Bernhard Eckerstorfer
Il lavoro sta minando la vita religiosa?
2023/1, p. 3
È una domanda che dobbiamo avere il coraggio di farci. Vale per la vita monastica e vale per la vita religiosa.

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Il lavoro sta minando la vita religiosa?
È una domanda che dobbiamo avere il coraggio di farci. Vale per la vita monastica e vale per la vita religiosa.
La famosa abbazia di Melk, vicino a Vienna, ha più parrocchie che monaci e una scuola con quasi 1.000 alunni, senza contare i numerosi turisti che la visitano. Il sovraccarico di lavoro per i monaci è alle porte, non solo in Austria. Nel monachesimo occidentale è fin troppo facile che un monaco perda i ritmi sani della sua vocazione a causa del troppo lavoro. Il singolo o addirittura intere comunità corrono il pericolo di bruciarsi. Il noto studioso benedettino Terrence Kardong, ad esempio, sostiene nel suo articolo “Work is prayer: Not!” (Lavoro è preghiera – No!) che il superlavoro è uno dei problemi più urgenti della vita monastica nel mondo occidentale.
«Cosa fai nel tuo monastero?». Questa domanda in un contesto quotidiano è molto eloquente: si tratta di lavoro. O almeno molti pensano che sia così. In tedesco il punto può essere chiarito meglio. La domanda può anche essere formulata in questo modo: «Was sind sie in Kremsmünster», tradotto letteralmente: «Cosa/chi siete a Kremsmünster?», cioè: «Qual è il vostro lavoro lì?». È un’allusione al fatto che il nostro essere è stato assorbito dal nostro lavoro. Sia a livello individuale che comunitario, ci identifichiamo principalmente con ciò che facciamo piuttosto che con come siamo. Anche come monaci.
Tuttavia, la domanda che ci si pone è se sia davvero il lavoro in sé a minare la vita monastica. Non è soprattutto una questione spirituale? Dobbiamo quindi chiederci: i monaci non usano forse le richieste e le pressioni del loro lavoro per giustificare una mancanza di impegno e di spiritualità? O, per dirla diversamente: il lavoro non giustifica forse tutto e diventa così un modo facile per sfuggire alla domanda impegnativa di come vivere una vita spirituale decente?
Ora est labora? Labora est ora? L’unità di questo è facilmente deducibile: Labora include l’ora. È importante notare che la famosa formula “ora et labora” non si trova nella Regola di san Benedetto. Infatti, essa è una creazione del IX secolo.
La riscoperta della lectio divina negli ultimi decenni può essere contemplata nel contesto del lavoro e della sua schiacciante priorità che non si ferma davanti alle porte del monastero. Il grido di lege in mezzo a ora et labora potrebbe essere un segno che il lavoro è diventato troppo importante nel programma monastico della vita quotidiana. E il lege può essere una chiave per vedere che il rimedio non è semplicemente un aumento della preghiera e una riduzione del lavoro, ma la creazione di uno stile di vita fedele al monachesimo o fedele alla vita consacrata.
La parola “tempo libero” (freizeit leisure) e ciò che è generalmente associato a questo termine potrebbe servire come concetto per porre la lectio divina come uno dei nuclei della vita monastica e – di nuovo oso dire – della vita consacrata. Secondo il filosofo cattolico tedesco Josef Pieper (1904-1997) il tempo libero è un mezzo per affermare chiaramente che il lavoro non è tutto, è «nicht-aktivität», non attività. «È una forma di silenzio. Il tempo libero è proprio il tipo di silenzio che è il presupposto per l’ascolto». Pieper parla poi della «geöffnetsein der seele», l’apertura dell’anima che non si ottiene mai con un lavoro spirituale («geistliche arbeit»).
Il tempo libero non è solo una pausa, un intervallo. Fare una pausa significa staccarsi dal lavoro per riprenderlo in seguito. Il tempo libero, invece, è qualcosa di molto significativo per se stesso («etwas in sich selbst Sinnvolles»). Pieper conclude che da questa comprensione del tempo libero emergono il culto e la liturgia.
A questo punto, possiamo rivolgerci a un altro grande pensatore tedesco di origini italiane: Romano Guardini, che ha fatto una distinzione importante nella sua opera fondamentale Vom Geist der Liturgie (tradotto erroneamente come Lo spirito della Liturgia, mentre il titolo originale suggerisce: “Dello Spirito della Liturgia”). Comunque, Guardini distingue tra “zweck” e “sinn”, scopo e senso/significato. Le cose (dinge) hanno il loro significato in ciò che sono («das zu sein, was sie sind»). Sono prive di scopo, ma significative («zwecklos, aber doch sinnvoll»), «un riflesso del Dio eterno».
Su questo punto potrebbe essere illuminante rivolgersi ancora una volta a Terrence Kardong. Il suo rimedio sembra essere principalmente quello di lavorare meno. Tuttavia, la riduzione del tempo dedicato al lavoro potrebbe risultare un mero cambiamento esteriore che non influisce necessariamente sulla vita interiore. Forse non è tanto la quantità di lavoro, quanto piuttosto il giusto atteggiamento. È quello che suggerisce la Regola, al capitolo 57, dove san Benedetto scrive: «1. Se in monastero ci sono dei fratelli esperti in un’arte o in un mestiere, li esercitino con la massima umiltà, purché l’abate lo permetta. 2. Ma se qualcuno di loro monta in superbia, perché gli sembra di portare qualche utile al monastero, 3. sia tolto dal suo lavoro e non gli sia più concesso di occuparsene, a meno che rientri in se stesso, umiliandosi, e l’abate non glielo permetta di nuovo».
Una concezione troppo individualistica del lavoro considera i compiti svolti per il monastero come il proprio piccolo regno in cui nessuno deve interferire, nemmeno sapere cosa sto facendo esattamente, lasciandosi andare a suggerire ciò che sarebbe più adatto allo scopo del bene comune. Qui entra in gioco l’umiltà e la povertà come invito a non contare solo su se stessi, ma a vedere tutto come un dono. Il monaco dovrebbe essere responsabile in ultima istanza nei confronti di Dio. Come si può raggiungere questo obiettivo?
Innanzitutto, il lavoro deve recuperare nella vita monastica il suo valore comunitario, senza cadere nell’altro abisso, cioè di sottovalutare l’individuo e proporre un “comunitarismo”. Lungi dal costruire e mantenere gelosamente il proprio regno, è un progetto “nostro”, non “mio”. In secondo luogo, il riconoscimento non dovrebbe essere concesso solo - o addirittura non principalmente - dal proprio lavoro; in occasione di un onomastico o di un giubileo dei voti, ciò che sembra essere al centro dei discorsi dei superiori sono le conquiste (esterne) ottenute nel corso degli anni. Di conseguenza, un monaco può giustificare quasi tutto con il lavoro, anche la frequente assenza alla preghiera comunitaria. In terzo luogo, il carico di lavoro spesso non sembra essere distribuito in modo equo.
L’obiettivo non è necessariamente la riduzione del tempo dedicato al lavoro. Dubito che i monaci della nostra epoca e del nostro emisfero lavorino davvero più degli uomini e delle donne di oggi. La soluzione al giusto equilibrio è, piuttosto, una nuova cultura religiosa con il suo stile tipico. Naturalmente ci si deve chiedere come gestire la tecnologia, soprattutto nelle celle dei monaci, o se sia sopportabile indossare molti cappelli e mettere sempre più lavoro su meno spalle. Tuttavia, la questione del sovraccarico di lavoro, che sembra comportare che i monaci stiano svegli fino a tarda notte, ecc. deve essere trattata principalmente come un problema spirituale: se non c’è una visione, allora l’attivismo è un modo facile e rispettato per evitare le questioni più profonde, anzi per sopprimere il bisogno di conversione. Il lavoro è certamente una questione centrale per il futuro del monachesimo occidentale come per la vita religiosa, ma deve essere visto come una parte della vita consacrata che ha bisogno di una base per i tempi e le sfide a venire.
BERNHARD ECKERSTORFER OSB