Oltre i modelli ereditati
2022/9, p. 26
Siamo in una nuova epoca mentale, che ha segnato molti passi avanti in campo antropologico, sociologico, teologico e se non si entra nel processo della vita che è cambiamento, evoluzione, anche le esperienze più belle si affievoliscono,
le iniziative più generose si irrigidiscono, i carismi dei fondatori perdono il passo.
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Testimoni
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PER UNA VC PROMOTRICE DI DINAMISMI
Oltre i modelli ereditati
Siamo in una nuova epoca mentale, che ha segnato molti passi avanti in campo antropologico, sociologico, teologico e se non si entra nel processo della vita che è cambiamento, evoluzione, anche le esperienze più belle si affievoliscono, le iniziative più generose si irrigidiscono, i carismi dei fondatori perdono il passo.
«Chi si accontenterà del sopravvivere, lasciando scorrere le cose, non verrà perdonato». Lo scriveva tanti anni fa il teologo Ronald Knox, intendendo dire che, in ogni campo, l’«usato sicuro» è solo un «rattoppo», e che «il futuro non è la replica consunta di quanto abbiamo vissuto».
Da qui il chiedersi: di che cosa ha bisogno la VC per poter essere, oggi, promotrice di dinamismi generativi? Si tratta ora di ripensarne la figura, non per rinchiuderci e riconfermare stili già acquisiti ma per allargare possibilità di vita, uscendo dalle strettoie storico-giuridiche che essa stessa si è imposte.
Siamo in una nuova epoca mentale, che ha segnato molti passi avanti in campo antropologico, sociologico, teologico e nello stesso tempo sta facendoci capire che se non si entra nel processo della vita che è cambiamento, evoluzione, anche le esperienze più belle si affievoliscono, le iniziative più generose si irrigidiscono, i carismi dei fondatori perdono il passo. Tutto questo viene a dire che ogni obiettivo ha significatività se accetta da subito di essere perennemente evolutivo: concetto questo che si trova anche nelle parole del Papa: «La vita carismatica della Chiesa, invece di esaurirsi trova (deve trovare) costantemente nuove forme», perché la sua vera identità è data dall’esito di uno sviluppo che non si compie una volta per sempre, non capirlo significa non generare il futuro. Allora che cosa fare per ridonarle la sua attrattiva, la sua bellezza umana e spirituale, quella che crea gioia nel vivere e nel donarsi?
È tempo di «esodo» che comporta il passare da … a …
… dalla «terra posseduta» alla «terra promessa»
Alle origini del cristianismo, dopo la dispersione dei primi cristiani, (35 d.C.), avvenne ciò che Cassiano (IV sec.) mette sulle labbra dell’abate Piamone: «La folla dei credenti cominciò a raffreddarsi … coloro in cui bruciava ancora la fiamma dei tempi apostolici … abbandonarono le città e si misero a praticare per proprio conto quanto ricordavano essere stato posto per tutto il corpo della Chiesa di Dio».
Se le comunità religiose possono appellarsi a questi inizi, sembra poter dire che la VC è nata come nostalgia e riproposta a tutti, e non solo ad alcuni, di essere Chiesa dai tratti trasparentemente evangelici.
Ma successivamente, sulla spinta della spiritualità di allora, la religiosità di alcuni gruppi si è portata ad essere di tipo particolare, assumendo così un profilo monastico che della «sequela» ne ha fatto un suo privilegio esclusivo e quindi escludente. Ad esempio, si pensava che fosse proprio la vita religiosa a garantire la salvezza eterna individuale. Idea «che ha facilitato lo sfociare nella scelta di un Dio privato, con il quale stabilire un rapporto privilegiato che può portare – e di fatto ha portato - a far ripiegare su se stessi»,«finendo spesso con il curarsi, invece di prendersi cura». Era il tempo in cui l’ascetica dolorifica andava a definire la santità, in particolare quella del religioso (monaco), con l’essere equiparata al «martirio», che Ignazio di Antiochia aveva celebrato come ideale della perfezione cristiana. Da questi elementi di una antropologia della negazione, al dire che gloria di Dio è la negazione di sé (contemptus sui), il passo è stato breve. Per secoli, è stato questo a caratterizzare l’humus della «terra posseduta», ma oggi, tempo della “terra promessa”, nella vita discepolare non si può intendere soltanto la salvezza ultima dell’anima senza avere davanti agli occhi la salvezza di tutto l’uomo, già fin d’ora. Ne consegue che oggi con il termine «vocazione» si intende quella forma di vita evangelica che viene percepita come ricerca di quello a cui porta il desiderio di assumere l’attitudine di Gesù guarente, sanante, amante della vita, amico degli sconfitti e degli emarginati. Una scelta dunque fatta da gente che sa cogliere i sogni che aveva Gesù, dando spazio, con il proprio “essere e fare”, a una chiara e trasparente espressione della forza liberatrice di Cristo, trasparenza esemplare, dell’amore che rende colma e bella la vita; vocazione che da passione per Cristo, si fa anche passione per l'uomo giocata ai fini della salvezza, dentro la storia degli uomini e non estranea ad essa. Da qui il dire di Fr. M.Davide: come religiosi «allora non possiamo lasciarci paralizzare dai pericoli, ma dinamizzare dagli appelli della storia, cercando un difficile equilibrio tra ciò che abbiamo già collaudato e ciò che dobbiamo ancora collaudare accettando di muoverci tra provvisorietà, sperimentazione e autenticità con coraggio e audacia… Non per arrampicarci verso la perfezione del cielo ma per scendere e impastare il desiderio di Dio con la condivisione della vita di tutti».
… dal tempo in cui l’uomo era fatto per il «sabato»,
al tempo in cui il «sabato» è fatto per l’uomo
Per Cristo «non erano degli assoluti i carichi religiosi, ma aveva valore assoluto la persona, la sua dignità di essere libero e liberamente aperto alla verità e al bene».
Da qui la domanda: quante sono ancora le strutture non comunicative, centralistiche e gerarchiche che pongono la vita religiosa in un contrasto del tutto inutile con la cultura giuridica contemporanea?
Ciò che funzionava in un ambiente relazionale di tipo piramidale e autoritario non è più desiderabile nella sensibilità di comunione.
Il punto da cui partire – sembra dire Gesù – è quello di capovolgere il modo di essere “primi” passando dal dominare al servire, espresso attraverso il favorire le condizioni in cui siano riconosciuti i doni e le qualità delle persone, a partire dalla loro umanità. Allora, avere autorità è alla fine servire le capacità degli uni e degli altri, gestire il rapporto tra unità e pluralità e rispondere diversamente alla tensione tra libertà personale e dipendenza istituzionale, il tutto in funzione della crescita di ogni membro. Persone per le quali autorizzare non significhi solo “concedere” ma rendere ognuno in qualche modo “autore”.
… da una teologia univoca
ad una pluralità e flessibilità di indirizzo
La VC lungo i secoli si è sempre incarnata nei contesti culturali di volta in volta segnati dall’evoluzione della storia, per questo si può far credito al teologo J. Aubry quando afferma «che non è mai esistita una teologia globale della VC: si sono succedute delle teologie, di più o meno ampio respiro e successo». Infatti tutte le ideologie umane che vengono da epoche lontane sono inevitabilmente miopi, perché focalizzate al tempo che le ha fatte nascere.
Si può dunque convenire che le diversità vissute nella vita religiosa non sono dovute ad un elemento teologico che le differenzi dalle altre, ma a fattori diversi, quanto differenti sono i tempi entro cui è andata sviluppandosi.
Allora alla vita religiosa, per essere trovata credibile e desiderabile serve una teologia che per essere in armonia con la vita, dev’essere espressa con modelli evangelici che interpellino l’uomo contemporaneo, con la proposta di inediti schemi non «sigillati», aperti a Dio, al mondo, alla storia, prendendo le distanze da se stessa, da un certo stile, da un determinato linguaggio, da un dogmatico quanto inattuale universo concettuale. Da qui la necessità che nella VC ci sia gente che interrogata dal presente, sia generatrice di nuove consapevolezze che spingono a rischiare i passi su strade non ancora percorse. È ciò che fece, già nel tredicesimo secolo, Francesco d’Assisi il quale, partendo dal fatto che il “valore” è la vita fraterna, e il “come” ne è solo la “forma”, scelse come sfida evangelica non quella di difendersi dal mondo, ma di abitarlo con il dare maggior spessore al «convenire» (da cui “conventus”), piuttosto che alla residenzialità di tipo totalizzante, e così i suoi luoghi divennero le città, le strade e le piazze, dove la povertà, ad esempio, non fosse letta come una semplice ascesi personale ma come solidarietà storica con l’umanità, specie la più fragile.
… dal che cosa serve a sé,
a che cosa apporta alla vita degli altri
Il religioso – affermava Giovanni Paolo II – è esemplare non perché il suo stato di vita sia più ammirevole di qualunque altro stato di vita cristiana, ma perché nella sua esistenza può emergere più chiaramente e in modo più diretto quello che è il senso di ogni vita cristiana». La VC – scrive il biblista B. Maggioni – si inserisce allora dentro il discepolato, a cui tutti sono chiamati, distinguendosene non per la sottolineatura di questo o quel particolare, ma per una propria concentrazione del “centro” dell’intero Vangelo.
Si tratta allora di costruire comunità in diaspora la cui prima caratteristica, in quanto missionarie, non sia di essere orientate a se stesse, tendenti a costruire una società nella società, ma disperse nel mondo per poter essere trasparente annuncio di un nuovo tipo di società fraterna ed egualitaria. «Solo così ha potuto nascere una Chiesa capace di arrivare in tutti gli angoli della terra, perché le sue “Colonne” erano state formate all’arte della strada. Però nel corso del tempo è quasi inevitabile che il calore della casa vinca sul freddo della strada e così, poco alla volta si passa da comunità fatte di annunciatori a comunità di consumatori di beni spirituali e talvolta questo consumo interno diventa così importante da non sentire più il freddo di coloro che stanno lungo la strada».
Ne consegue che la vita religiosa «saprà far emergere la parte più autentica che è in lei, quando rinuncerà a marcare la separazione e le differenze per assumere stili che uniscano le persone al fine di poter condividere gli stessi sogni e le stesse seti.
«È tempo – scrive p. R. Règamey – di dissipare i malintesi che hanno potuto fare dei religiosi una casta di “perfetti” (…) perché quello che più importa è rispondere alla chiamata di Dio e di colmare l’intera misura da lui assegnata, qualunque essa sia».
Quanto fin qui espresso potrebbe essere sintetizzato così: «la VC non è un’altra via rispetto a quella dei cristiani comuni, è una memoria radicale della vocazione comune, di cui i religiosi si impegnano a diventare testimoni qualificati dinanzi alla distratta mentalità generale».
RINO COZZA CSJ