Cozza Rino
Non difenderci dal mondo ma abitarlo
2023/1, p. 24
La vita religiosa se vuole intercettare le attese su di essa riposte, deve uscire dagli spazi chiusi fisici e mentali: è questo il primo modo per poter godere dell’aria fresca di un pensiero innovativo, sia in ambito teologico ma anche sociologico e antropologico.

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LA NOSTRA SFIDA EVANGELICA
Non difenderci dal mondo
ma abitarlo
La vita religiosa se vuole intercettare le attese su di essa riposte, deve uscire dagli spazi chiusi fisici e mentali: è questo il primo modo per poter godere dell’aria fresca di un pensiero innovativo, sia in ambito teologico ma anche sociologico e antropologico.
Il mondo è davvero cambiato. Siamo passati dal tempo in cui tutto sembrava scontato, al tempo in cui improvvisamente non lo è più. Ed è da qui che occorre cominciare.
Consapevoli che «si esce da nessuna crisi se non aderendo fino in fondo al processo trasformativo che essa segnala e spinge ad attuare».
Ne consegue che anche la storia della vita religiosa non può essere quella data dalla fossilizzazione delle sue espressioni storiche e delle sue formulazioni dottrinali, per cui la sua anacronistica fissità, interessa molto poco alle nuove generazioni. Ne consegue la necessità di transitare a nuovi mondi possibili la cui prima preoccupazione non sia quella di riaggiustare ciò che non può più essere riaggiustato.
Aprire varchi alla luce
di visioni inedite nella storia
Guardare «fuori» significa portare gli occhi non allo specchio di casa, ma al saper leggere le domande profonde ma inespresse del tempo, con capacità di vedere ciò che i più non vedono, per saper operare il collegamento tra le proposte del Vangelo e le situazioni storiche.
Già agli inizi della Chiesa si era sentita l’esigenza di una diversificazione di cammini discepolari. A testimoniarlo è la disputa tra la comunità di Gerusalemme e quella di Antiochia, come riportata dagli Atti degli Apostoli (c.15), dovuta al fatto che ben presto in questa si rese forte l’esigenza di aprirsi a varie culture con l’inventare modelli, ritmi e convivenze atipiche a confronto con quella «canonica» di Gerusalemme in cui la compiacenza verso la memoria normativa la portava a salvaguardarsi chiudendosi, anziché inculturandosi. Dunque ad Antiochia nacque, già da subito l’istanza di un cambio di paradigma, i cui elementi fondanti erano dati dall’esplorare nuova creatività fuori schema, condividere con altri mondi culturali senza costituire corpi separati dalla gente, dal portare la buona notizia con linguaggi nuovi perché comprendessero anche i greci: si trattava dunque di fare i conti con gli orecchi di coloro a cui arrivava l’annuncio.
È ciò che ha fatto il Concilio con il superare la stagione dell’ecclesio-centrismo per muoversi con l’ammettere che è nel grembo di un dato momento della storia che c’è il seme generativo che dà corpo al «vero» e al «buono» di ogni nuova stagione, per cui la verità è sempre e necessariamente apertura a un processo evolutivo che implica l’irruzione di situazioni inedite.
A forza di uniformità si è persa la capacità
di pensare in modo alternativo
Il monaco Cassiano (360 – 435), pensava che la Chiesa fosse nata monaca, e la vita cenobitica conservasse l’espressione più autentica della vita cristiana. Era quello il tempo in cui il futuro lo si riceveva totalmente in eredità dal passato, per cui tutto, di fatto, era in funzione della «conservazione» di ciò che era tramandato, ritrovandosi meglio nel pensare il mondo costruito su codici immutabili, e nell’ostentare i motivi della propria immutabilità piuttosto che della precarietà. Oggi, diversamente e con maggior ragione si dice che la storia del cristianesimo non fa che cominciare, e da ciò non può esserne esclusa la vita religiosa.
Per coloro che vi si oppongono, il Papa ha riservato queste espressioni molto forti: «Le resistenze nascono da cuori impietriti che si alimentano delle parole vuote del «gattopardismo spirituale di chi a parole si dice pronto al cambiamento, ma vuole che tutto resti come prima».
La cosa importante non è ciò che proclamiamo,
ma quello che viviamo
L’evangelicità della vita religiosa, per essere trovata credibile e ricercata, deve riuscire a dare spazio, con il proprio «essere e fare», a una chiara e trasparente espressione della forza liberatrice e sanante di Cristo.
Specie dal Concilio in poi i consacrati sono invitati a palesare il volto di Dio come si è rivelato in Cristo. Dunque «è questione di amore non di posizione ecclesiale», e la «radicalità» sta nella trasparenza dell’azione di Dio che non è garantita da nessuna forma di vita particolare.
Per i religiosi/e si tratta allora di una forma di vita che si proponga di ricuperare la memoria di Cristo, per narrare con le vitali sue azioni guarenti, figurative e trasformatrici. È questo modo di vivere che porta il Vangelo ad essere visto come aspirazione al bello e al buono.
La domanda allora che la vita religiosa deve farsi, è chiedersi come essere presenza viva di un Dio che si commuove e si china sulle persone per averne cura, liberandoci da un modello di comportamenti che non esprimono più un valore. Tutto ciò sarà possibile se all’inizio ci sarà un incontro in cui la persona è stata conquistata da Lui.
La possibilità di cambiamento è data innanzitutto
dal sapersi confrontare con la centralità della Parola
Con queste espressioni intendo indicare forme di vita consacrata caratterizzate da uno sforzo di sintesi tra Parola e vita, capaci di ridisegnare continuamente i propri ambiti e i propri scopi. Parola letta in un fecondo rapporto tra testo e contesto sociale, culturale, ecclesiale», per la quale pregare voglia dire riunirsi attorno alla Parola di Dio, ascoltarla, sentita come lampada per i propri passi. Dunque una preghiera che non distragga rispetto alla vita che corre, attraverso cui giudicare la realtà sociale.
«Parola» che si fa «preghiera» che non distragga rispetto alla vita che corre, la quale oggi più che mai rinvia alla concretezza della solidarietà con chi è nel bisogno. È da questa forma di incontro con Dio che potranno poi nascere dalla fantasia della carità una molteplicità di «diaconie» innovative, vissute anche fuori dagli schemi del passato. A dirlo è l’esortazione apostolica Evangelii Gaudium: La vita spirituale non può essere «confusa con alcuni momenti religiosi che offrono un certo sollievo.Non si tratta di squalificare le devozioni precedenti, ma certamente la potenza della Parola di Dio, il suo primato, la sua signoria riconosciuta nella vita dei religiosi nutre la fede e la vocazione più di quanto possano fare le devozioni della pietà preconciliare.
Che cosa coltivare
perché la vita religiosa possa ritornare ad attrarre?
È sotto gli occhi di tutti che l’attuale forma di vita religiosa va perdendo la forza riproduttiva. Questo è anche dovuto al fatto – è detto negli “Orientamenti” della Congregazione della vita consacrata - che «tutta la costellazione di linguaggi e modelli, di valori e doveri, di spiritualità e identità ecclesiale, cui siamo abituati, non ha ancora lasciato spazio al collaudo e alla stabilizzazione del nuovo paradigma nato dalla ispirazione e dalla prassi postconciliare».
Dunque, se la vita religiosa vuole intercettare le attese su di essa riposte, deve uscire dagli spazi chiusi fisici e mentali: è questo il primo modo per poter godere dell’aria fresca di un pensiero innovativo, sia in ambito teologico ma anche sociologico e antropologico, circa i quali riporto alcune parziali considerazioni.
In ambito teologico: La vita religiosa – disse papa Francesco – «non è una condizione a parte, propria di una categoria di cristiani, ma punto di riferimento per tutti i battezzati». Espressione, questa, che indica il rovesciamento della prospettiva che vedeva nella fuga dal mondo la sua ragion d’essere e porta invece a dire – come espresso in Evangelii gaudium (n.28), che non persuadono più i gruppi «di eletti che guardano a se stessi»; vale a dire che oggi l’esemplarità dell’esserci, nasce e rinasce dai luoghi promiscui del vivere, dall’incontro di umanità intere, dove sperimentare le sofferenze e le gioie più reali degli altri e l’incontro sia fatto di volti umani da guardare con il cuore. È stata questa la scelta di Francesco di Assisi che lo ha portato – scrive lo storico André Vauchez – a vivere, per esempio, la povertà non come esercizio ascetico o giuridico, quanto invece il vivere come quei minori (i poveri) che sopportavano le fatiche quotidiane quale prospettiva di chi non spadroneggia sul creato, né sulle creature ma che tende ad affermare la dignità di tutti coloro che non possiedono né visibilità, né beni né dignità.
Per la VC, questa visione della povertà porta quanto meno a «non accettare – come detto in «Per vino nuovo, otri nuovi» (n.27), «uno stile di gestione in cui all’autonomia economica di alcuni corrisponda la dipendenza di altri»; come anche porta a capire che non si può far coincidere la povertà con la negazione di una qualche forma di autonomia economica frutto del proprio lavoro.
In ambito sociologico: Siccome i processi di significazione sono all’interno della storia corrente, si è richiesti di una particolare attenzione allo sciogliere vari nodi che la modernità va portando al pettine. In particolare, in rapporto alla vita fraterna, le giovani generazioni non sono interessate a comunità incapaci di offrire una vera vita comunicativa, come anche non prediligono gli assemblaggi umani a tutta giornata per tutta la vita.
Nel futuro, inoltre, il contarsi come comunitari, in rapporto a un carisma, non sarà riferito soltanto a quelli che coabitano ma anche a coloro che (laici e laiche) convergono attorno ad un progetto discepolare (Famiglia Carismatica).
In campo antropologico: Oggi la fraternità ama le figure «da cui traspaia che credere non è un farsi imbrigliare l’umanità, la corporeità, la vitalità, la bellezza, la spontaneità, ma semmai farle esplodere in pienezza». Per questo non può essere negata ai religiosi/e l’espressione della propria unicità, come avviene, per esempio, quando nel quotidiano le relazioni sanno di sudditanza, o quando alle persone non sono garantiti spazi e tempi personali.
In particolare, oggi, la persona non può essere privata della «libertà», quella richiamata dalla domanda di Gesù: «Perché non giudicate voi stessi ciò che è giusto? (Lc 12,57); interrogativo che a sua volta chiama in causa la «libertà di coscienza», che è all’origine della responsabilità non delegabile, nella consapevolezza però che la libertà è come un oggetto frangibile, da maneggiare con cautela, perché porta in sé i limiti di una fragile umanità.
RINO COZZA CSJ