, il rinnovamento e il discernimento per fare la volontà di Dio. È un grande lavoro interiore e comunitario evolvere nella giusta direzione, quella della conversione. Ci spiega anche, con una semplicità disarmante, come incarnare questa volontà attraverso le seguenti azioni: realizzare ciò che è buono, ciò che è capace di piacergli, ciò che è perfetto. La Chiesa è cresciuta grazie a uomini e donne che hanno abbandonato la mentalità mondana per scegliere la volontà di Dio. Così san Francesco d'Assisi, santa Teresa d'Avila, sant'Ignazio di Loyola e tanti altri hanno rinunciato ai loro sogni di gloria umana, ai loro sogni cavallereschi, per cambiare vita e aderire al Signore. San Giovanni, nella sua prima Lettera, invita i cristiani a prendere le distanze dalla mentalità del «mondo»: non amate il mondo, né ciò che è nel mondo. Se uno ama il mondo, l'amore del Padre non è in lui. Tutto ciò che �� nel mondo – la concupiscenza della carne, la concupiscenza degli occhi, l'arroganza delle ricchezze – tutto questo non viene dal Padre, ma dal mondo. Ma il mondo passa e con esso la sua concupiscenza (1 Giovanni 2,15-17). Se ci allontaniamo dalla mentalità del mondo, è per far emergere la volontà di Dio in noi. Quindi, è importante diventare adulti: quando ero un bambino, parlavo come un bambino, pensavo come un bambino, ragionavo come un bambino. Ora che sono uomo, sono andato oltre ciò che era proprio di un bambino (1 Corinzi 13,11). A volte ci poniamo la domanda, nel corso della vita religiosa, se siamo rimasti bambini, immaturi, legati alle leggi delle emozioni, governati dagli umori e privi di solidità spirituale. San Paolo educa la comunità dei Corinzi con parole estremamente precise sull'«amore»: l'amore tutto sopporta, tutto confida, tutto spera, tutto sopporta (1 Corinzi 13,7). Conosciamo questo testo a memoria. Spesso scelto ai matrimoni, la bellezza del testo commuove l'assemblea. Queste parole sono potenti ed esigenti perché cambiano la nostra mentalità calcolatrice e opportunista. San Paolo sottolinea la totalità dell'amore. Dove si resiste fino a un certo punto, dove ci si fida ragionevolmente, dove si spera senza troppe illusioni, e infine, dove di fronte alle difficoltà non si può stare in una logica di sopportazione, dove si ama solo con le proprie forze, Paolo ci dice: amate con l’amore di Dio che è in voi. È l’amore-carità. Se amiamo con il nostro amore, poiché siamo limitati e il nostro amore a causa della nostra storia è, senza dubbio, ferito e fragile, non andremo molto lontano. Ed è proprio san Paolo che ci invita ad amare senza limiti. Spesso è lì che scopriamo di essere poveri e come bambini nel nostro modo di amare. È in questo ambito che viene messa alla prova la qualità della nostra fede. Sopportare tutto? Confidare? Sperare? Perseverare? Con i fratelli e le sorelle che ho accanto? Ascoltiamo queste riflessioni tante volte. Sì, la nostra mentalità diventa «divina» quando andiamo oltre i meandri sentimentali del nostro essere per lasciarci inondare dall'Amore di Dio. San Paolo dice che l'amore non passerà mai (1 Corinzi 13,8). San Paolo esorta i Corinzi a uscire dai confini naturali dell'amore. Tocca, con realismo, i limiti dell'amore umano perché non può sopportare tutto, perché non si fida di tutto, perché non spera tutto e perché non sopporta tutto. Infatti, il nostro amore è selettivo, ci proteggiamo da possibili nemici e ci attacchiamo a coloro che ci rassicurano e ci danno soddisfazione. Le nostre relazioni spesso seguono i criteri della soddisfazione o dell'insoddisfazione. La maturità della mentalità si esprime quando si passa dall'amore selettivo a quello oblativo. O, se volete, quando si attraversa la riva della philia e dell'eros amore per arrivare all'amore agape. Dobbiamo essere attaccati all’amore di Dio perché rimane, perché nutre, perché libera, perché rasserena, perché riempie.
Religiosi per amare
Gesù ci ha dato la sua Parola perché potessimo essere compiuti nell’amore. Queste parole trasmettono l'amore di Dio e non possono limitarsi a essere conosciute e predicate. Devono essere vissute. In coloro che osservano la Parola, l'amore di Dio raggiunge veramente la perfezione (1 Giovanni 2,5). Custodire la Parola affinché l'amore di Dio raggiunga la perfezione in noi è un legame meraviglioso. Come Maria, la Parola ricevuta in noi sarà feconda e daremo il Salvatore al mondo. La mentalità evangelizzata dall'Amore è luminosa: Chi ama il fratello rimane nella luce (1 Giovanni 2,10). Passiamo molto tempo durante i capitoli religiosi della famiglia, locali o generali, a chiederci se ci amiamo? Conosciamo casi dolorosi di persone che abbandonano una comunità e lasciano tutto per iniziare un'altra vita; persone che convivono con stanchezza e depressione; altri che vivono nell'individualismo e nell'aggressività. Queste persone infelici, senza dubbio un po’ perse, sono nelle nostre comunità. Spesso li gestiamo, li sosteniamo, ma li amiamo? È difficile amare persone che sono come ‘croci’ per noi, perché portano croci che noi non conosciamo. La nostra vocazione deve risplendere nelle tenebre con la forza del Risorto, ed è qui che comprendiamo le parole di Gesù: senza di me non potete far nulla (Giovanni 15,5).
Rispettare il fratello
È importante, nella vita relazionale, partire dal rispetto delle persone. Il rispetto non è l'apice della vita comunitaria, ma l'inizio. Il termine ‘rispetto’ si oppone alla violenza. Nella violenza, c'è sempre una forma di violazione dell'altro. Il rispetto permette una sana distanza per non vivere nella violenza. Il rispetto tiene conto dell'altra persona e di se stessi. A volte in una relazione, per motivi diversi, non si riesce ad amare attivamente l'altra persona in questo momento, ma riesco a rispettarla. Infatti, nell'amore c'è vicinanza, ma nel rispetto c'è distanza. Il rispetto include la distanza. La complessità della vita umana permette di amare senza rispetto e di rispettare senza amare. Come racconta il filosofo Éric Fiat, una madre possessiva ama suo figlio ma non rispetta la sua libertà. Allo stesso modo, un marito geloso ama sua moglie ma non rispetta la sua libertà.
Il rispetto per gli altri è uno dei principi fondamentali della vita sociale. Abbiamo una regola evangelica universale: tutto quello che volete che gli uomini facciano per voi, fate lo stesso per loro (Matteo 7,12). L'insegnamento di Matteo riguarda il fare, l'agire e il comportarsi. Distanza non significa indifferenza. I filosofi, e in particolare Kant, hanno insistito sulla legge universale del rispetto dell'altro. Questo rispetto per l'altro, e quindi per la sua alterità, richiede una rara quantità di lavoro nella vita sociale e religiosa. Questo lavoro è razionale, non emotivo. Si tratta di praticare il pensiero espanso. Ora, per Kant, ‘allargare il pensiero’ significa non ridurre l'altro al suo ‘qui e ora’. Una persona deve essere percepita al di là del suo presente. Ha un passato e un futuro. A volte vediamo strani comportamenti nella nostra vita religiosa e rimaniamo bloccati in un giudizio fisso. Il fratello o la sorella si riducono alla sua azione o omissione del momento. L'esercizio del pensiero ci permette di chiederci: conosco la vita di questo fratello o sorella insopportabile? Conosco la sua storia? Se il suo comportamento è aggressivo o passivo, è perché, senza dubbio, nel suo passato ci sono state delle ferite; oggi non conosco le sue sofferenze e le sue lotte. Come nel film Kirikou, il bambino chiede al saggio: ‘Perché la strega è malvagia?’ E il saggio risponde: ‘Perché sta soffrendo’. Per rispetto dell'altro, riconosco uno spazio che sfugge alla mia conoscenza. Se alcuni comportamenti sono duri e difficili, è perché, senza dubbio, c'è una sofferenza che è in via di guarigione. L'accettazione del mistero dell'altro non è sinonimo di passività, ma ci permette di guardare avanti nella speranza di un rapporto pacifico. Questa serena accettazione evita molta sofferenza relazionale.
Amare con misericordia
Gesù dice di essere misericordiosi come il Padre. Si tratta di amare come il Padre, con pazienza e compassione. Tanti testi della Bibbia ci parlano di misericordia e compassione. C’è un testo dell'Antico Testamento che mette in evidenza un modo concreto di essere misericordiosi. Questo è il ‘mantello di Noè’. «Cam, padre di Canaan, vide la nudità di suo padre e raccontò la cosa ai due fratelli che stavano fuori. Allora Sem e Iafet presero il mantello, se lo misero tutti e due sulle spalle e, camminando a ritroso, coprirono la nudità del loro padre; avendo tenuto la faccia rivolta indietro, non videro la nudità del loro padre» (Genesi 9, 22-23). In questo brano scopriamo un modo di essere misericordiosi e delicati nella vita relazionale. Copri ciò che produce vergogna e sviluppa la modestia. È un comportamento amorevole per coloro che si trovano in uno stato di fragilità e vulnerabilità. Si tratta di non umiliare il fratello che sta attraversando un momento difficile. Si tratta di tutelare la dignità del fratello. I due figli di Noè sono degni di lode per la loro squisita delicatezza con il padre ubriaco. L'altro fratello, invece di agire in fretta per evitare la vergogna, lo annuncerà agli altri. Racconta, comunica lo stato del padre, racconta una storia poco dignitosa. Ci sembra che la vita religiosa debba allargare il ‘mantello di Noè’ nella vita relazionale e sociale. Questo atteggiamento, ancora una volta, è profetico, va controcorrente. Oggi, i difetti e i comportamenti maldestri vengono detti, mostrati e celebrati dai media per umiliare le persone. Alcuni momenti imbarazzanti e umilianti diventano virali sui social media. Un atto, una caduta, una parola o un comportamento che potrebbe far vergognare la persona, viene trasmesso in ciclo continuo. La comunicazione non pensa mai al danno arrecato all'autore dell'errore. Il sentimento di vergogna, la cura della dignità delle persone, il non voler ferire l'altra persona non contano. Il male fatto da qualcuno viene raccontato e pubblicato. Schiacciamo, umiliamo, sminuiamo, feriamo le persone. Ci limitiamo al ‘fatto’ e dimentichiamo che dietro il fatto o il gesto c'è una persona, e probabilmente una persona che soffre. Quante persone sui social media pensano a ciò che la persona sta passando? Quante persone pensano alle conseguenze di un linciaggio mediatico? In questo mondo spietato, passiamo all'altra sponda, quella della misericordia e della compassione: quelli che sperano nel Signore acquistano nuove forze, si alzano a volo come aquile, corrono e non si stancano, camminano e non si affaticano (Isaia 40,31). Il ‘manto di Noè’ ci aiuta a sviluppare i gesti e le parole di misericordia. I religiosi devono essere maestri di delicatezza fraterna. Nella vita relazionale, oggi coprire ciò che fa vergognare l'altro è un modo per non profanare la vita religiosa attraverso comportamenti esteriori. Il ‘mantello di Noè’ evita il pettegolezzo, la derisione e il comportamento immaturo e superficiale. Il ‘mantello di Noè’ protegge i più vulnerabili nelle comunità dalla paura di essere guardati dall'alto in basso. Il ‘mantello di Noè’ crea una nuova mentalità che vieta l'umiliazione del fratello. Il ‘mantello di Noè’, come gesto di modestia e rispetto, incarna la misericordia. La sfida della vita religiosa è il passaggio dalla conoscenza dell'amore all'atto di amare. Il mondo attende esseri gentili e amorevoli: essi sapranno che siete miei discepoli dall'amore che avete gli uni per gli altri (Giovanni 13,35). Il religioso è sulla via della maturità se questo amore è predicato con la sua vita.
FR. FRANÇOIS BUSTILLO OFM CONV.
Vescovo di Ajaccio