Maffeis Angelo
La vita consacrata nel suo insegnamento
2023/1, p. 40
Ripercorrere i documenti pubblicati da Paolo VI è la via più semplice, ma anche la via più scontata. È una via che bisogna senz’altro percorrere perché mette a contatto con tesori inaspettati e spesso nascosti, che raccolgono i frutti di una riflessione lunga e approfondita sul tema.

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PAPA MONTINI – PAOLO VI
La vita consacrata
nel suo insegnamento
Ripercorrere i documenti pubblicati da Paolo VI è la via più semplice, ma anche la via più scontata. È una via che bisogna senz’altro percorrere perché mette a contatto con tesori inaspettati e spesso nascosti, che raccolgono i frutti di una riflessione lunga e approfondita sul tema.
Rileggere discorsi pronunciati da Paolo VI durante il suo pontificato rappresenta la via più semplice per illustrare la visione della vita consacrata da lui proposta. Ma la via dell’analisi dei testi ufficiali privilegia inevitabilmente la visione teorica della vita religiosa e tende a dimenticare che questa è maturata nel corso di una vita. Giovanni Battista Montini è venuto a contatto in numerose occasioni con persone consacrate e proprio in questo contesto concreto ha maturato alcune delle linee fondamentali della visione che proporrà nel suo magistero. È dunque interessante la teoria che Giovanni Battista Montini – Paolo VI ha elaborato, ma è altrettanto interessante comprendere quali esperienze personali e quali vicende storiche ed ecclesiali hanno contribuito a dare forma e a far maturare questa riflessione.
Questo criterio interpretativo, che si interroga sul rilievo che la vicenda personale, familiare ed ecclesiale, a partire dagli anni della sua formazione bresciana fino all’episcopato milanese, assume per il pontificato di Paolo VI, dà risultati interessanti su molti temi dell’insegnamento e dell’azione pastorale di papa Montini. Si pensi alla sensibilità per la preghiera liturgica maturata attraverso la frequentazione giovanile degli ambienti monastici o alla sensibilità per il problema educativo assimilata in famiglia, o ancora alla testimonianza di impegno civile e politico ricevuta dal padre Giorgio: sono tutti temi che segnano in qualche misura il suo magistero di Papa e che non possono essere compresi pienamente se non alla luce della vicenda biografica attraverso cui Montini è giunto al pontificato.
Paolo VI e il rinnovamento postconciliare
Il pontificato di Paolo VI nei primi anni è occupato in parte preponderante dall’impegno di portare a termine il Concilio Vaticano II e dopo il 1965 dallo sforzo di attuare le riforme da esso indicate e di promuovere la sua recezione nel corpo della Chiesa. Anche l’insegnamento sulla vita consacrata e le riforme introdotte si collocano in questo quadro e mostrano un costante riferimento all’insegnamento del Vaticano II. Il capitolo VI della Costituzione Lumen gentium e il decreto Perfectae caritatis sono in particolare i testi che indicano i fondamenti della vita consacrata e, insieme, le esigenze che essa si rinnovi in fedeltà al suo carisma proprio e con attenzione alle esigenze della chiesa e del mondo di oggi.
Su questa base negli anni successivi al Vaticano II si è intrapreso un ampio sforzo da parte delle diverse comunità religiose per rivedere le forme della vita comunitaria e riscrivere testi normativi che la governano, alla luce dei principi proposti autorevolmente dal Concilio. Di questo sforzo Paolo VI traccia un primo bilancio nel 1971 nell’esortazione apostolica Evangelica testificatio che, insieme all’apprezzamento per il positivo lavoro compiuto, segnala anche i pericoli di un cambiamento arbitrario delle forme della vita religiosa che, per renderla adatta alle esigenze del mondo contemporaneo, finisce per recidere il legame con una tradizione secolare e ancora vitale e benefica. La via del discernimento è perciò indicata da Paolo VI come strada maestra che conduce a realizzare le riforme necessarie, senza cedere alla tentazione di conformarsi alla mentalità del mondo e alle mode che passano.
«L’audacia di certe arbitrarie trasformazioni, – scrive Paolo VI – un’esagerata diffidenza verso il passato, anche quando esso attesta la sapienza ed il vigore delle tradizioni ecclesiali, una mentalità troppo preoccupata di conformarsi affrettatamente alle profonde trasformazioni che scuotono il nostro tempo, hanno potuto indurre alcuni a considerare caduche le forme specifiche della vita religiosa. Non si è arrivati addirittura a far appello, abusivamente, al concilio per rimetterla in discussione fin nel suo principio?».
Fin dall’inizio del suo pontificato Paolo VI aveva sottolineato la necessità che tutti i religiosi si sentissero pienamente parte della chiesa, in profonda sintonia con l’insegnamento del Vaticano II, che ha intenzionalmente inserito la considerazione della vita religiosa nel mistero della chiesa. Celebrando la Messa per una rappresentanza di religiose a Castel Gandolfo, l’8 settembre 1964, mette in risalto questa esigenza, che deve valere per tutte le forme di vita religiosa, anche quelle che conducono la vita più solitaria e appartata.
«Questo incontro deve ravvivare in voi il “senso della Chiesa”. Avviene talvolta che questo “senso della Chiesa” sia meno avvertito e meno coltivato in certe famiglie religiose: per il fatto che esse vivono appartate, e che esse trovano nell’ambito delle loro comunità tutti gli oggetti di immediato interesse e poco sanno di quanto accade al di fuori del recinto delle loro occupazioni, a cui sono totalmente dedicate […].
Questa non è una posizione ideale per la Vita Religiosa; essa perde la visione grande e completa del disegno divino per la nostra salvezza e per la nostra santificazione. Non è un privilegio rimanere ai margini della vita della Chiesa e costruire per sé una spiritualità che prescinda dalla circolazione di parola, di grazia e di carità della comunità cattolica dei fratelli in Cristo. Senza togliere alla Religiosa il silenzio, il raccoglimento, la relativa autonomia, lo stile di cui ha bisogno, la forma di vita che le è propria, Noi auguriamo che le sia restituita una partecipazione più diretta e più piena alla vita della Chiesa, alla liturgia specialmente, alla carità sociale, all’apostolato moderno, al servizio dei fratelli».
Nella stessa occasione annuncia anche che al Concilio ha voluto la presenza di alcune donne come uditrici, delle quali la maggior parte erano religiose. Per quanto questa scelta abbia avuto un carattere “simbolico”, come lo stesso Paolo VI riconosce nel suo discorso, rappresenta nondimeno un segno della soggettività che spetta alla vita religiosa femminile nel compimento della missione della Chiesa.
Molti temi toccati nei suoi discorsi
Sono molti i temi toccati da Paolo VI nei discorsi rivolti ai religiosi e nei documenti sulla vita consacrata e spaziano dall’esigenza di dedizione totale a Dio, che è l’anima di ogni consacrazione, all’attività caritativa e assistenziale che i religiosi hanno svolto e continuano a svolgere nella società. Riguardo a quest’ultimo aspetto, la riflessione di Paolo VI negli anni successivi al Vaticano II si misura con una critica che l’azione in campo assistenziale dei religiosi e della chiesa in generale solleva. A giudizio di alcuni si tratterebbe infatti di un’azione condizionata da un’attitudine paternalistica e da un modo di aiutare i poveri che non li aiuta ad uscire dalla loro condizione, ma finisce per renderli dipendenti da coloro che prestano loro assistenza.
Non carità, ma giustizia
Il nuovo principio a cui anche l’azione della chiesa deve conformarsi si può dunque riassumere così: non carità, ma giustizia.
Sul tema Paolo VI interviene direttamente in un discorso del 13 novembre 1969, rivolto ai Superiori Maggiori italiani, tocca tra l’altro il tema della relazione tra la giustizia e la carità. Paolo VI menziona la critica che affiora da qualche parte riguardo all’impegno assistenziale promosso dalle famiglie religiose e l’interrogativo se non si debba privilegiare l’impegno per la giustizia. Il papa non nega che talune modalità di intervento siano bisognose di revisione. Ma rivendica con fermezza all’azione dei religiosi e della chiesa la finalità della promozione integrale della persona umana.
«Questo accresciuto senso di gelosa autonomia richiederà certamente un continuo controllo sui criteri da seguire dai vostri Istituti nel compimento delle loro attività caritative di assistenza e di beneficienza; esigerà senza dubbio una sempre più aggiornata qualificazione personale e un opportuno adeguamento delle strutture alle nuove responsabilità, affinché tale missione sia adempiuta con frutto; bisognerà assolutamente lasciare quelle forme che sanno di imposizione, di paternalismo, come di improvvisazione, di leggerezza, di impreparazione. Ma questa attività caritativa richiama, d’altro canto, vigorosamente alla coscienza dei contemporanei, – non con le parole, di cui la vera carità va schiva, ma con i fatti, col comportamento, e col garbo accattivante e gentile che fiorisce dalla profonda e sincera carità dell’animo – richiama come la Chiesa, nell’esercizio della carità, non ha mai nemmeno pensato ad avvilire, a deprimere l’uomo, perché, sull’esempio del suo Fondatore, essa rispetta ed eleva l’uomo, anche e soprattutto quand’esso è nel bisogno più umiliante, vedendo in lui il fratello e l’amico, colui che porta nella sua finitezza di creatura e la dignità incommensurabile dell’immagine e somiglianza di Dio e lo stigma rovente della carità di Cristo, che lo ha redento con l’atto più alto di amore che in terra si possa immaginare, dando per lui la vita sulla Croce».
È dunque la visione cristiana dell’uomo che motiva e deve ispirare l’azione caritativa, la quale deve perseguire con coerenza l’obiettivo di riscattare coloro che si trovano nella condizione di povertà e di bisogno, perché non abbiano più bisogno dell’assistenza (anche se l’esperienza quotidiana ci dice che anche le riforme sociali più ampie ed efficaci non sono in grado di risolvere tutti i problemi).
Come ascoltare il grido dei poveri
Nella sezione dedicata al voto di povertà nell’esortazione apostolica Evangelica testificatio, riprendendo considerazioni che aveva sviluppato nell’enciclica Populorum progressio, Paolo VI si esprime con un tono drammatico e introduce il tema evocando il grido dei poveri, che non è possibile non ascoltare.
«Più incalzante che mai, voi sentite levarsi “il grido dei poveri” dalla loro indigenza personale e dalla loro miseria collettiva. Non è forse per rispondere al loro appello di creature privilegiate di Dio che è venuto il Cristo, giungendo addirittura al punto di identificarsi con loro? […] Quali discepoli di Cristo come potreste seguire una via diversa dalla sua? Essa non è, come sapete, un movimento di ordine politico o temporale, ma è un appello alla conversione dei cuori, alla liberazione da ogni impatto temporale, all’amore.
Ed allora come troverà eco nella vostra coscienza il grido dei poveri? Esso deve interdirvi, anzitutto, ciò che sarebbe un compromesso con qualsiasi forma di ingiustizia sociale. Esso vi obbliga, inoltre, a destare le coscienze di fronte al dramma della miseria ed alle esigenze di giustizia sociale del vangelo e della chiesa».
Questa necessaria proiezione verso i poveri di coloro che hanno abbracciato la povertà volontaria non si riduce però a un impegno orizzontale di solidarietà o a un progetto di trasformazione della società al fine di renderla più giusta. La scelta di vivere nella povertà presuppone la coltivazione della vita spirituale. Al riguardo Paolo VI ripropone il tema classico della separazione dal mondo, che potrebbe apparire superato dall’interesse che i religiosi sono chiamati ad alimentare per la realtà sociale in cui vivono, ma che mantiene tutto il suo valore e si traduce anzitutto nella coerenza con cui si vive uno stile di vita diverso da quello mondano e, in secondo luogo, richiede di dare il debito spazio al silenzio e alla vita raccolta.
«Nella misura, dunque, in cui voi assolvete funzioni esterne, è necessario che impariate a passare da queste attività alla vita raccolta, nella quale le vostre anime si ritemprano. Se compirete veramente l’opera di Dio, avvertirete da voi stessi il bisogno di tempi di ritiro, che, insieme con i vostri fratelli e le vostre sorelle in religione, trasformerete in tempi di pienezza».
Fedeltà a Dio e all’uomo
In sintesi, è una doppia fedeltà a Dio e all’uomo che deve animare l’insieme delle attività svolte dalle comunità religiose. Il tema, che può valere come sintesi dell’insegnamento di Paolo VI, affiora in uno dei suoi ultimi discorsi sulla vita religiosa, proposto il 15 aprile 1978 alle partecipanti all’Assemblea della Unione Superiore Maggiori d’Italia.
«L’adesione al Signore è indubbiamente fuori questione poiché la nostra fede in Lui ci “è stata trasmessa una volta per tutte”; essa quindi non può votarsi né a un “Gesù diverso” né intiepidirsi, sotto pena di “decadere dalla grazia”. Rimangono pertanto immutabili per i Religiosi i tre consigli evangelici, la cui osservanza costituisce da sempre nella storia della Chiesa il proprium della loro adesione al Signore. A tal proposito, vi sia di guida il dettato conciliare: “lo stato religioso più fedelmente imita e continuamente rappresenta nella Chiesa la forma di vita, che il Figlio di Dio abbracciò, quando venne nel mondo per fare la volontà del Padre e che propose ai discepoli che lo seguirono” (LG 44). […]
Ma pure caratteristica dei Religiosi è una peculiare fedeltà all’umanità, fedeltà che alla precedente non si aggiunge estrinsecamente, ma ne deriva naturalmente. Come il Signore Gesù visse e morì “per i molti”, così coloro che lo seguono più da vicino non possono non orientare tutta la propria esistenza, sia essa d’impronta attiva o contemplativa, al fine della salvezza degli uomini, che perciò occorre sufficientemente conoscere ed evangelicamente amare».
La vita religiosa nella società
Gli interventi sulla vita religiosa proposti da Paolo VI sono animati dallo spirito del Vaticano II, ma affondano le radici anche nell’esperienza pastorale dell’arcivescovo Montini nella chiesa ambrosiana e nella “cura d’anime” svolta fin dai primi anni del suo ministero fra gli studenti universitari. I diversi campi nei quali ha svolto la sua attività pastorale e la varietà di incontri ed esperienza da cui essa è segnata hanno segnato anche la riflessione sul nostro tema. La vita consacrata è anzitutto scelta di vita e cammino personale, che Montini accompagna con delicatezza e fermezza, per aiutare e sostenere la maturazione della decisione, ma è anche realtà comunitaria che assume una precisa configurazione istituzionale; essa svolge determinati compiti nella chiesa e nella società e si inserisce così nel mondo e nella storia con un compito e con la testimonianza di un messaggio originale.
Significato religioso ma anche sociale e politico della VC
Tra le radici del pensiero di Montini non si deve dimenticare la sua terra d’origine e l’eredità di famiglie religiose sorte a Brescia come altrove nel corso del XIX secolo per rispondere ai bisogni di cura dei malati, di assistenza ai poveri e di istruzione dei fanciulli e dei giovani. Il valore sociale di queste iniziative e il ruolo di protagoniste proprio delle donne è sottolineato con forza dall’arcivescovo in due discorsi tenuti a Desio e a Brescia nel maggio del 1955, in occasione delle celebrazioni per il centesimo anniversario della morte di santa Maria Crocifissa di Rosa.
Il 15 maggio 1955, nella Cattedrale di Brescia, l’arcivescovo di Milano tratteggia il contesto storico in cui è sorta l’opera della santa bresciana e il significato che essa riveste per la società di allora e di oggi. Il punto di partenza è la descrizione di quello che a lungo è stata la vita religiosa e della profonda trasformazione che essa conosce nel XIX secolo, con l’assunzione da parte delle comunità femminili di un impegno diretto a servizio dei poveri e degli ammalati.
«La vita religiosa femminile era sempre stata chiusa fra le grate di ferro della clausura, votata alla preghiera, alla verginità, al silenzio, alla mortificazione. Con Santa Teresa d’Avila la clausura diventò una delle caratteristiche più complete della vita religiosa femminile. Vi fu qualche tentativo di rompere questo metodo. Le figlie della Carità di San Vincenzo riuscirono ma dovettero rinunciare alla professione pubblica e perpetua; e del resto rimase un tentativo quasi isolato. Sono note le avventure di San Francesco di Sales che vuole fondare una congregazione apostolica, e finisce col fondare la Visitazione chiusa della clausura.
Sorgono parallelamente, quasi allo stesso momento, in Lombardia, opere molteplici nella stessa figura e fisionomia. A Verona la Canossa, a Lovere la Capitanio e la Gerosa fondano Congregazioni religiose femminili che sono strette dalla disciplina, ma sciolte da tutti i vincoli che le rendevano estranee alla vita sociale».
In questo contesto storico l’opera di santa Maria Crocifissa presenta un tratto di novità e un impatto inedito nella realtà sociale.
«Paola di Rosa […] lancia le sue figlie in mezzo alla società la più provata dal dolore, dalla miseria, dall’abbandono, ove i tentativi di scristianizzazione si facevano sentire anche allora molto fortemente.
Durante tutto il secolo scorso, durante le formazioni sociali moderne, davanti ai più grandi movimenti sociali che noi abbiamo visto sorgere come il comunismo e il socialismo, tutte le trasformazioni delle classi inferiori e superiori che non sono ancora finite e che interessano tanto ogni uomo e ogni cristiano, si è sentito dire che la Chiesa non aveva capito i tempi nuovi e che non offriva al popolo nessuna utilità e nessun servizio sociale. La Chiesa sembrava fissa nel suo schema storico tradizionale, di non interessarsi dei bisogni nuovi; perciò, hanno predicato che la Chiesa ama le vecchie istituzioni storiche di un tempo che fu; che la Chiesa è superata, bisogna rovesciarla per permettere alle forze popolari nuove di poter dare la scalata a tutti i poteri. Non si è visto che è invece la presenza prima e benefica della Chiesa, proprio in questo settore, la forza viva che tende a sollevare con queste istituzioni sociali il popolo e tutti quelli che soffrono. Non è stata presente la Chiesa politicamente, ma ha percorso un’altra strada; la sua politica è stata la carità, le istituzioni di carità nate nell’‘800 e che ancora continuano in questa società tanto bisognosa e agitata».
La vita religiosa femminile in questo momento storico assume quindi un significato non solo religioso, ma anche sociale e politico ed esprime l’originalità del contributo che la chiesa intende dare alla società. L’impegno delle comunità religiose è dunque profezia del regno di Dio e, insieme profezia – “avanguardia” dice Montini – di una società che si prenda cura dei più deboli e di coloro che si trovano ai suoi margini, privi di ogni assistenza.
«Questa presenza della Chiesa si può bene qualificare una presenza di avanguardia; prima ancora che l’assistenza sociale si organizzasse e prendesse consistenza, ci sono state schiere di donne che non sapevano nulla di socialismo, di politica, ma che si sono occupate di ogni assistenza a tutti i mali sociali, hanno avuto la più chiara visione dei bisogni del popolo e sono scese in mezzo al popolo, vergini immacolate senza paura, senza macchia, senza che nessun ostacolo le trattenesse, solo lottando con l’inciampo di chi voleva impedire a questa assistenza gli incontestati diritti di servire i poveri, i sofferenti, i fanciulli, gli orfani, gli ammalati, i moribondi, i corpi e le anime; unici diritti che queste donne hanno rivendicato per sé. A questo si sono votate nei lunghi anni della loro preparazione; per questo hanno fatto, oltre i tre voti di obbedienza, castità e povertà, il voto di servire gli appestati se un giorno, qualsiasi male contagioso, attentasse alla vita dei fratelli.
Queste sono le presenze gentili, umili, eroiche, silenziose, benefiche della Chiesa, insonni, incapaci di stancarsi, pronte a dare la vita per il bene del popolo. Questa è stata la Chiesa bresciana, del popolo bresciano. Brescia ha ragione di essere fiera di questa famiglia religiosa. Essa alimenta il senso di amore di questa città, essa raccoglie le tradizioni più umane, alte, virili, benefiche, più votate all’avvenire e ai veri bisogni del popolo».
La preghiera e la collaborazione all’azione pastorale
I discorsi citati si collocano nei primi mesi dell’episcopato milanese di Giovanni Battista Montini. La sua elezione ad arcivescovo era infatti stata annunciata il 4 novembre 1954 e il 6 gennaio 1955 aveva fatto il suo ingresso in diocesi. Molto si è scritto sulle ragioni di questa promozione, che suona per molti aspetti come allontanamento da Roma, ma che ha di fatto costituito la preparazione pastorale al pontificato. A Milano Montini è chiamato a svolgere il compito di pastore in una Chiesa vastissima e dalla ricca tradizione. E lo sforzo di Montini è stato principalmente quello di adattare le strutture della pastorale e la mentalità dei soggetti che ne sono responsabili ai cambiamenti culturali e sociali che soprattutto nella grande città già si annunciano. In questo quadro si inserisce anche il dialogo con le comunità religiose che hanno un ruolo insostituibile nella vita ecclesiale, nonostante affiori qua e là la constatazione che i numeri delle vocazioni diminuiscono.
Nel primo incontro con le religiose della diocesi di Milano, il 21 gennaio 1955, Montini ribadisce le convinzioni che egli ha trasmesso a chi si era affidato alla sua guida spirituale. La vocazione si trova all’inizio della vita religiosa ed è un mistero da custodire nel cuore:
«E nessuna, nessuna di voi può aver dimenticato l’istante in cui avete sentito in fondo al vostro cuore, forse in un silenzio di preghiera, forse in uno scoppio di pianto, forse in una emozione nuova, avete sentito la voce; avete sentito che qualcuno parlava in voi, avete sentito che questa era una voce diversa da tutte le altre, avete raccolto la vocazione! In colloquio ineffabile, il sentire Iddio parlare con dolcezza sorprendente, con accenti soavissimi e chiarissimi, ha impegnato la vita di ciascuna di voi».
Ma la vita religiosa è anche una testimonianza rivolta al mondo e alla società, proprio con il suo porsi in contrasto evidente rispetto ai valori che il mondo mette a fondamento della vita e dell’attività delle persone.
«Vedo davanti a me un mondo in cui domina la legge dell’egoismo e dell’avidità, un mondo proteso alla conquista dei beni terreni, avaro delle sue ricchezze, che ha fatto ideale di sé lo scavare la terra per diventare ricco e forte, credendo di estrarre dalle viscere della terra la sua felicità. E davanti a me si presenta invece uno stuolo immenso di persone, di anime semplici e cuori nobili, che con gesto forte e, direi, elegante hanno rinunciato a tutto e hanno detto: “Io seguirò il Maestro in povertà; non m’importa nulla delle ricchezze del mondo, al mondo lasciamo le sue ricchezze passeggere ed effimere, io seguirò le ricchezze del cuore di Cristo, io seguirò le ricchezze della sua Parola, seguirò le ricchezze del suo amore”. E povere si sono incamminate dietro al Maestro povero, per essere Sue fedeli seguaci e Sue figlie immacolate e fedeli».
Di fronte ai fermenti orientati alla ricerca di modi nuovi di interpretare la vita religiosa, Montini sottolinea piuttosto il valore della fedeltà alle esigenze del compito che hanno assunto e alla tradizione della comunità cui appartengono. Nella fedeltà ai loro compiti quotidiani e non altrove possono trovare la novità che cercano, dice alle suore di Maria Bambina, il 14 maggio 1955:
«Troverete lo spirito e le forme della vostra vocazione aderendo, come appunto fate ogni giorno, a ciò che è prescritto dalle contingenze in cui prestate il vostro servizio: infermiere, siate brave infermiere; maestre, siate brave maestre; sorelle, siate veramente sorelle delle persone che avvicinate, di tutto il mondo che circola intorno a voi. E questa aderenza al programma di vita che è già segnato non è, lo sapete bene, monotonia, non è uniformità, non è, come oggi dicono, staticità, cioè il fermarsi a un programma che non si evolve e che fissa a un momento, bello e beato magari, ma che risale a un secolo fa, la vostra vita. No, l’aderire con cordiale fedeltà al vostro programma, alla vostra regola, ai doveri che il vostro Istituto vi impone, che le vostre Superiore vi distribuiscono, sappiate che è eminentemente dinamico, direi perfino drammatico.
A quante novità, a quante cose impensate, a quante sorprese espone la vostra vita! Perché voi venite a contatto non già con delle situazioni uniformi e tranquille, ma venite a contatto con questa cosa misteriosa, sempre nuova e sempre implacata e sempre profonda che è il bisogno umano, che è il dolore umano, che è il peccato umano. Il trovarvi a contatto con questa miseria, il trovarvi a contatto con questo abisso vi espone appunto a trovare nella vostra anima sempre un coraggio nuovo, a far scaturire dal vostro cuore sempre una aderenza nuova, a rinnovarvi di momento in momento, ad essere, direi, in ogni istante giovani e forti per essere pari ai doveri che ogni momento sono offerti alla vostra vocazione».
Il discorso dell’11 febbraio 1961 rivolto dall’arcivescovo Montini alle religiose riunite in Duomo è uno dei più importanti perché si cominciano a intravedere spazi e compiti nuovi per le religiose all’interno della chiesa locale e tra i soggetti della sua azione pastorale. Montini mette in risalto anzitutto la vocazione alla preghiera propria delle comunità religiose e il compito loro affidato dell’intercessione a nome di tutti e a vantaggio di tutto il mondo:
«La Chiesa sa che voi avete nel suo grande ambito una missione, una funzione che non è calcolabile, perché non è misurabile col nostro metro e col nostro occhio e cioè voi davanti a Dio avete una capacità di impetrazione, di penitenza, di preghiera. Se non ci foste voi, che sarebbe del mondo, che sarebbe la Chiesa? Voi vegliate nella preghiera, voi vi chiudete nella contemplazione, voi adorate il Signore, voi veramente Lo pregate, voi siete quelle unità che il Signore guardando anche ad una società perduta può calcolare come quelle che la salvano».
Un’esigenza di aggiornamento
Ma c’è anche un’esigenza di aggiornamento e di novità nelle forme in cui le religiose sono chiamate ad attuare il loro servizio alla chiesa e Montini indica il passaggio successivo, che già si annuncia, in un’evoluzione storica che ha già conosciuto significative trasformazioni della vita religiosa.
«Voi eravate arrivate fino all’educazione, al servizio degli infermi, alle scuole ed agli ospedali, a certi servizi. Ma la Chiesa di Dio esige ancora di più, figliole mie! Siete capaci di fare anche di più. Vi voglio ancora più vicine. Io scompaginerò un po’ le vostre file, vi immetterò a piccoli gruppi, di qua e di là vi disseminerò nel popolo cristiano che ha così bisogno di vedere ancora le sue vergini consacrate in mezzo alla sua profanità. Vi metterò di fronte alla società e alla gioventù che non ha più l’esempio delle virtù integrali e delle immolazioni complete. Vi metterò vicino alle mie Parrocchie, vi chiamerò vicino ai miei altari. Vi innesterò in tutta la mia fatica per salvare e santificare il mondo; cioè la vocazione moderna delle suore è questa, di diventare collaboratrici dell’azione pastorale. […]
Diventate anche voi – lo devo dire con una vecchia parola che ha avuto tanti significati ma che nessuno può riacquistare nel suo significato naturale, etimologico e innocente – diventate le diaconesse della Chiesa di Cristo, cioè le ministre. Anche voi vi avvicinate all’altare, anche voi vi avvicinate alle anime, anche voi vi avvicinate alle chiese dove si raccoglie la plebe di Dio. Non rifiutate questa vocazione. Già l’avete, perché vi vedo disseminate in tutte le Parrocchie.
Una Parrocchia moderna non può più fare a meno delle suore».
ANGELO MAFFEIS
Presidente dell’Istituto Paolo VI – Concesio (Brescia)