Moggi Paola
COP27: un grande bisogno di spiritualità
2023/1, p. 16
Dal 6 novembre 2022 Sharm al Sheik, luogo esclusivo di chi ama le immersioni subacquee, per due settimane diventa un addensato di mondo. Vi confluiscono oltre 45.000 persone che partecipano alla 27° Conferenza internazionale delle Parti (Stati) sul cambiamento climatico, ovvero la Cop27. Come missionaria, dal 1993 sono attenta alle iniziative di giustizia, pace e integrità del creato; come giornalista, dal 2015 seguo con particolare attenzione il susseguirsi delle Cop; ma parteciparvi di persona rivela scorci inediti.

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COP27: un grande bisogno di spiritualità
Dal 6 novembre 2022 Sharm al Sheik, luogo esclusivo di chi ama le immersioni subacquee, per due settimane diventa un addensato di mondo. Vi confluiscono oltre 45.000 persone che partecipano alla 27° Conferenza internazionale delle Parti (Stati) sul cambiamento climatico, ovvero la Cop27.
Come missionaria, dal 1993 sono attenta alle iniziative di giustizia, pace e integrità del creato; come giornalista, dal 2015 seguo con particolare attenzione il susseguirsi delle Cop; ma parteciparvi di persona rivela scorci inediti.
Ringrazio fratel Alberto Parise, Comboniano, che ha orientato i miei primi passi nel labirinto delle sale e dei padiglioni del Centro conferenze che ospitava l’evento: avendo già partecipato alla Cop26 di Glasgow, riuscivo a non perdermi nei meandri del ricchissimo programma della Cop27.
I “due mondi” della Cop
Da subito ho avuto l’impressione che all’interno dell’immenso Centro Conferenze di Sharm al Sheik convivessero due “mondi paralleli”.
Da una parte le delegazioni di 198 Stati, che esprimono la posizione dei rispettivi governi, dall’altra gli eventi collaterali che permettono incontri e confronti con organizzazioni, associazioni e Stati che espongono e pubblicizzano le proprie soluzioni alla crisi climatica.
Come osservatrice nel team di Vivat International, ong costituita da 11 congregazioni religiose che operano in 120 Paesi e accreditata presso l’Onu dal 2004, ho assistito ad alcune sessioni pubbliche dei negoziati delle 198 delegazioni. Se da una Cop all’altra cambia il governo, anche le loro posizioni possono cambiare. Evidente il caso del Brasile, con il ritorno di Ignacio Lula da Silva dopo la presidenza di Jair Bolsonaro.
I negoziati sono altamente tecnici, con sottigliezze che talvolta spaccano la virgola nel tessere un compromesso. Le delegazioni si susseguono nel prendere la parola, ma spesso le differenze rimangono inconciliabili e la paralisi diventa penosa. Che frustrazione!
Personalmente, ho trovato molto più interessanti le opportunità di incontro e confronto offerte ogni giorno dagli eventi collaterali ospitati nei molteplici padiglioni di Stati, ong e associazioni. Molto interessanti anche alcune conferenze ospitate in appositi spazi della Cop.
Ho spaziato dal padiglione dei Popoli indigeni, che presentavano sempre esperienze molto illuminanti, a quelli di organizzazioni e aziende che promuovevano idrogeno verde e agricoltura “smart”; ho partecipato a tavole rotonde su “transizione giusta” e su “perdite e danni”, e a incontri interconfessionali e interreligiosi. Tutte occasioni preziose per ascoltare prospettive altre, ma anche per sollevare questioni e fare domande. Ovviamente, non c’erano anche Paesi e imprese che pubblicizzavano petrolio, gas ed energia atomica.
Poca libertà, ma...
Dal momento che Vivat è affiliata al Climate Action Network degli Usa (CAN-US), ho attivamente partecipato ad alcune manifestazioni organizzate dalla società civile. Il governo egiziano le ha confinate entro lo spazio della Cop, così che la popolazione locale ne è rimasta esclusa e anche ignara. Non c’è stata alcuna marcia pubblica, come quella oceanica del 2021 a Glasgow: a Cop27 c’era la museruola ma, seppur circoscritte entro zone chiuse, le espressioni di protesta e di critica non sono mancate.
Il 12 novembre, alla manifestazione per la giustizia climatica c’erano più di duemila persone “di ogni popolo e lingua”. Le delegazioni che si stavano dirigendo ai tavoli negoziali si sono sentite dire: «Pagate per i danni e le perdite che avete causato».
Il 17 novembre, l’immensa sala Ramses dello spazio Cop traboccava di rappresentanti della società civile che, iniziando con una preghiera degli “indiani d’America” (le così dette “nazioni primarie”), hanno presentato la “Dichiarazione dei Popoli” ed espresso le loro richieste. Per le contituencies riconosciute dalla Convenzione-quadro dell’Onu sul cambiamento climatico hanno parlato soprattutto le donne: anche in rappresentanza dei sindacati, delle giovani generazioni e delle popolazioni indigene.
Ancora le donne, con la loro esuberante creatività, hanno concluso l’incontro con una danza coinvolgente che ha accompagnato l’uscita dalla sala riversandosi infine all’aperto. Uno stile ben diverso da quello rigido e formale delle delegazioni degli Stati.
Qualche piacevole scoperta
Per la prima volta, alla Cop27 anche la Santa Sede è stata presente con una sua delegazione. Rispetto a quella gigantesca degli Usa, costituita da 2.000 persone, era davvero esigua: appena sette persone, che hanno comunque cercato di coordinare le presenze cattoliche.
Durante la seconda settimana è stato attivo anche lo stand del Movimento Laudato si’ che ha proiettato con successo il docufilm “La lettera” e partecipato a varie iniziative.
Ma la scoperta più interessante è stata quella della profonda spiritualità dei Popoli indigeni: il loro padiglione, frutto di una collaborazione inclusiva e feconda, offriva le prospettive più originali.
Da tutti i continenti, con tanto di traduzione simultanea, emergevano molteplici esperienze di vita. Le conoscenze ancestrali possono anche integrarsi con la scienza moderna, senza però perdere di vista le “connessioni” che sostengono la creazione. Per questo per loro parlare di diritti umani è riduttivo: non tutela gli altri esseri viventi e tanto meno il suolo, l’acqua e l’aria. Al posto dell’agricoltura “smart” proposta dal paradigma tecnocratico, offrono l’agricoltura “organica”, che rispetta i ritmi degli ecosistemi e ne valorizza le potenzialità.
I popoli nomadi rigenerano i terreni con il “concime” depositato dal loro bestiame e le donne del Sahel recuperano sementi autoctone più resistenti alla siccità. A ogni latitudine, sono soprattutto le donne che coltivano la terra, custodiscono semi e piante medicinali, provvedono l’acqua e cucinano il cibo. Senza di loro, “mitigazione e adattamento”, parole chiave dell’Accordo di Parigi, rischiano di rimanere astratte. E forse è ancora a loro che dovrebbero andare i maggiori risarcimenti per “danni e perdite” inferti da millenni… di patriarcato.
Crimine di ecocidio
Distruggere la Terra, nostra “casa comune” (oikos), e la sua biodiversità potrebbe presto diventare un crimine. A Cop27 la campagna Stop ecocide è stata molto attiva: ha rilanciato la richiesta di due piccoli Stati, Vanuatu e Maldive, che nel 2019 si sono appellati alla Corte penale internazionale dell’Aia per considerare l’ecocidio al pari dei crimini di guerra e di quelli contro l’umanità.
Un pronunciamento in tal senso potrebbe bloccare le aziende che impunemente inquinano l’ambiente e lo distruggono, pagando al massimo qualche multa.
Se i 192 Paesi riuniti alla Cop15 sulla biodiversità, rinviata per covid dal 2021 in Cina, a dicembre 2022 in Canada, sono riusciti a concordare un «patto di pace con la natura» per tutelare gli ecosistemi e tutte le specie viventi, lo si deve forse anche alla spiritualità dei popoli indigeni, da sempre custodi della creazione. La religione separa, mentre la spiritualità mette tutto in relazione, perché, davvero, “tutto è connesso”.
PAOLA MOGGI