Appunti in corso d'opera
2022/9, p. 39
A neppure un anno dall’avvio del Cammino sinodale in Italia, ecco alcuni appunti sparsi, raccolti da un osservatorio quanto mai periferico, e non certo privilegiato. Offerti a mo’ di ringraziamento per l’abbondanza di doni che ho ricevuto nel corso degli anni dai cari padri dehoniani.
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Il cammino sinodale
Appunti in corso d’opera
A neppure un anno dall’avvio del Cammino sinodale in Italia, ecco alcuni appunti sparsi, raccolti da un osservatorio quanto mai periferico, e non certo privilegiato. Offerti a mo’ di ringraziamento per l’abbondanza di doni che ho ricevuto nel corso degli anni dai cari padri dehoniani.
Ouverture. Il Cammino sinodale, una non-notizia?
“L’avvenimento ecclesiale più importante e strategico dopo il Concilio Vaticano II”, lo definisce Piero Coda. Papa Francesco, che tanto ha insistito con la Chiesa italiana perché lo mettesse in agenda, lo considera decisivo per la vita e per la missione dei cristiani: “proprio il cammino della sinodalità è il cammino che Dio si aspetta dalla Chiesa del terzo millennio”. Un impegno, quello connesso al Cammino sinodale, va detto onestamente, da far tremare i polsi, pur limitandoci al versante organizzativo: ma anche, e vorrei dire soprattutto, un’occasione preziosa, da cogliere e sfruttare appieno, che avrà bisogno da parte di tutti noi di grande pazienza, grande capacità di ascolto e grande umiltà. Imparare ad agire sinodalmente, da parte di laici, presbiteri, vescovi, non è per nulla facile. Soprattutto per la disabitudine di tutte le componenti, al riguardo. Per orientarci, tra le mani abbiamo però, dal 2013, una bussola non ancora sperimentata a fondo, il testo di Evangelii gaudium, che il Papa ha scritto come mappa di una Chiesa capace di uscita. Eppure, a prima vista il Sinodo parrebbe una non-notizia: di Sinodo i media non hanno parlato, neppure tangenzialmente. Perché? Azzardo: non è che l’obiettivo non sia stato ancora chiarito a fondo? Varrebbe la pena di rifletterci…
La posta in gioco, peraltro, è davvero alta. Anche perché, almeno per ragioni anagrafiche, del prossimo cammino sinodale potrà sentirsi partecipe per l’ultima volta in un’esperienza ecclesiale di rilievo una generazione ancora in grado di fare riferimento al concilio Vaticano II con qualche cognizione di causa, avendone udito i racconti dai diretti protagonisti e respirato un po’ dell’atmosfera unica di quell’assise iniziata ormai quasi sei decenni fa. Una generazione che – forse – può essere ancora in grado di scaldarsi il cuore su temi (come le riforme ecclesiali) che alla stragrande maggioranza dei nostri giovani probabilmente appaiono a metà fra l’astruso e l’insensato: eppure, ovvio, il coinvolgimento di questi ultimi in qualche modo nel processo sinodale resta vitale.
L’adesione alla fede per tradizione ha i giorni contati
Ma c’è di più, ovviamente, a complicare il quadro. Lo sappiamo, è stato sufficiente un minuscolo virus a inceppare la macchina, mettendo in luce inconsistenze e squilibri che erano già in atto, a tutti i livelli della nostra vita, personale, familiare e sociale. E la macchina ecclesiale non ha certo fatto eccezione. Nel primo lockdown il granellino di sabbia detto Covid 19 ha interrotto la catena di trasmissione: ferme le celebrazioni, sospesi i catechismi, rinviate a data da destinarsi le somministrazioni dei sacramenti. Colpiti al cuore dell’anno liturgico, il triduo pasquale. Abbiamo provato la resistenza, e tentato la ripresa, rischiando peraltro la resa. Certo, appena c’è stato uno spiraglio, le parrocchie hanno recuperato le prime comunioni e le cresime arretrate, ripristinando la pastorale sacramentale: poco altro. Ma è difficile vedere oggi i ragazzi e i giovani alle nostre celebrazioni. Il virus si sta incaricando anche di questo, di fare da spazzino. Se è vero che un terzo non è più tornato a messa (a dispetto della fame di eucaristia proclamata da una certa retorica ecclesiale) significa che questa interruzione sta facendo verità: l’adesione alla fede per tradizione ha i giorni contati. Papa Francesco sostiene che “peggio di questa crisi c’è solo il dramma di sprecarla”.
Cammino sinodale, inaugurazione di una stagione nuova
È dunque, sebbene a caro prezzo, un tempo di grazia, la fine di un mondo e forse, se prendiamo sul serio questo tempo segnato dal Cammino sinodale, l’inaugurazione di una stagione nuova. Non tanto di una strategia nuova, ma di un nuovo cristianesimo e di una nuova Chiesa, niente di meno. Di una Chiesa messa alla prova non sulla tenuta delle sue strutture e dei suoi programmi, ma sulla sua capacità generativa. Sulla sua capacità di assumere in termini nuovi il compito che costituisce la sua identità: evangelizzare, rendere disponibile a tutti il vangelo del Regno di Dio.
Anche qui, seppure molto timidamente, siamo stati sorpresi. La Chiesa si è spostata nelle case e noi non l’avremmo mai fatto per nostra iniziativa. Non conta in quante, conta che sia avvenuto. Conta che in alcune case si sia allestito, durante il triduo pasquale, un tavolo con la parola di Dio aperta, un lume acceso, un pane spezzato, un calice di vino, un mazzo di fori. Conta che sia avvenuta una celebrazione domestica presieduta da una ministerialità familiare, laica, spesso femminile, che i riti abbiano ripreso posto nella vita e abbiano cominciato a sentirne il sapore. Ecco quanto non dovremmo più fare: sequestrare nuovamente le celebrazioni e tornare a chiuderle nelle nostre chiese, rendendole di nuovo esclusiva clericale, a dispetto del linguaggio della celebrazione comunitaria. Prendersi cura di quanto è appena sbocciato significa incoraggiare piccoli riti personali e familiari, riti di fede alla misura del tempo, dello spazio e del luogo di una famiglia normale. Da questa ritualità familiare riattivata potrà forse un giorno nascere il coraggio di fare quello che non faremo mai da soli: riaprire il dossier delle nostre intoccabili forme celebrative, perché i riti tornino a ospitare la vita e solo così liberino la loro potenza nel darle una forma nuova, redenta e salvata. Su questo punto è significativa la testimonianza di don Ivo Seghedoni, prete di Modena e mio collega all’Istituto di scienze religiose dell’Emilia, ma anche parroco di una grande parrocchia della città.
Don Ivo, camminando pensoso nella sua chiesa vuota una delle domeniche mattina del lockdown, annotava: “Non si trattava di girare pensierosi dentro una chiesa vuota, quanto piuttosto di rendersi conto che la Chiesa era da un’altra parte. Stavamo cercando tra i morti. Ciò che era vivo non era lì: non lo poteva essere, perché lì la sua presenza era preclusa, ma c’era. Era altrove. Era dentro le case dove le famiglie vivevano la preghiera domestica. E lo facevano attivando tutta una serie di azioni pastorali che, in chiesa, non sarebbero state possibili. Lo facevano creando uno spazio adatto dentro l’ambiente feriale, prendendosi un tempo contrattato tra i vari membri di casa secondo un orario scelto con libertà e non imposto dal negozio parrocchiale… offrendo ai giovani una testimonianza di una fede che non è fatta di osservanze stabilite, ma piuttosto di una scelta semplice, calda e bella, spoglia di rigidità e di abitudini… Abbiamo assaporato i primi timidi segni della nascita di una Chiesa radunata nelle case e raccolta insieme dagli strumenti che ora abbiamo a disposizione, sentendo il sapore buono di un pane che non ha la ricchezza e la solennità di quello benedetto nelle nostre curatissime eucarestie domenicali, ma che ha la fragranza e la schiettezza di quello condiviso in famiglia. Diverso, ma anch’esso nutriente e sufficiente a continuare il cammino”. Don Ivo conclude offrendo un’interpretazione positiva di quell’affermazione che forse un po’ ci spaventa: la fine della civiltà parrocchiale.
Questa fine non lascia il vuoto, ma è già in fioritura “l’aurora di una Chiesa che lascia lo spazio sacro”, “una Chiesa che non va in chiesa. O che non fa dell’andare in chiesa il suo distintivo. Il volto e la forma di una Chiesa che vive nelle case, di una Chiesa che si apre ad una nuova missionarietà”.
Alcune questioni (ineludibili)
Il ruolo della donna nella Chiesa
A questo punto intendo sottolineare alcune questioni che mi paiono ineludibili, sempre a mo’ di appunti, a cominciare – ma qui do solo il titolo, occorrerebbe molto tempo per riflettervi – dal ruolo della donna nella nostra Chiesa sempre assai maschilista: siamo in un ritardo tremendo, bisogna fare qualcosa, altrimenti, dopo la fuga delle quarantenni constatata da don Armando Matteo, avremo semplicemente la fuga delle donne tout-court, con riflessi che temo drammatici. Mi fermo qui, e non per carità di patria.
Necessità di un nuovo, più intenso e diverso slancio ecumenico
Seconda sottolineatura. Non capita spesso che si discuta pubblicamente, com’è successo nelle ultime settimane, di questioni ecumeniche. Lo si fa, naturalmente, sull’onda della catastrofe ucraina: con prese di posizione più o meno autorevoli, articoli di giornale e interventi in rete, in genere per denunciarne la profonda crisi. Talvolta, persino la conclamata inutilità se non la dannosità, visti gli esiti attuali. Su Repubblica qualche settimana fa è comparso un titolo definitivo (“La fine dell’ecumenismo”, a firma di Alberto Melloni, secondo cui a uscirne letteralmente in macerie sarebbe “quel desiderio di unità visibile che aveva percorso il cristianesimo da fine Ottocento”); ma non mancano tonalità ironiche o sarcastiche, ad esempio quando ci si sofferma a tratteggiare le trasparenti contraddizioni delle posizioni sostenute dal patriarca di Mosca, Kirill, con l’ideologia etnico-religiosa del Russkij mir (mondo russo). La cosa, a ben vedere, è singolare, se pensiamo al fatto che l’ecumenismo è considerato solitamente il parente povero delle discipline teologiche, com’è facile verificare analizzando i programmi di facoltà e istituti di scienze religiose. Ma anche all’investimento rarefatto al riguardo, da parte di Chiese locali e diocesi, salvo poche felici eccezioni. Lo evidenzio, si badi, non per accusare chicchessia di lesa maestà nei confronti del (faticoso) dialogo fra le chiese cristiane, ma per corroborare una tesi altra. Dovremmo semmai ripartire proprio dagli eventi di questi mesi, dal mancato incontro fra Kirill e papa Francesco a Gerusalemme, previsto per giugno e annullato per ovvi motivi, ma anche e soprattutto dalle ragioni della clamorosa frattura tra le chiese sorelle di Mosca e Costantinopoli, la Terza Roma e il Patriarcato ecumenico, che ha causato il dramma intraecclesiale in corso, il quale aggiunge ulteriore caos alla tragedia della guerra, ha il sapore amaro dello scisma interno e le cui radici vengono da lontano: per riflettere sulla necessità – agli occhi degli addetti ai lavori, sempre più evidente – di un nuovo, più intenso e diverso slancio ecumenico. Per intendere la portata della questione, è necessario rimarcare che si tratta di un tema cruciale per l’identità stessa della Chiesa. L’unità dei credenti in Cristo non è solo una delle fondamentali notes Ecclesiae nel primo credo cristiano stilato al concilio di Nicea nell’anno 325 (“Credo la Chiesa, una santa cattolica e apostolica”), infatti, ma anche il requisito decisivo in vista di una testimonianza credibile del vangelo nel tempo attuale che registra l’es-culturazione del cristianesimo dagli scenari culturali europei (C. Theobald). Come possiamo essere fratelli tutti – sulla linea dell’enciclica del 2020 di papa Francesco – se non ci sentiamo e non viviamo, noi cristiani delle varie confessioni, da fratelli e sorelle, pur essendo fondati sullo stesso battesimo e sullo stesso credo, nonché fiduciosi nella stessa parola di Gesù contenuta nelle stesse Scritture? Ecco perché l’ecumenismo dovrebbe finalmente uscire dagli scaffali degli specialisti per entrare stabilmente negli ordini del giorno dei consigli parrocchiali, dei movimenti ecclesiali, dell’attuale Cammino sinodale, di quella che si chiama(va) la pastorale ordinaria. Vasto programma, certo, ma anche indilazionabile.
Il sacerdozio comune di tutti i fedeli
Terza spigolatura, che riguarda il nostro linguaggio ecclesialese. Mi limito a un’annotazione, apparentemente marginale. Da tempo, infatti, ritengo fondamentale, in campo cattolico, abituarsi a utilizzare la parola presbitero, in relazione alla riflessione al riguardo tracciata dal concilio Vaticano II. In particolare, la stessa Lumen gentium se ne occupa nel capitolo 3, agli articoli 28 e 29. Qui il prete, nel testo originale latino, viene di solito chiamato presbyter (da cui deriva l’italiano prete), e solo in casi eccezionali, dove il contesto lo richieda, sacerdos. Da questo punto di vista, con ogni evidenza, il Concilio intende rendere onore al dato neotestamentario, che evita intenzionalmente la designazione del ministro della Chiesa come sacerdote. In precedenza, del resto, lo stesso documento, al capitolo 2, dopo una fondazione trinitaria dell’idea di popolo di Dio (articolo 9), nell’articolo 10 ne sviluppa la particolarità come sacerdozio regale, spiegando in proposito in modo sorprendente – si tratta della prima volta ufficiale da parte del magistero cattolico – il sacerdozio di tutti i battezzati. La formula corretta suona: il sacerdozio comune dei fedeli, derivato dall’unico sommo sacerdote, Cristo (come spiega abbondantemente, del resto, la Lettera agli Ebrei). Il termine Archiereus (sommo sacerdote) è riferito a Gesù Cristo nella stessa Lettera, in cui si afferma che il Figlio di Dio non ha voluto prendere forma dagli angeli, ma è stato “preso fra gli uomini, e costituito per il bene degli uomini” (5,1) per essere come uno di loro e potere capire, dall’interno della condivisione radicale, anche il loro patire. A sua volta il qualificativo sacerdotale o regno di sacerdoti è riferito a tutto il popolo cristiano in 1Pt 2,5 e 2,9, con citazioni esplicite e implicite di testi del Primo Testamento. Nelle Lettere paoline si riconosce una diversità di carismi/doni all’interno della comunità, e tra di essi c’è anche il governare (1Cor 12, 27-31).
Parimenti, nel configurarsi del linguaggio neotestamentario si vanno delineando tre tipi di figure, di cui nessuna ha caratteristiche sacerdotali: diaconi (servi), presbiteri (anziani), episcopi (che vegliano, sorvegliano).
Ecco perché in ambito cattolico, a conti fatti, si dovrebbe ricorrere alla parola prete o presbitero in quanto più precisa, circostanziata e neotestamentaria rispetto a sacerdote.
Necessità di uno sguardo nuovo sulla religione a scuola
Ultima nota. È impressionante la reticenza con cui, nel mondo cattolico, si riflette sulla situazione dell’ora di religione cattolica (tecnicamente, IRC) nelle scuole italiane. Meglio, potremmo dire non si riflette, per più di un motivo: paura di perdere un privilegio acquisito da tempo, scarsa volontà di aprire un contenzioso con lo Stato, sottovalutazione del calo progressivo di quanti aderiscono all’IRC, e potremmo continuare. Una questione che, peraltro, s’intreccia con altre delle quali, pure, ben poco (e male) si ragiona: dal dramma cronico dell’analfabetismo religioso all’amara constatazione di quanto pesi sulla fragile identità cattolica dei nostri connazionali l’assenza della conoscenza della Bibbia nei circuiti culturali, e non solo in quelli. Fino al relativo interesse con cui pensiamo al ruolo della scuola, conclusasi la stagione gloriosa dell’associazionismo cattolico di impegno pedagogico e didattico, di cui fanno fede la moria delle riviste specializzate e dell’editoria storica non meno che delle figure di riferimento. Quella scuola che, del resto, permane l’unico ambito sociale in cui sono destinati a transitare prima o poi tutti gli italiani, in veste di discenti, docenti o genitori… Per cogliere la necessità di uno sguardo nuovo sulla religione a scuola, basterebbe partire da un dato oggettivo: la revisione del Concordato fra Santa Sede e Repubblica italiana del 1984, quella che ha sancito l’attuale situazione dell’IRC, fu pensata e firmata in un contesto storico e culturale abissalmente distante da quello odierno, in cui – per dire – erano ancora in piedi il Muro di Berlino e le Twin Towers a New York, la secolarizzazione sembrava aver trionfato sul bisogno di sacro e con essa la sensazione che più modernità equivalesse a meno religione. Ora, al crollo simbolico e reale di quei muri si accompagna ciò che chiamiamo post-secolarizzazione, e la convinzione diffusa che con le religioni (al plurale) non si possa non fare i conti sul piano sociale e culturale, in un quadro di religiosità fluide, porose, post-moderne. A partire proprio da quel plurale, le religioni, che rappresenta lo scenario con cui è necessario confrontarsi per quanti intendano cogliere gli attuali segni dei tempi. Materia incandescente e delicatissima, ovvio, soprattutto in stagioni, quali la nostra, ricca di identitarismi e di sordità reciproche fra nuovi clericalismi e laicismi impenitenti, molto più che di dialogo e di ospitalità. Proprio per questo, peraltro, l’ambito scolastico sarebbe chiamato a un supplemento di responsabilità, pena il divenire lo spazio principe per strumentalizzazioni e banalizzazioni varie. Pensiamo, ad esempio, ad annose querelle che si ripresentano stancamente ogni anno, come presepe sì – presepe no e velo sì – velo no…
L’inatteso pluralismo che ci sta attraversando è infatti destinato a porre a dura prova la tradizionale ignoranza italiana in campo religioso, invitando l’universo della scuola e della formazione permanente a un impegno più serio e approfondito. Sarà impossibile, in ogni caso, continuare a considerare il fatto religioso come un elemento puramente individualistico o folkloristico, privo d’influssi culturali, economici e sociali. Come ogni novità, un panorama simile potrà provocare paure e indurre a chiusure intellettuali, e lo sta facendo, ma altresì stimolare ad un autentico salto di qualità, se sarà vissuta con la necessaria laicità (poiché la laicità aperta è il presupposto di ogni sano pluralismo). Ecco dunque, in Italia e in Europa, in negativo, i preoccupanti indizi di un risorgente antisemitismo, di un’islamofobia e di un antiziganismo montanti, di un’intolleranza crescente nei confronti dell’immigrazione dalle nazioni più povere, e così via. Ma anche segni di speranza e buone pratiche… Di fronte a tale scenario, in costante trasformazione, il sistema ipotizzato all’epoca dal Concordato Craxi-Casaroli appare oggi giocoforza inadeguato, complice di fatto non solo dell’odierno già ricordato stato di analfabetismo religioso ma anche dell’ignoranza quasi assoluta della Bibbia, Grande codice dell’immaginario occidentale. Cose sotto gli occhi di tutti, volendo essere intellettualmente onesti: del resto, visto che mi capita spesso di avere a che fare con docenti di IRC non di rado preparati, dotati di professionalità e disponibili al confronto con il cambiamento, ma anche consapevoli del disagio che essi stessi vivono quotidianamente, credo si tratti di una questione di sistema, non di persone né di programmi. Inevitabilmente, la loro è una materia dimezzata… ben al di là delle statistiche. Inoltre, il prima possibile, sarebbe importante sanare quell’increscioso vuoto culturale o insulto pedagogico, come è stato definito, creato dalla pressoché totale assenza di una qualche materia alternativa, che, per esclusiva competenza statale, dovrebbe comunque essere assicurata, nel curricolo degli alunni che non si avvalgono dell’offerta confessionale.
Compete al sistema scolastico il ruolo di alfabetizzare la totalità degli alunni sulle grandi aree dell’esperienza umana, compresa l’area dell’universale esperienza simbolico-religiosa, alla cui lettura critica si dedicano, con serietà di metodi e plausibilità di risultati, non poche scienze storiche, filologiche, ermeneutiche, teologiche. Mi pare evidente, in tale prospettiva, che l’aspetto della confessionalità dell’insegnamento religioso in Italia risulti anacronistico, a cominciare dalla stessa sua dizione, Insegnamento della religione cattolica, come se quella cattolica fosse una religione e non una confessione cristiana accanto alle altre. Così come il meccanismo attuale di scelta dei docenti, che registra il protagonismo dei vescovi ma sovente mette a disagio chi è coinvolto (per più di un motivo, essendo una gabbia insieme dorata e precaria). Sarebbe un segnale importante se la Conferenza Episcopale accettasse di ridiscuterlo con le autorità competenti, in un dibattito franco e aperto: ne guadagnerebbero i docenti di IRC, condannati a percepirsi necessariamente di serie B rispetto agli altri a dispetto dell’avvenuta messa in ruolo di diversi fra loro, ma anche gli studenti. Per non parlare del regime di facoltatività dell’insegnamento religioso, che fa acqua da ogni parte e non fa giustizia del legittimo diritto degli studenti italiani di ricevere dalla scuola, tutti nessuno escluso, una seria competenza sul Fattore R, elemento decisivo per capire le dinamiche storiche del mondo ma anche la condizione geopolitica odierna. Possiamo discuterne, finalmente, chissà, a margine dell’attuale Sinodo?
Per una metanoia ecclesiale
Tornare a pensare
Va detto, con doverosa parresìa, che, nel contesto del Cammino sinodale, sembrerebbe necessario mandare segnali al fine di superare le forme storiche del pensiero ereditate dal passato, se intendiamo stare (e risultare credibili) in tempi di pluralismo religioso. In questo “cambiamento d’epoca” (molto più che “epoca di cambiamenti”, come ama rimarcare papa Francesco) abbiamo dunque bisogno di un nuovo pensiero, dotato di immaginazione e fantasia e capace di andare oltre il modo ereditato di pensare: anche sul versante teologico. Un credere ospitale non è solo il futuro del dialogo interreligioso: è il suo oggi. Una teologia che guardi esclusivamente alla propria comunità religiosa, alle proprie necessità e – sia concesso - al proprio tornaconto si è trasformata in quel giorno un relitto della storia, un ferrovecchio inservibile, e un autogoal insopportabile. Anche perché, alla scuola di Raimon Panikkar, nel frattempo abbiamo appreso quanto sia necessario riconoscere non tanto le sfide, bensì le interpellanze poste dal fenomeno della multireligiosità in atto: stiamo, cioè, abbandonando la classica arena del conflitto tra modernità e religione, in cui valevano le regole delle sfide tra contendenti, decidendo piuttosto di abitare l’agorà di tutti, in cui le interpellanze di uno dovrebbero interessare anche l’altro, e chiamare alle responsabilità tutti.
In questo orizzonte, qui appena accennato, alle nostre latitudini (e nonostante la presenza e l’azione di un papa come Francesco) non sembra ancora darsi spazio per una reale teologia pubblica. E dovremmo domandarcene il motivo; o meglio, i motivi. Che sono tanti. Fra gli altri, mancanza di coraggio. Paura. Carenza di stimoli. Fatica e disabitudine a lavorare in rete. Un vizio di forma che viene da lontano: una sostanziale, perdurante clericalizzazione da funzionari di Dio (E. Drewermann) che tuttora affligge la teologia che viene fatta, studiata e insegnata nelle Facoltà teologiche e negli Istituti di Scienze Religiose, con rare e benemerite eccezioni. Eppure, lo spazio potrebbe esserci, e personalmente sono convinto si dia: oggi più di ieri. Stando all’analisi (convincente) del teologo francese Christian Duquoc, i teologi si troverebbero di fronte a un dilemma cruciale: essi non sono credibili se non hanno il coraggio di pensare da se stessi; ma essi non sono teologi se non grazie alla loro dipendenza dalla fede e alla loro fedeltà alla tradizione. La cultura moderna, e ancor più quella postmoderna, pone loro, dunque, una sfida inedita, che per troppo tempo è stata ignorata o ritenuta illusoria: ora è necessario onorarla, se i teologi stessi desiderano aver parte al dibattito pubblico in una democrazia di opinioni (diverse e plurali). La marginalizzazione, l’autoghettizzazione e l’esilio non sono necessariamente il destino ineluttabile della teologia. Del resto, Veritatis gaudium, la Costituzione apostolica circa le università e le facoltà ecclesiastiche di papa Francesco, resa pubblica il 29 gennaio 2018, va in questa direzione, quando ammette che “la teologia e la cultura d’ispirazione cristiana sono state all’altezza della loro missione quando hanno saputo vivere rischiosamente e con fedeltà sulla frontiera”.
Su tale linea, sarebbe necessaria una teologia che pretenda appunto di essere pubblica, che intenda stare pienamente nella storia, intercettare i segni dei tempi (Mt 16,3) di roncalliana memoria, un’esortazione che attraversa come un filo rosso l’insieme dei lavori conciliari, e dialogare senza paura con essi. Tanto per “rendere ragione della speranza che è in noi” (1 Pt 3,15), quanto per favorire la crescita e la maturazione di una Chiesa che, purtroppo, ha pressoché smesso di pensare collettivamente, di interrogarsi, di suggerire piste di ricerca. Di una Chiesa in cui traspare quotidianamente un enorme bisogno di operare per la crescita di un popolo di Dio più maturo, consapevole, preparato. Che oggi non c’è, né se ne intravvede la nascita, forse appena qualche timido vagito. Sarebbe utile interrogarsi sulle ragioni di tale situazione, collegabile con l’afonia di un’opinione pubblica ecclesiale (ma questo porterebbe troppo oltre i limiti della nostra riflessione). Ci si può limitare, perciò, a sottolineare come la crisi e la scomparsa di gloriose riviste storiche, il tonfo drammatico dell’editoria religiosa (e segnatamente quella cattolica), le oggettive difficoltà di tanti movimenti e associazioni, l’assenza di riflessione da parte di troppi istituti religiosi e missionari, l’arrancare di non poche facoltà teologiche, appaiono delle con-cause di uno scenario complessivamente mortificante, rispetto al quale si potrebbe utilmente riandare a un Giorgio Gaber d’annata: “E pensare che c’era il pensiero” (disco live, a suo modo profetico, del 1994). E recuperare il già citato, e troppo presto dimenticato, discorso fiorentino di papa Francesco del 10 novembre 2015, quando – nel quadro del quinto Convegno della Chiesa italiana – sostenne che “davanti ai mali o ai problemi della Chiesa è inutile cercare soluzioni in conservatorismi e fondamentalismi, nella restaurazione di condotte e forme superate che neppure culturalmente hanno capacità di essere significative”. Occorre coraggio. Un coraggio che, anche in una stagione segnata da maggiore libertà teologica rispetto a qualche tempo fa, ancora non si scorge.
Tornare a immaginare
Sarà necessario, al riguardo, attrezzarsi con una teologia inquieta, consapevole di essere incompleta eppure capace di immaginazione: queste le tre parole chiave consegnate da papa Francesco alla redazione de La Civiltà Cattolica il 9 febbraio 2017, in vista di un servizio capace di “possedere lo sguardo di Cristo sul mondo, di trasmetterlo e testimoniarlo”. Perché “la sapienza del discernimento riscatta la necessaria ambiguità della vita. Ma bisogna penetrare l’ambiguità, bisogna entrarci, come ha fatto il Signore Gesù assumendo la nostra carne. Il pensiero rigido non è divino perché Gesù ha assunto la nostra carne che non è rigida se non nel momento della morte”. Tornando a immaginare… come spiega magistralmente Timothy Radcliffe in Accendere l’immaginazione, per il quale “il cristianesimo farà ardere il cuore delle persone, come avvenne ai discepoli di Emmaus, solo se vi vedranno non un codice morale bensì un vibrante stile di vita”. Perché “la vita spirituale non è un gradevole modo di recuperare la calma al termine di una giornata sovraccarica, l’equivalente religioso di un aperitivo. È immergersi nell’inebriante atmosfera di Dio”.
Tornare ad ascoltare
Papa Francesco, nell’Evangelii gaudium, rivolge ai lettori un invito diretto: “Abbiamo bisogno di esercitarci nell’arte di ascoltare, che è più di sentire. La prima cosa, nella comunicazione con l’altro, è la capacità del cuore che rende possibile la prossimità, senza la quale non esiste un vero incontro spirituale”. L’ascolto “ci aiuta a individuare il gesto e la parola opportuna che ci smuove dalla tranquilla condizione di spettatori”. E “solo a partire da questo ascolto rispettoso e capace di compatire si possono trovare le vie per un’autentica crescita, si può risvegliare il desiderio dell’ideale cristiano, l’ansia di rispondere pienamente all’amore di Dio e l’anelito di sviluppare il meglio di quanto Dio ha seminato nella propria vita” (n.171).
Per il dialogo, l’esercizio dell’ascolto è davvero essenziale: ma ascoltare è far tacere le voci dentro di sé, è mettere tra parentesi ciò che si sa dell’altro… e di se stessi, creando in sé uno spazio vuoto, un desiderio e un’attesa dell’altro. In effetti, se mi metto veramente all’ascolto del mio interlocutore, se lo prendo sul serio e cerco realmente di mettermi al suo posto e di vedere il mondo come lui lo vede, la mia prospettiva cambia e posso integrare realtà più numerose e più variegate nella mia visione delle cose, che in tal modo si affina.
Il dialogo – e il Cammino sinodale, di conseguenza – non può che prendere le mosse da una lettura em-patica e non pregiudiziale dell’altro: cosa che non capita troppo spesso. Purtroppo. Non siamo abituati ad ascoltarlo, l’altro. Non siamo più abituati ad ascoltare in generale, per la verità, per la marea di rumori, brusii, avvertimenti sonori nei quali siamo quotidianamente immersi. Non siamo abituati ad ascoltare né Dio, né gli uomini, né la voce della terra; e nemmeno noi stessi, alla fine. Certo, non ascoltare la voce di Dio è particolarmente grave, in un prospetto di dialogo interreligioso. Che non è mai unilaterale, né solo bilaterale (= io-tu), ma è tridimensionale. Dio, il divino, l’Assoluto è il terzo e decisivo partner del dialogo: è il Maestro interiore di ogni interlocutore, e l’approdo definitivo cui mira ogni ricerca religiosa autentica. A dar retta alla parola biblica, ascoltare significa riconoscere che la voce dell’altro – invece – non è un rumore fra i tanti, ma la rivelazione di un io. La più profonda verità della Bibbia, probabilmente, è appunto che l’altro esiste, è di fronte a noi, e ci chiede di essere riconosciuto come persona, irripetibile nella sua storia unica e nelle sue potenzialità di amare: perché egli è perduto per noi, e noi per lui, se fra noi manca la parola, il dialogo o l’ascolto vicendevole.
Finalino
Mi torna in mente, per (non) concludere, la considerazione di un vescovo francese di vent’anni fa, Albert Rouet, autore del bestseller La chance di un cristianesimo fragile, fatta a un giornalista che chiedeva cosa la Chiesa dovrebbe fare per poter essere meglio accolta nell’attuale congiuntura culturale, con cui indicava con franchezza evangelica il suo sogno: “Rispondo alla domanda con un’utopia. Vorrei una Chiesa che osa mostrare la sua fragilità. A volte la Chiesa dà l’impressione di non aver bisogno di nulla e che gli uomini non abbiano nulla da darle. Desidererei una Chiesa che si metta al livello dell’uomo senza nascondere che è fragile, che non sa tutto e che anch’essa si pone degli interrogativi”. Del resto, i modelli e i codici comportamentali ai quali ci si poteva conformare con tranquillità e che potevano essere scelti come punti di riferimento fino a pochi anni fa per la costruzione di un’identità ecclesiale da conseguirsi una volta per tutte, non esistono più. Caducità, friabilità, provvisorietà sono i nomi della fragilità anche dei soggetti collettivi (la coppia, la famiglia, le organizzazioni, i partiti politici, le istituzioni in genere, comprese le chiese e le comunità religiose). Interruzione, incoerenza, sorpresa sono le normali condizioni della nostra vita. Con cui l’imminente processo sinodale sarà chiamato a scontrarsi, bagnandosi di realtà. Abitare la fragilità, come ci siamo abituati a ripetere durante la pandemia, significa soprattutto accettare la sfida insita in questo tempo di permanente transizione eletta a orizzonte vitale; capire e amare questa condizione con le potenzialità e le risorse nuove che porta con sé, accettando che sia finita un’epoca e che la nostra condizione sia pressoché irriconoscibile rispetto alle forme ereditate dal passato, persino recente. Senza alcuna certezza da vantare. La crisi pandemica, del resto, come accennavo, non ha fatto altro che accelerare dinamiche già evidenti (dalla penuria di presbiteri alla crisi degli istituti religiosi, dalla situazione mortificante di tante parrocchie alla frustrazione di chi si occupa della trasmissione generazionale della fede), che vanno ben al di là di una pura e impietosa lettura delle cifre.
Potrebbe altresì rivelarsi un kairòs, un tempo di straordinarie e sorprendenti opportunità, se ci crederemo e ci investiremo energia e passione. Se prevarrà la realtà. “La realtà è superiore all’idea” è uno dei principi che – com’è noto - guidano il pensiero di papa Francesco. Il quale ne parla, per la prima volta, nell’Evangelii gaudium, al numero 231, mentre affronta gli obiettivi, a lui particolarmente cari, del bene comune e della pace sociale, inserendolo fra i criteri per un discernimento di scelte capaci di favorire un’ordinata vita sociale ed ecclesiale: “La realtà semplicemente è, l’idea si elabora. Tra le due si deve instaurare un dialogo costante, evitando che l’idea finisca per separarsi dalla realtà”. L’invito, perciò, è a vigilare attentamente su quelle forme di idealismo che – pur talvolta generose e mosse da buone intenzioni, ma non per questo innocue – rischiano di mortificare il reale. Che deve penetrare nel tessuto del processo sinodale!
Anche perché, come si legge nella Mishnà, trattato Pirkè Avot in un detto attribuito a rabbi Tarfòn: “La giornata è corta e il lavoro è tanto; gli operai sono pigri, il compenso è abbondante e il padrone di casa incalza. Ma non è tuo il compito di completare l’opera, né sei libero di esentartene”. Se c’è un tempo per ogni cosa, questo è il tempo per non esentarsi dal tentare l’opera e dal sentirsene partecipi. Se non ora, quando?
BRUNETTO SALVARANI