Un viaggio penitenziale
2022/9, p. 1
“Sono venuto in spirito penitenziale, per esprimervi il dolore che portiamo nel cuore come Chiesa per il male che non pochi cattolici vi hanno arrecato. Sono venuto come pellegrino, perché si vada avanti a seminare speranza per le future generazioni
che desiderano vivere insieme fraternamente, in armonia”.
Accedi alla tua area riservata per visualizzare i contenuti.
Questo contenuto è riservato agli abbonati a
Testimoni
.
IL PAPA IN CANADA
Un viaggio penitenziale
“Sono venuto in spirito penitenziale, per esprimervi il dolore che portiamo nel cuore come Chiesa per il male che non pochi cattolici vi hanno arrecato. Sono venuto come pellegrino, perché si vada avanti a seminare speranza per le future generazioni che desiderano vivere insieme fraternamente, in armonia”.
Papa Francesco si è presentato in Canada con un atteggiamento penitenziale, e con una pacata invettiva contro le “politiche di assimilazione” che hanno seminato ingiustizia e cicatrici difficili da rimarginare. Soprattutto papa Francesco ha detto in maniera chiara e inequivocabile che la richiesta di perdono non è un punto di arrivo bensì un punto di partenza per costruire relazioni nuove. E pur rilevando che tanta buona volontà poteva sinceramente esserci in quei tempi, tuttavia le modalità di evangelizzazione si sono dimostrate profondamente sbagliate.
Sull’aereo, nel viaggio di ritorno, ha parlato di “genocidio” in riferimento al trattamento inflitto ai minori della parte indigena della popolazione nell’Ottocento e nel Novecento.
Al di là dei gesti immortalati da tv e fotografi – il copricapo tradizionale indossato, la mano baciata dell’anziana all’arrivo a Edmonton, le danze, gli atteggiamenti e le posture verso gli altri – la sostanza dei primi giorni ha visto papa Francesco spingersi molto avanti nel riconoscimento delle ingiustizie.
“Sebbene la carità cristiana fosse presente e vi fossero non pochi casi esemplari di dedizione per i bambini, le conseguenze complessive delle politiche legate alle scuole residenziali sono state catastrofiche. Quello che la fede cristiana ci dice è che si è trattato di un errore devastante, incompatibile con il Vangelo di Gesù Cristo. Addolora sapere che quel terreno compatto di valori, lingua e cultura, che ha conferito alle vostre popolazioni un genuino senso di identità, addolora sapere che è stato eroso, e che voi continuiate a pagarne gli effetti. Di fronte a questo male che indigna, la Chiesa si inginocchia dinanzi a Dio e implora il perdono per i peccati dei suoi figli”.
Ed ha aggiunto: “Cari fratelli e sorelle, molti di voi e dei vostri rappresentanti hanno affermato che le scuse non sono un punto di arrivo. Concordo perfettamente: costituiscono solo il primo passo, il punto di partenza. Sono anch’io consapevole che, «guardando al passato, non sarà mai abbastanza ciò che si fa per chiedere perdono e cercare di riparare il danno causato» e che, «guardando al futuro, non sarà mai poco tutto ciò che si fa per dar vita a una cultura capace di evitare che tali situazioni non solo non si ripetano, ma non trovino spazio» (Lettera al Popolo di Dio, 20 agosto 2018). Una parte importante di questo processo è condurre una seria ricerca della verità sul passato e aiutare i sopravvissuti delle scuole residenziali a intraprendere percorsi di guarigione dai traumi subiti”.
A Edmonton, prima tappa del viaggio, papa Francesco è andato più avanti. “Mi ferisce pensare che dei cattolici abbiano contribuito alle politiche di assimilazione e affrancamento che veicolavano un senso di inferiorità, derubando comunità e persone delle loro identità culturali e spirituali, recidendo le loro radici e alimentando atteggiamenti pregiudizievoli e discriminatori, e che ciò sia stato fatto anche in nome di un’educazione che si supponeva cristiana. L’educazione deve partire sempre dal rispetto e dalla promozione dei talenti che già ci sono nelle persone. Non è e non può mai essere qualcosa di preconfezionato da imporre, perché educare è l’avventura di esplorare e scoprire insieme il mistero della vita”.
Due idee
per la Chiesa del futuro
E il Papa ha messo a fuoco due idee per immaginare la Chiesa del futuro, dimostrando di avere imparato la lezione del passato. Primo: “Ecco una casa per tutti, aperta e inclusiva, così come dev’essere la Chiesa, famiglia dei figli di Dio dove l’ospitalità e l’accoglienza, valori tipici della cultura indigena, sono essenziali: dove ognuno deve sentirsi benvenuto, indipendentemente dalle vicende trascorse e dalle circostanze di vita individuali”.
Secondo: la Chiesa “è il luogo dove si smette di pensarsi come individui per riconoscersi fratelli guardandosi negli occhi, accogliendo le storie e la cultura dell’altro, lasciando che la mistica dell’insieme, tanto gradita allo Spirito Santo, favorisca la guarigione della memoria ferita”. Questa è la via: “non decidere per gli altri, non incasellare tutti all’interno di schemi prestabiliti, ma mettersi davanti al Crocifisso e davanti al fratello per imparare a camminare insieme. Questa è la Chiesa e questo sia: il luogo dove la realtà è sempre superiore all’idea. Questa è la Chiesa e questo sia: non un insieme di idee e precetti da inculcare alla gente, ma una casa accogliente per tutti! Questo è la Chiesa e questo sia: un tempio con le porte sempre aperte dove tutti noi, templi vivi dello Spirito, ci incontriamo, ci serviamo e ci riconciliamo”.
Dopo le richieste di perdono, Papa Francesco è passato alla parte propositiva del suo discorso incontrando il Corpo diplomatico e le maggiori autorità politiche e sociali canadesi. Un discorso importante, che ha preso avvio da una riflessione che lega il passato all’oggi.
“Se un tempo la mentalità colonialista trascurò la vita concreta della gente, imponendo modelli culturali prestabiliti, anche oggi non mancano colonizzazioni ideologiche che contrastano la realtà dell’esistenza, soffocano il naturale attaccamento ai valori dei popoli, tentando di sradicarne le tradizioni, la storia e i legami religiosi”.
Si arriva così ad una “cancel culture” che “valuta il passato solo in base a certe categorie attuali”. Si fa spazio “una moda culturale che uniforma, rende tutto uguale, non tollera differenze”, si concentra solo sul presente, “sui bisogni e sui diritti degli individui, trascurando spesso i doveri nei riguardi dei più deboli”. I poveri, i migranti, gli anziani, gli ammalati, i nascituri, sono “dimenticati nelle società del benessere” e scartati “nell’indifferenza generale”.
È necessario attingere dalle tradizioni culturali, nel senso più autentico del termine. E papa Francesco, per esprimere compiutamente il suo pensiero, ha fatto riferimento alla foglia d’acero, simbolo del Canada, che è sulla bandiera nazionale. Gli alberi d’acero, che sono diventati simbolo del Paese, con le loro “ricche chiome multicolori” ricordano “l’importanza dell’insieme, di portare avanti comunità umane non omologatrici, ma realmente aperte e inclusive. E come ogni foglia è fondamentale per arricchire le fronde, così ogni famiglia, cellula essenziale della società, va valorizzata”.
Infine è importante citare la “dedica” scritta da papa Francesco sul “Libro d’onore” a Quebec City: “Pellegrino in Canada, terra che va da mare a mare, chiedo a Dio che questo grande Paese sia sempre d’esempio nel costruire il futuro custodendo e valorizzando le radici, in particolare le popolazioni indigene, e nell’essere casa accogliente per tutti”.
Nell’omelia della Messa del 28 luglio nel Santuario Nazionale di Sainte Anne de Beaupré, riflettendo sul Vangelo di Emmaus, papa Francesco ha esortato i fedeli a non disperare e seguire sempre Gesù. Al centro non devono esserci i nostri fallimenti e la tentazione della fuga ma piuttosto una spinta a fare sempre meglio nel seguire il Vangelo.
Nell’arcivescovado di Québec, incontrando una delegazione di nativi, ha avuto di nuovo parole toccanti, ripetute poi anche a Iqalit, nel nord Artico. “Non sono venuto come turista, sono venuto come fratello, a scoprire in prima persona i frutti buoni e cattivi, prodotti dai membri della famiglia cattolica locale nel corso degli anni. Sono venuto in spirito penitenziale, per esprimervi il dolore che portiamo nel cuore come Chiesa per il male che non pochi cattolici vi hanno arrecato appoggiando politiche oppressive e ingiuste nei vostri riguardi. Sono venuto come pellegrino, con le mie limitate possibilità fisiche, […] perché si vada avanti a seminare speranza per le future generazioni di indigeni e di non indigeni, che desiderano vivere insieme fraternamente, in armonia. […] Davvero posso dire che, mentre vi ho fatto visita, sono state le vostre realtà, le realtà indigene di questa terra, a visitare il mio animo: mi sono entrate dentro e mi accompagneranno sempre. Oso dire, se me lo permettete, che ora, in un certo senso, mi sento anch’io parte della vostra famiglia, e ne sono onorato”.
Secolarizzazione
e secolarismo
Molto importante la riflessione su secolarizzazione e secolarismo, incontrando la Chiesa locale – sacerdoti, religiosi e religiose, diaconi – sempre a Québec. La secolarizzazione lascia Dio sullo sfondo, ha notato il Papa. Tuttavia “ci sono due sguardi possibili nei confronti del mondo in cui viviamo: uno lo chiamerei ‘sguardo negativo; l’altro ‘sguardo che discerne’”. Qui il Papa ha esplicitamente fatto riferimento alla “Evangelii Nuntiandi” di Paolo VI e ai lavori del sociologo canadese Charles Taylor. In particolare papa Francesco ha sottolineato che “la secolarizzazione è «lo sforzo in sé giusto e legittimo, per nulla incompatibile con la fede o con la religione» (Esort. ap. Evangelii nuntiandi, 55), di scoprire le leggi della realtà e della stessa vita umana poste dal Creatore. Infatti, Dio non ci vuole schiavi, ma figli, non vuole decidere al posto nostro, né opprimerci con un potere sacrale in un mondo governato da leggi religiose. No, Egli ci ha creati liberi e ci chiede di essere persone adulte, persone responsabili nella vita e nella società.
Altra cosa – distingueva San Paolo VI – è il secolarismo, una concezione di vita che separa totalmente dal legame con il Creatore, cosicché Dio diventa superfluo e ingombrante e si generano nuove forme di ateismo subdole e svariate: la civiltà dei consumi, l’edonismo elevato a valore supremo, la volontà di potere e di dominio, discriminazioni di ogni tipo.
Ecco, come Chiesa, soprattutto come pastori del Popolo di Dio, come pastori, come consacrate e come consacrati, come seminaristi e come operatori pastorali, sta a noi saper fare queste distinzioni, discernere. Se cediamo allo sguardo negativo e giudichiamo in modo superficiale, rischiamo di far passare un messaggio sbagliato, come se dietro alla critica sulla secolarizzazione ci fosse da parte nostra la nostalgia di un mondo sacralizzato”. Invece – ha aggiunto – il tema della secolarizzazione “per noi cristiani, non dev’essere la minore rilevanza sociale della Chiesa o la perdita di ricchezze materiali e privilegi; piuttosto, essa ci chiede di riflettere sui cambiamenti della società, che hanno influito sul modo in cui le persone pensano e organizzano la vita. Se ci soffermiamo su questo aspetto, ci accorgiamo che non è la fede a essere in crisi, ma certe forme e modi attraverso cui la annunciamo. E, perciò, la secolarizzazione è una sfida per la nostra immaginazione pastorale, è «l’occasione per la ricomposizione della vita spirituale in nuove forme e per nuovi modi di esistere» (C. Taylor, A Secular Age, Cambridge 2007, 437)”.
E le “chiavi” di un lavoro evangelicamente efficace sono tre: far conoscere Gesù, essere testimoni credibili, creare occasioni e spazi di fraternità. Temi validi per la Chiesa canadese ma anche per la Chiesa tutta intera.
FABRIZIO MASTROFINI