Martinelli Paolo
La Vita consacrata ha bisogno della Chiesa e la Chiesa ha bisogno della Vita consacrata
2022/9, p. 3
Perché ci sia effettivamente un contributo alla Chiesa nella sua sinodalità c’è bisogno che la Vita consacrata sia riconosciuta per quello che è all’interno della Chiesa.

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Testimoni
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La Vita consacrata ha bisogno della Chiesa
e la Chiesa ha bisogno della Vita consacrata
Adesso proviamo a rigirare la questione. Perché ci sia effettivamente un contributo alla Chiesa nella sua sinodalità c’è bisogno che la Vita consacrata sia riconosciuta per quello che è all’interno della Chiesa. Partiamo da un testo classico, da Lumen gentium 44: «Lo stato di vita dunque costituito dalla professione dei consigli evangelici, pur non concernendo la struttura gerarchica della Chiesa, appartiene tuttavia inseparabilmente alla sua vita e alla sua santità». Un testo che riconosce il posto imprescindibile della Vita consacrata per la vita ecclesiale. Ed è quanto affermerà san Giovanni Paolo II nell’esortazione post sinodale Vita consecrata del 1996, affermando che «la Vita consacrata, presente fin dagli inizi, non potrà mai mancare alla Chiesa come un suo elemento irrinunciabile e qualificante, in quanto espressivo della sua stessa natura... Gesù stesso, chiamando alcune persone ad abbandonare tutto per seguirlo, ha inaugurato questo genere di vita che, sotto l’azione dello Spirito, si svilupperà gradualmente lungo i secoli nelle varie forme della Vita consacrata. La concezione di una Chiesa composta unicamente da ministri sacri e da laici non corrisponde, pertanto, alle intenzioni del suo divino Fondatore quali ci risultano dai Vangeli e dagli altri scritti neotestamentari» (n. 29).
Quindi la Vita consacrata ha bisogno della Chiesa per essere se stessa e dare il suo contributo, al popolo di Dio, come popolo in cammino. E di riflesso la Chiesa ha bisogno della Vita consacrata per essere se stessa e quindi per essere una Chiesa sinodale.
Doni gerarchici e doni carismatici
Affermazioni che ci riportano alla “coessenzialità” dei doni gerarchici e dei doni carismatici nella prospettiva della sinodalità della Chiesa.
Mi limito ad elencare alcuni testi: Lumen gentium al n. 4, che parla ovviamente dello Spirito che «introduce la Chiesa nella pienezza della verità (cfr. Gv 16,13), la unifica nella comunione e nel ministero, la provvede e dirige con diversi doni gerarchici e carismatici, la abbellisce dei suoi frutti (cfr. Ef 4,11-12; 1Cor 12,4; Gal 5,22)», e poi al n. 12, dove si afferma che lo stesso Spirito che agisce nei sacramenti e nella gerarchia è lo stesso Spirito che distribuisce i doni carismatici, perché la Chiesa possa in ogni tempo vivere la propria missione dentro le diverse e mutate circostanze storiche culturali e sociali. E infine c’è la lettera della Congregazione della dottrina della fede Iuvenescit ecclesia sulla relazione tra doni gerarchici e carismatici per la vita e la missione della Chiesa, resa pubblica il 14 giugno 2016. La coessenzialità di doni gerarchici e carismatici permette innanzitutto di uscire fuori dall’alternativa del parallelismo – cioè della giustapposizione – tra doni gerarchici e carismatici. Si tratta cioè di «favorire – attraverso una approfondita consapevolezza degli elementi essenziali relativi a doni gerarchici e carismatici, e al di là di ogni sterile contrapposizione o giustapposizione – una loro ordinata comunione, relazione e sinergia, in vista di un rinnovato slancio missionario ecclesiale».
Concretamente si tratta di valorizzare quel dono dello Spirito e non per avere una manovalanza ecclesiale a buon mercato. Altrettanto concretamente la Vita consacrata, portatrice di un carisma, di una spiritualità particolare, con le sue opere proprie, non potrà che vivere la propria vocazione secondo le indicazioni che il Vescovo dà in quella diocesi. Questo ascolto reciproco implica il riconoscimento positivo delle differenze irriducibili all’interno del popolo di Dio. Vale a dire l’esercizio della sinodalità presuppone il riconoscimento della pluriformità nell’unità.
Su questo punto non posso non riprendere quanto papa Francesco ha detto nel corso della sua visita a Milano il 25 marzo del 2017. Ecco le sue parole: «Io credo che la Chiesa, nell’arco di tutta la sua storia, tante volte – senza che ne siamo consapevoli – ha molto da insegnarci e aiutarci per una cultura della diversità. Dobbiamo imparare. Lo Spirito Santo è il Maestro della diversità. Guardiamo le nostre diocesi, i nostri presbiteri, le nostre comunità. Guardiamo le congregazioni religiose. Tanti carismi, tanti modi di realizzare l’esperienza credente. La Chiesa è Una in un’esperienza multiforme. È una, sì. Ma in un’esperienza multiforme. È questa la ricchezza della Chiesa. Pur essendo una è multiforme».
È chiaro che un percorso sinodale richiede innanzitutto un’attenzione testimoniale alla condivisione di quello che si sta vivendo, ascoltandosi e accogliendosi nelle differenze di cui si è portatori. Sempre in occasione della visita a Milano, papa Francesco precisava che occorre aiutarci «a discernere gli eccessi di uniformità o di relativismo: due tendenze che cercano di cancellare l’unità delle differenze, l’interdipendenza. La Chiesa è Una nelle differenze. È una, e quelle differenze si uniscono in quella unità. Ma chi fa le differenze? Lo Spirito Santo: è il Maestro delle differenze! E chi fa l’unità? Lo Spirito Santo: Lui è anche il Maestro dell’unità! Quel grande Artista, quel grande Maestro dell’unità nelle differenze è lo Spirito Santo».
I luoghi della sinodalità
L’ultimo punto cui vorrei almeno accennare, pur senza poterlo sviluppare come sarebbe necessario, riguarda i luoghi di esercizio della sinodalità cui la Vita consacrata è chiamata a partecipare in forza della propria vocazione e del proprio patrimonio carismatico. Mi sembra interessante perimetrare alcuni ambiti dell’esercizio di questa sinodalità.
A livello universale certamente. È il rapporto fondamentale che la Vita consacrata ha con il sommo Pontefice: fatto di ascolto del suo magistero sincero, di obbedienza alle sue indicazioni, di confronto diretto e mediante il dicastero proposto. Certamente l’esperienza della Vita consacrata in tutta la storia della Chiesa, anche attraverso l’elemento dell’esenzione e della giusta autonomia, fa riferimento esattamente a questa autorità del Papa sulla propria esperienza ecclesiale. E attraverso questo respira la stessa universalità, che a sua volta la Vita consacrata porta all’interno anche delle Chiese particolari in cui svolge il proprio compito.
A livello nazionale e regionale. Per poter dare il proprio contributo all’interno delle Chiese nazionali, la Vita consacrata deve essere ben articolata in se stessa. E qui le Conferenze dei superiori maggiori hanno un ruolo decisivo, perché la Vita consacrata sappia giocare la sua dimensione sinodale all’interno delle Chiese sia a livello regionale e sia a livello nazionale, consolidando la capacità interlocutoria con la Conferenza episcopale nazionale. Perché sia effettivamente un organismo di partecipazione sul territorio, di ascolto, di condivisione c’è la necessità di ripensare la rete dei superiori maggiori: ne va della capacità interlocutoria con la Conferenza Episcopale regionale e nazionale. Dal punto di vista della Conferenza episcopale italiana, credo all’importanza della Commissione mista tra vescovi e Vita consacrata, che deve essere davvero uno strumento di sinodalità così che le istanze della Vita consacrata siano presenti e poste all’attenzione della Conferenza episcopale italiana.
Anche a livello regionale è importante che ci sia un confronto stabile, una Commissione mista tra i vescovi delle diocesi di una determinata regione, mediante i Vicari episcopali o legati, soprattutto su alcuni punti chiave della relazione della Vita consacrata con la vita delle Chiese particolari.
A livello diocesano è di grande importanza il fattivo coinvolgimento della Vita consacrata negli organismi partecipativi diocesani che esprimono la sinodalità della Chiesa, di una determinata Chiesa particolare. Per dire l’importanza del coinvolgimento della Vita consacrata nella diocesi è sufficiente ricordare un passaggio decisivo di Apostolorum successores dove si dice: «Gli organismi consultivi diocesani riflettano adeguatamente la presenza della vita consacrata nella diocesi, nella varietà dei suoi carismi, stabilendo norme opportune al riguardo: disponendo, per esempio, che i membri degli Istituti partecipino secondo l’attività apostolica espletata da ciascuno, assicurando al tempo stesso una presenza dei diversi carismi. Nel caso del Consiglio presbiterale, va consentito ai sacerdoti elettori (religiosi e secolari) di scegliere liberamente membri di Istituti che li rappresentino». Nelle unità o comunità pastorali, nelle parrocchie con i rispettivi consigli non è opzionale che la Vita consacrata sia presente. La presenza e le opere degli Istituti di Vita consacrata devono essere sentiti come ricchezza essenziale per la Chiesa particolare. Credo che su questo la sinodalità debba ancora crescere. Accanto a belle esperienze di coesistenza e dialogo fecondo tra Istituti di Vita consacrata e Chiese locali, ci sono tra la giusta autonomia degli stessi Istituti religiosi e le diocesi, criticità e tensioni che devono essere affrontate per crescere tutti insieme nella coscienza ecclesiale.
MONS. PAOLO MARTINELLI