Martinelli Paolo
La Sinodalità interroga la Vita consacrata
2022/9, p. 1
In queste pagine – già immersi in quel cammino sinodale che sovrappone in una certa misura, sia per i tempi e sia per gli obiettivi, quello nazionale e quello universale – diamo spazio a una nostra riduzione dell’intervento su “Sinodalità e Vita consacrata”, che monsignor Paolo Martinelli, già vescovo ausiliare di Milano e vicario episcopale per la Vita consacrata, ha tenuto a Collevalenza. Nelle parole di fra Paolo – che il 1° maggio è stato nominato Vicario apostolico dell’Arabia del Sud, che comprende Emirati Arabi, Oman e Yemen – la sollecitazione a «mettersi in ascolto dello Spirito Santo, rimanendo aperti alle sorprese che certamente predisporrà per noi lungo il cammino». Solo così si potranno «raccogliere alcuni frutti di una conversione sinodale, che matureranno progressivamente».

Accedi alla tua area riservata per visualizzare i contenuti.

Questo contenuto è riservato agli abbonati a
Testimoni
.
La Sinodalità interroga la Vita consacrata
In queste pagine – già immersi in quel cammino sinodale che sovrappone in una certa misura, sia per i tempi e sia per gli obiettivi, quello nazionale e quello universale – diamo spazio a una nostra riduzione dell’intervento su “Sinodalità e Vita consacrata”, che monsignor Paolo Martinelli, già vescovo ausiliare di Milano e vicario episcopale per la Vita consacrata, ha tenuto a Collevalenza. Nelle parole di fra Paolo – che il 1° maggio è stato nominato Vicario apostolico dell’Arabia del Sud, che comprende Emirati Arabi, Oman e Yemen – la sollecitazione a «mettersi in ascolto dello Spirito Santo, rimanendo aperti alle sorprese che certamente predisporrà per noi lungo il cammino». Solo così si potranno «raccogliere alcuni frutti di una conversione sinodale, che matureranno progressivamente».
Il Sinodo ha questo titolo suggestivo, da riprendere nella sua triplice scansione: Per una Chiesa sinodale: comunione, partecipazione e missione. Tre termini, questi, che evidentemente aiutano a comprendere come l’attenzione sulla sinodalità e sullo stile sinodale della vita ecclesiale non è un ripiegamento della Chiesa su se stessa, ma è qualcosa che permette di esplicitare la Chiesa come soggetto di comunione nella partecipazione attiva di tutti i suoi membri, finalizzata alla sua missione.
Prima di entrare in merito ai tre passaggi che voglio proporvi, vorrei richiamare alcune frasi tratte dalla lettera della Congregazione per gli Istituti della Vita consacrata e le Società di Vita apostolica, dove si invita la Vita consacrata ad essere protagonista di questo percorso sinodale e a non stare a guardare al processo che è in atto, ma di sentirsi, in forza della propria vocazione, protagonista di questo cammino: «Sentitevi interpellati dalle tre parole che caratterizzano il tema del sinodo dei Vescovi sulla Chiesa sinodale: comunione, partecipazione e missione. Pregate, riflettete, confrontatevi e condividete le vostre esperienze, le vostre istituzioni e i vostri desideri. Fatelo con la libertà di chi sa che la sua fiducia è in Dio e per questo riesce a superare ogni timidezza, senso di inferiorità o peggio ancora di recriminazione e lamentela. Fatelo nella minorità, mossi dallo Spirito Santo», nella semplicità e nell’umiltà. Proponete alla vita ecclesiale – aggiungo io – quanto si sperimenta nelle nostre comunità. Credo, infatti, che abbiamo tutti gli elementi per lanciarci a pieno titolo nel cammino sinodale di tutta la Chiesa perché la Vita consacrata è storicamente la più grande esperta di sinodalità – pur con tutti i limiti e i difetti – appunto di partecipazione di tutti i membri alla gestione del proprio Istituto e alla missione che carismaticamente viene connotata. Entro nel primo punto.
Preziosa eredità conciliare
La parola sinodo ci fa venire in mente il Sinodo dei vescovi, che è stato istituito da papa Paolo VI con il motu proprio Apostolica sollicitudo il 15 settembre del 1965, nel corso della celebrazione del Concilio Vaticano II. Lui aveva pensato a un consiglio permanente dei vescovi per la Chiesa universale. I suoi scopi sono riassumibili in questi tre passaggi: promuovere la comunione episcopale, e cioè, favorire una stretta comunione tra il romano Pontefice e i vescovi; fornire al Vescovo di Roma l’aiuto nella missione di Pastore universale della Chiesa nella salvaguardia, nell’incremento della fede e dei costumi, come pure, nell’osservanza, nel consolidamento della disciplina ecclesiastica. E infine, un terzo elemento che si può evincere dalla lettera che lo istituisce, offrire al Papa un valido contributo nello studio dei problemi riguardanti l’attività della Chiesa nel mondo.
Papa Francesco, commemorando il cinquantesimo della sua istituzione, ha affermato che il Sinodo dei vescovi è una delle eredità più preziose del Concilio Vaticano II. E ricorda che per Paolo VI il Sinodo dei vescovi doveva riproporre l’immagine stessa del Concilio ecumenico e riflettere nello spirito il metodo. Lo tesso Papa Francesco afferma che il Sinodo dei vescovi è espressione della collegialità episcopale all’interno di una Chiesa tutta sinodale.
Qui si inizia a vedere questa dilatazione del significato della parola sinodo. In questo modo il Sinodo dei vescovi è uno strumento che esprime la Chiesa come mistero di comunione gerarchicamente ordinata, come afferma la costituzione conciliare Lumen gentium. La sinodalità – afferma Papa Francesco – è dimensione costitutiva della Chiesa, così che quello che il Signore ci chiede in un certo senso è già tutto contenuto nella parola sinodo. Pertanto, occorre comprendere bene il senso della parola, che richiama i contenuti più profondi della rivelazione. La parola sinodo, composta dalla preposizione syn/con e dal sostantivo odos/via, indica il cammino fatto insieme dal popolo di Dio, rinvia pertanto al Signore Gesù che presenta se stesso come la via, la verità e la vita. E di fatto i cristiani alla sua sequela sono in origine chiamati i discepoli della via.
Ancora è Papa Francesco che ricorda come per il grande padre della Chiesa, Giovanni Crisostomo, «Chiesa e Sinodo sono sinonimi». Ecco allora come si arriva a raccogliere il senso di questo approfondimento: dal Sinodo dei vescovi ad una Chiesa tutta sinodale, alla sinodalità e allo stile sinodale che deve informare le relazioni all’interno del popolo di Dio.
O è sinodale o non è Chiesa
In questa prospettiva – leggiamo nel documento della Commissione teologica internazionale sulla sinodalità nella vita e nella missione della Chiesa – «la sinodalità, in questo contesto ecclesiologico, indica lo specifico modus vivendi et operandi della Chiesa Popolo di Dio che manifesta e realizza in concreto il suo essere comunione nel camminare insieme, nel radunarsi in assemblea e nel partecipare attivamente di tutti i suoi membri alla sua missione evangelizzatrice». Anche il ministero gerarchico – si legge ancora – comprende se stesso in questa cornice di sinodalità. E pertanto deve comprendersi in profondo rapporto con tutte le membra del popolo di Dio che è popolo profetico – capitolo secondo della Lumen gentium – in quanto dotato del sensus fidei in forza del Battesimo.
Papa Francesco, nell’esortazione apostolica Evangelii gaudium (n. 20) ci ricorda che ciascun battezzato è un soggetto attivo di evangelizzazione: «tutti siamo invitati ad uscire dalla propria comodità e avere il coraggio di raggiungere tutte le periferie che hanno bisogno della luce del Vangelo». Sarebbe perciò manchevole pensare ad uno schema di evangelizzazione portato avanti da attori qualificati in cui il resto del popolo fosse solamente ricettivo. Per questo allora la sinodalità è la condizione per una evangelizzazione autentica che abbia come soggetto la communio ecclesiale, il nostro essere popolo santo di Dio.
In sintesi – anche qui sono espressioni di papa Francesco tratte dal discorso del 2015 – «una Chiesa sinodale è una Chiesa dell’ascolto, nella consapevolezza che ascoltare “è più che sentire”. È un ascolto reciproco in cui ciascuno ha qualcosa da imparare. Popolo fedele, Collegio episcopale, Vescovo di Roma: l’uno in ascolto degli altri; e tutti in ascolto dello Spirito Santo, lo “Spirito della verità”, per conoscere ciò che Egli “dice alle Chiese”».
Questo è il primo punto introduttivo che voleva mostrare la comprensione della sinodalità come implicazione decisiva della Chiesa come soggetto di comunione e di missione.
La Vita consacrata si realizza nella Chiesa particolare
Ma quali sono le condizioni perché la Vita consacrata possa contribuire alla sinodalità di tutto il popolo Santo di Dio?
Ebbene – è la prima condizione – essa deve esprimersi dentro le pieghe della vita della Chiesa nella sua universalità e nella sua determinazione particolare, quindi nella Chiesa locale. Poi c’è una seconda condizione della Vita consacrata che contribuisce alla sinodalità della Chiesa: essa afferma che i doni gerarchici e i doni carismatici sono “coessenziali” alla vita della Chiesa e che le due dimensioni concorrono insieme a rendere presente il mistero e l’opera salvifica di Cristo nel mondo.
Allora innanzitutto interroghiamo brevemente qualche pagina del Concilio Vaticano II dove si parla di questa immanenza della Vita consacrata all’interno della Chiesa. Fondamentale è Lumen gentium, n. 43: «I consigli evangelici della castità consacrata a Dio, della povertà e dell’obbedienza, essendo fondati sulle parole e sugli esempi del Signore e raccomandati dagli apostoli, dai Padri e dai dottori e pastori della Chiesa, sono un dono divino che la Chiesa ha ricevuto dal suo Signore e con la sua grazia sempre conserva». Questo passaggio è decisivo perché ci dice che i consigli evangelici, praticati nella forma della professione, sono un dono divino alla Chiesa e non all’Istituto. L’approfondimento di questo numero 43 avviene nel decreto conciliare sul rinnovamento della vita religiosa Perfectae caritatis: «I membri di qualsiasi istituto… sappiano di essere al servizio della Chiesa» (n. 5). Pertanto «amino fraternamente le membra di Cristo; con spirito filiale circondino di riverenza e di affetto i pastori; sempre più intensamente vivano e sentano con la Chiesa e si mettano a completo servizio della sua missione» (n. 6). È il famoso sentire cum Ecclesia che ai consacrati è richiesto in forza della loro vocazione che è dono dello Spirito fatto alla Chiesa.
Qui poi vorrei fare un approfondimento particolare grazie a un intervento che qualche anno fa fece Papa Francesco, quando nel 2017 a Genova parlò della diocesanità della Vita consacrata. «Più che una parola, la diocesanità è una dimensione della nostra vita di Chiesa, perché la diocesanità è quello che ci salva dall’astrazione, dal nominalismo, da una fede un po’ gnostica o soltanto che “vola per aria”… Tutti siamo inseriti nella diocesi. E questo ci aiuta affinché la nostra fede non sia teorica, ma sia pratica. E voi consacrate e consacrati, siete un regalo per la Chiesa, perché ogni carisma, ognuno dei carismi è un regalo per la Chiesa, per la Chiesa universale. Ma sempre è interessante vedere come ognuno dei carismi, tutti i carismi nascono in un posto concreto e molto legato alla vita di quella diocesi concreta… È bello fare memoria di come non ci sia carisma senza un’esperienza fondante concreta. E che abitualmente non è legata a una missione universale, ma a una diocesi, a un posto concreto. Poi si fa universale… E vivere intensamente il carisma è volere incarnarlo in un posto concreto… E questo ci insegna ad amare la gente dei posti concreti, amare gente concreta, avere ideali concreti: la concretezza la dà la diocesanità. La concretezza della Chiesa la dà la diocesanità».
MONS. PAOLO MARTINELLI