Chiaro Mario
Grandezza e miseria dell’umano
2023/10, p. 33
La sfida per l’immaginazione cattolica del nostro tempo non è spiegare il mistero di Cristo, ma farcelo toccare consegnandolo come realtà viva per aiutarci a cogliere la bellezza della sua promessa. Su questo punto, il filosofo Pascal è ancora un modello di riferimento per affrontare le complessità dell’uomo moderno, che deve sempre fare i conti con la miseria e la grandezza dell’umano.

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IV CENTENARIO DI BLAISE PASCAL
Grandezza e miseria dell’umano
La sfida per l’immaginazione cattolica del nostro tempo non è spiegare il mistero di Cristo, ma farcelo toccare consegnandolo come realtà viva per aiutarci a cogliere la bellezza della sua promessa. Su questo punto, il filosofo Pascal è ancora un modello di riferimento per affrontare le complessità dell’uomo moderno, che deve sempre fare i conti con la miseria e la grandezza dell’umano.
Nell’arco di due mesi papa Francesco ci ha stupito ancora offrendo tre discorsi di grande originalità: il primo in concomitanza con un convegno tenutosi presso «La Civiltà Cattolica” che ha riunito poeti, scrittori, sceneggiatori e registi di varie parti del mondo attorno al tema dell’immaginazione poetica e dell’ispirazione cattolica [27 maggio 2023]; il secondo intervento, sotto forma di Lettera apostolica [19 giugno 2023], si intitola «Sublimitas et miseria hominis» per ricordare il IV centenario della nascita di Blaise Pascal [19 giugno del 1633]; con il terzo messaggio il pontefice si è rivolto agli artisti partecipanti all’incontro promosso in occasione del 50° anniversario della inaugurazione della collezione d’arte moderna dei Musei Vaticani [23 giugno 2023)]. Se dovessimo trovare un filo rosso che unisce i tre interventi, si possono indicare alcune significative espressioni valide per artisti e intellettuali: essi sono «la voce delle inquietudini umane», pieni di «una stupita apertura alla realtà», «sentinelle che stringono gli occhi per scrutare l’orizzonte e scandagliare la realtà al di là delle apparenze». La riflessione del papa riguarda i modi attraverso i quali la fede interroga la vita contemporanea, cercando così di rispondere alla fame di significato. Un significato totale che ingloba simboli, sentimenti, pensiero razionale, ricerca del bello e del vero. Sotto questa luce, la sfida per l’immaginazione cattolica del nostro tempo non è ‘spiegare’ il mistero di Cristo, ma ‘farcelo toccare’ consegnandolo come realtà viva per aiutarci a cogliere «la bellezza della sua promessa».
Non conosciamo noi stessi se non tramite Gesù Cristo
Su questo fronte papa Francesco dedica una particolare e coraggiosa riabilitazione teologica della figura controversa di Blaise Pascal. In questione ancor oggi sono i suoi rapporti con il Giansenismo. Ricordiamo che sua sorella Jacqueline era entrata nella vita religiosa nell’abbazia di Port-Royal, in una congregazione la cui teologia era molto influenzata da Cornelius Giansenio (Jansen). Pascal fece un ritiro nell’abbazia, nel gennaio 1655: e nei mesi seguenti, una antica e importante controversia, che opponeva i Gesuiti ai «Giansenisti», si risvegliò all’università di Parigi. La disputa verteva sulla questione della grazia di Dio e sui rapporti tra la grazia e la natura umana, in particolare sul libero arbitrio. Pascal fu incaricato dai Giansenisti di difenderli: egli credeva sinceramente di opporsi al pelagianesimo o al semi-pelagianesimo che riteneva di identificare nelle dottrine seguite dai Gesuiti seguaci del teologo Luis de Molina. «Facciamogli credito – dice il pontefice nella sua Lettera apostolica – sulla franchezza e la sincerità delle sue intenzioni». Possiamo riconoscere infatti che la messa in guardia di Pascal ha ancora una sua validità: «il “neo-pelagianesimo” fa dipendere tutto dallo sforzo umano incanalato attraverso norme e strutture ecclesiali, si riconosce dal fatto che ci intossica con la presunzione di una salvezza guadagnata con le nostre forze». Oggi possiamo affermare che «l’ultima posizione di Pascal quanto alla grazia, e in particolare al fatto che Dio “vuole che tutti gli uomini siano salvati e giungano alla conoscenza della verità” [cf. 1Timoteo 2,4], si enunciava in termini perfettamente cattolici alla fine della sua vita». Questa mente speciale infatti arriva alla certezza che «non solo non conosciamo Dio se non tramite Gesù Cristo, ma non conosciamo noi stessi se non tramite Gesù Cristo. Non conosciamo la vita, la morte, se non tramite Gesù Cristo. Fuori di Gesù Cristo non sappiamo cos’è né la nostra vita, né la nostra morte, né Dio né noi stessi. Così senza la Scrittura, che ha per unico oggetto Gesù Cristo, non conosciamo nulla e vediamo solo oscurità». [Pensieri n. 36].
Nessuna lacrima per il Dio dei filosofi
Da quanto si è appena detto, si comprende che leggere l’opera pascaliana aiuta a «mettersi alla scuola di un cristiano di razionalità eccezionale, che ha saputo rendere conto di un ordine stabilito da Dio al di sopra della ragione». Pascal è dunque ancora un modello di riferimento per affrontare la complessità dell’uomo moderno, che deve sempre fare i conti con la miseria e la grandezza dell’umano. La sua intelligenza inquieta fu segnata, nella notte del 23 novembre 1654, da un evento interiore che lo segnò per il resto della vita. Dopo la morte a 39 anni fu ritrovato, nel risvolto della sua giacca, un breve Memoriale che riporta la notizia di quella esperienza immediata di Dio: «Fuoco. Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe. Non dei filosofi e dei dotti. Certezza. Certezza. Sentimento. Gioia. Pace… Gioia, gioia, gioia, lacrime di gioia». Pascal nella sua «Notte di fuoco» riflette sul contenuto dell’evento: al Dio cristiano dell’Antico e del Nuovo Testamento, contrappone il Dio di una religiosità filosofica. Nessuno versa lacrime di gioia per il Dio dei filosofi! Con questa nuova consapevolezza Pascal ha sottolineato i punti di forza e di debolezza dell’esistenza. Era uno scienziato di successo, ma ha avuto una salute precaria per tutta la vita, soffrendo anche di una crisi depressiva prima della sua conversione. Nella sua opera più conosciuta, Pensieri, descrive la vita dell’umanità come ricerca, spesso inutile, della verità e della felicità. «Non occorre un’anima molto elevata per capire che in questo mondo non esistono soddisfazioni autentiche e stabili, che tutti i nostri piaceri non sono altro che vanità e i nostri mali sono infiniti, e che infine la morte, che ci minaccia a ogni istante, deve immancabilmente metterci entro pochi anni nell’orribile necessità di essere eternamente o annientati o infelici» [Pensieri n. 682].
L’uomo è come «un re spodestato»
Qui va sottolineata la grande ipotesi del filosofo: «Cosa dunque ci gridano quest’avidità e quest’impotenza, se non che un tempo ci fu nell’uomo un’autentica felicità di cui ora gli restano soltanto il segno e l’orma del tutto vuota, che egli tenta invano di riempire con tutto ciò che lo circonda, chiedendo alle cose assenti l’aiuto che non ottiene dalle presenti? Ma invano, perché quest’abisso infinito non può essere colmato se non da un oggetto infinito e immutabile, ossia da Dio stesso». Se l’uomo è come «un re spodestato», che tende a ritrovare la grandezza perduta e che tuttavia si ritrova incapace, chi è dunque? Avendo studiato le grandi religioni, Pascal conclude che «nessun pensare e nessun fare ascetico-mistico può offrire una via di salvezza», se non a partire dal «superiore criterio di verità della irradiazione della grazia nell’anima». «Invano, o uomini – scrive Pascal immaginando ciò che il vero Dio potrebbe dirci – cercate in voi stessi il rimedio alle vostre miserie. Tutti i vostri lumi possono giungere al massimo a capire che non troverete in voi né la verità né il bene. I filosofi ve l’hanno promesso e non vi sono riusciti. Essi non sanno né quale sia il vostro vero bene, né quale sia la vostra vera condizione» [Pensieri n. 182].
L’ordine del cuore e le sue ragioni di credere
In ogni modo Pascal resta sempre attaccato alla ragionevolezza della fede in Dio. Se la fede è ragionevole, è anche un dono di Dio e non potrebbe imporsi: «Non si dimostra che si deve essere amati esponendo con ordine le cause dell’amore. Sarebbe ridicolo» [Pensieri n. 329]. L’amore si propone ma non s’impone. Perciò, è impossibile credere «se Dio non inclina il cuore». Conosciamo insomma la realtà non solo con la ragione, ma anche con il cuore. Perciò Pascal attira l’attenzione sul fatto che è irragionevole non prestare attenzione alla possibilità di dare un senso alla vita attraverso la religione. Su questo sfondo va inteso il suo detto, continuamente citato, secondo il quale «il cuore ha delle ragioni che la ragione non conosce» [Pensieri n. 2639]. Le ragioni del cuore non sono affatto contrarie alla ragione, ma sono riflessioni che riguardano le singole persone nel corso della propria esistenza. Con questa prospettiva si intendono ancor meglio le commoventi affermazioni nell’ultimo periodo della sua vita: «Se i medici dicono il vero, e Dio permette che mi rialzi da questa malattia, sono deciso a non avere alcun altro impiego né altra occupazione per tutto il resto della mia vita che il servizio ai poveri». Un pensatore geniale, alla fine, non vede altra urgenza al di sopra di quella di mettere le sue energie nelle opere di misericordia: l’unico oggetto della Scrittura è l’amore. Pascal si preoccuperà di far conoscere a tutti che Dio e il vero sono inseparabili, ma anche che al di fuori della prospettiva dell’amore non c’è verità che valga. Si legge ancora nei Pensieri; «Ci si fa un idolo persino della verità stessa, perché la verità fuori della carità non è Dio, ma è la sua immagine e un idolo che non bisogna amare, né adorare». Quando compone la sua Preghiera per domandare a Dio il buon uso delle malattie, Pascal è un uomo pacificato, che non si pone più nella controversia o nell’apologetica. Sul punto di morte, scrive un suo biografo, «aveva un gran desiderio di morire in compagnia dei poveri». Di fronte a questo «fine vita» Benedetto XVI affermerà: «Come giustamente scrive Pascal, “Gesù sarà in agonia fino alla fine del mondo; non bisogna dormire durante questo tempo”».
MARIO CHIARO