Bernhard Eckerstorfer
Non è il lavoro che definisce il religioso
2023/1, p. 1
Nel corso della 62a Assemblea nazionale della CISM, tenutasi a Valdragone, nella Repubblica di San Marino, dal 7 all’11 novembre, il monaco benedettino austriaco Bernhard Eckerstorfer, dal 16 dicembre 2019 rettore del Pontificio Ateneo Sant’Anselmo, ha affrontato il tema del lavoro nella vita dei monaci ed estensivamente nella vita consacrata, mettendo in discussione lo slogan classico ora et labora.

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Non è il lavoro che definisce il religioso
Nel corso della 62a Assemblea nazionale della CISM, tenutasi a Valdragone, nella Repubblica di San Marino, dal 7 all’11 novembre, il monaco benedettino austriaco Bernhard Eckerstorfer, dal 16 dicembre 2019 rettore del Pontificio Ateneo Sant’Anselmo, ha affrontato il tema del lavoro nella vita dei monaci ed estensivamente nella vita consacrata, mettendo in discussione lo slogan classico ora et labora. Il tema è stato, infatti, declinato in forma interrogativa: Lavoro e/o Preghiera? Riflessioni per il rinnovamento della vita consacrata. Il rettore dell’Ateneo pontificio ha aperto la sua esposizione – in queste pagine una nostra riduzione della bella e profonda relazione – con una citazione della Regola di san Benedetto (48,8): «I monaci sono veramente tali, quando vivono del lavoro delle proprie mani come i nostri padri e gli Apostoli» per affermare l’importanza del lavoro nella vita dei monaci ed estensivamente nella vita religiosa, individuando altresì i grandi cambiamenti che all’interno dei monasteri e delle stesse comunità religiose è avvenuto e sta avvenendo.
C’è nel mondo tedesco una nuova consapevolezza del monastero come “luogo di significato pastorale” in senso proprio. In passato, i monaci benedettini in Austria definivano la loro esistenza, sulla scia dell’Illuminismo, in misura molto elevata e a volte squilibrata, attraverso il lavoro, fino a cessare la preghiera comunitaria...
Timothy Radcliffe, quando era superiore generale dell’Ordine domenicano, nel suo discorso agli abati benedettini di tutto il mondo nel loro Congresso giubilare del 2000 a Roma ha detto: «Il fatto più evidente dei monaci è che non fate nulla di particolare. Coltivate, ma non siete agricoltori. Insegnate, ma non siete insegnanti di scuola. Potete anche gestire ospedali o stazioni missionarie, ma non siete principalmente medici o missionari. Siete monaci, che seguono la regola di Benedetto. Non fate nulla di particolare».
Naturalmente, cito queste frasi perché ritengo che ciò che dice un superiore dei domenicani ai superiori benedettini sia istruttivo anche per i superiori di diversi ordini. E così, forse, troverete anche queste altre osservazioni di Timothy Radcliffe istruttive per voi e per le vostre comunità – di fronte al cambiamento e alle sfide del nostro tempo che richiede un riordinamento in diverse direzioni: «I monaci sono di solito persone molto impegnate, ma gli affari non sono il punto e lo scopo della vostra vita. Il cardinale Hume scrisse una volta che “non ci consideriamo come aventi una particolare missione o funzione nella Chiesa. Non ci proponiamo di cambiare il corso della storia. Siamo lì quasi per caso dal punto di vista umano. E, fortunatamente, continuiamo a esserci”. È questa assenza di scopo esplicito che rivela Dio come scopo segreto e nascosto della vostra vita. Dio si rivela come il centro invisibile della nostra vita quando non cerchiamo di dare un’altra giustificazione a ciò che siamo. Lo scopo della vita cristiana è solo quello di stare con Dio».
Questa nuova consapevolezza dentro la vita monastica (e forse in generale dentro la vita religiosa), coincide con le sensibilità di oggi. Per chiarezza, potrebbe essere utile parlare di “un’enfasi postmoderna” che percepisce il monachesimo in modo diverso: per gli uomini e le donne di oggi la vita religiosa non deve giustificarsi principalmente attraverso l’indicazione della sua utilità. Significa, quindi, che non ha più senso di parlare del lavoro? No! Ma possiamo e dobbiamo, secondo me, ricostruire le nostre vocazioni verso una comprensione della vita religiosa olistica e sinodale. Cerco di dirlo meglio da una prospettiva monastica dell’Austria:
Se si considera lo sfondo di decenni, persino secoli di intenso lavoro nelle parrocchie e nelle scuole, si nota un notevole cambiamento nelle Costituzioni della Congregazione Benedettina in Austria in soli 20 anni. Entrambe le Costituzioni del 1986 e del 2006 hanno un capitolo intitolato “Die aufgaben des klosters”, una sezione che tratta specificamente dell’occupazione principale di un monastero benedettino in Austria. Nella Costituzione del 1986, n. 227 dice che la nostra vocazione ha al centro un carattere apostolico. Il principale servizio al mondo è il lavoro pastorale (n. 228), e il suggerimento di fondo è che ciò significa che i monaci svolgono compiti pastorali al di fuori delle mura del monastero. Secondo questa visione piuttosto funzionale, la vita comunitaria serve come fonte di forza per il successo del lavoro del monaco nella parrocchia, nella scuola o nella ricerca. Il n. 229 afferma senza mezzi termini che la vita comunitaria può essere un aiuto per il singolo monaco affinché si ritempri per il suo lavoro, cioè per i suoi sforzi individuali al di fuori della clausura.
Le Costituzioni emanate 20 anni dopo hanno una definizione molto diversa sotto lo stesso titolo. Qui leggiamo che i monaci benedettini vedono il loro monastero come un centro spirituale (n. 239). Il n. 240 esorta ogni monastero della Congregazione austriaca a valutare i compiti vecchi e nuovi per adattarli alle esigenze della Chiesa nel nostro tempo. Anche il successivo n. 241 è di nuova stesura per quanto suggerisce le priorità in base alle quali organizzare la forza lavoro del monastero: l’attenzione principale deve essere rivolta al monastero come centro spirituale.
Pertanto, il primo e principale compito di una comunità benedettina è quello di offrire un luogo vivace e vivibile per il singolo monaco. La sua vocazione dovrebbe fiorire nella sua comunità in un certo ambiente. In secondo luogo, i monaci devono essere presenti per le persone che visitano il loro monastero (liturgia, consulenza pastorale, ritiri). In terzo luogo, ai dipendenti devono essere «offerte le stesse fonti che sono vitali per i monaci stessi» – una espressione meravigliosa che dice che le persone che lavorano nel monastero dovrebbero bere dallo stesso pozzo come i monaci. Solo come ultimo punto, le Costituzioni più recenti del 2006 menzionano anche i compiti al di fuori del monastero, come il lavoro in una parrocchia, nella misura in cui questi lavori possono essere svolti senza compromettere lo scopo primario del monastero.
Citando queste fonti, non voglio suggerire che le vostre comunità dovrebbero diventare come monasteri benedettini. Ma mi sembra istruttivo per tutti gli Ordini e gli Istituti religiosi. In questo caso significa che il monastero è visto come un centro pastorale in cui la vita religiosa stessa è il compito principale – il lavoro più importante! – dei monaci. Una piccola rivoluzione in un piccolo angolo della vita religiosa, alcune centinaia di chilometri a nord di qui.
La nuova enfasi sul monastero, anzi, sulla vita individuale e comunitaria dei monaci come luogo pastorale può essere letta in realtà come un ritorno alle fonti. Uno dei pionieri del movimento liturgico, il gesuita austriaco Joseph Andreas Jungmann, ha espresso questo punto di vista in una dichiarazione programmatica che può essere ben applicata al monachesimo – e oso dire addirittura alla vita religiosa in generale: «La vivace celebrazione della liturgia è stata per secoli la forma più importante di ministero pastorale». Liturgia, preghiera, lavoro diventano così non realtà diverse, ma intrinsecamente connesse.
«Ut in omnibus glorificetur Deus»: dove si trova questa espressione nella Regola di san Benedetto? Nei capitoli sulla liturgia? O nelle esortazioni su chi debba essere l’abate? No, essa si trova nel contesto del lavoro e della economia: le parole «affinché in ogni cosa sia glorificato Dio», appaiono quando Benedetto raccomanda che il monastero non deve cadere nella trappola del profitto. Il lavoro non può essere staccato dalla vita, ma piuttosto integrato in uno stile particolare di vita. Vedete che non ho usato il famoso motto “ora et labora” per evitare un corto circuito. Tornerò su questo punto più tardi. Adesso mi sembra utile di lanciare uno sguardo sui giovani nei nostri ordini e istituti.
Intanto dobbiamo subito rilevare la nuova situazione: una grande parte di coloro che vengono nelle nostre case, hanno già avuto una esperienza lavorativa. Il 91% delle giovani vocazioni religiose femminili desidera lavorare con le altre nella comunità. L’importanza del lavoro comune si manifesta anche nei nuovi appartenenti agli ordini maschili: ben il 77% lo ritiene importante, contro il 52% dei loro confratelli più anziani.
Il primato dell’essere sul fare non rappresenta una svalutazione dell’apostolato caratteristico di una comunità, bensì un invito a non porre troppo al centro gli impegni lavorativi, che ottengono una forza irradiante soltanto se sono presenti all’interno di una forma di vita ben radicata, che possibilmente molti nella comunità hanno fatto propria in modo convincente.
Una ricerca sulla nuova identità religiosa/cattolica, condotta negli Stati Uniti, alla domanda su cosa attirasse maggiormente le giovani donne e gli uomini nel loro (futuro) Ordine, il 91% ha risposto «la spiritualità dell’Ordine» e il 90% «la comunità dell’Ordine». Dice un giovane consacrato: «È lo stile di vita che mi chiama e mi mantiene nell’Ordine, non tanto un ministero particolare». Un altro afferma: «Non è il lavoro la mia vocazione».
Il fatto che un giovane frate si esprima in questo modo dovrebbe sollevare un quesito: non diamo troppa importanza al nostro lavoro? Non ci definiamo troppo in base alle nostre attività? Non è forse tutto giustificato nei nostri conventi, nelle nostre comunità, quando si tratta di lavoro (dalle assenze frivole, all’emigrazione interiore dal convento)? Dice un rappresentante dei giovani: «Nei nostri tempi, così spesso squilibrati, il più grande contributo della vita religiosa potrebbe essere quello di vivere in modo olistico e sano insieme per Dio». Il nuovo imperativo dello svolgimento della preghiera comune è rappresentato dai processi del lavoro della comunità.
BERNHARD ECKERSTORFER OSB