Giaccardi Chiara
Per una fraternità capace di risvegliare l’aurora
2022/7, p. 1
È necessario sapere leggere la realtà del mondo, della Chiesa e della vita consacrata: vale oggi, in giorni di guerra, come negli anni attraversati dalla pandemia. E dobbiamo imparare ad avere contezza che siamo tutti connessi e che la vita e la morte sono compagne inscindibili di noi viventi e mortali.... C’è bisogno di creatività, sogno, di unire le mani e gli sforzi di tutti partendo dalla fragilità in cui tutti siamo immersi; c’è bisogno soprattutto di fraternità: di ripensarla come relazione articolata costitutiva, di coltivarla col prendersi cura in forma generativa, di viverla come legame non scelto ma che ci costituisce, di riscoprirla come fonte di libertà, di metterne in luce la paternità comune.

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Per una fraternitàcapace di risvegliare l’aurora
È necessario sapere leggere la realtà del mondo, della Chiesa e della vita consacrata: vale oggi, in giorni di guerra, come negli anni attraversati dalla pandemia. E dobbiamo imparare ad avere contezza che siamo tutti connessi e che la vita e la morte sono compagne inscindibili di noi viventi e mortali. È partita da qui la riflessione, che la professoressa Chiara Giaccardi, docente di Sociologia dei processi culturali e comunicativi presso l'Università Cattolica del Sacro Cuore, ha tenuto al Convegno di Collevalenza “C’è dell’oro in queste ferite. Traumatizzati o trasformati? La Vita Consacrata durante e dopo il Covid-19” C’è bisogno – ha detto la Giaccardi nella sua ricca e stimolante relazione, di cui diamo in queste pagine una nostra riduzione – di creatività, sogno, di unire le mani e gli sforzi di tutti partendo dalla fragilità in cui tutti siamo immersi; c’è bisogno soprattutto di fraternità: di ripensarla come relazione articolata costitutiva, di coltivarla col prendersi cura in forma generativa, di viverla come legame non scelto ma che ci costituisce, di riscoprirla come fonte di libertà, di metterne in luce la paternità comune.
La mia riflessione intende accompagnarvi in un percorso, costituito da una premessa, di cinque spunti di riflessione e da una conclusione. La premessa la traggo da Fratelli tutti, l’enciclica di Papa Francesco che riguarda proprio la contingenza in cui ci troviamo. Papa Francesco scrive al numero 32 di Fratelli tutti: «Con la tempesta è caduto il trucco di quegli stereotipi con cui mascheravamo i nostri “ego”, sempre preoccupati della propria immagine; ed è rimasta scoperta, ancora una volta, quella (benedetta) appartenenza comune alla quale non possiamo sottrarci: l’appartenenza come fratelli».
Questo è molto importante come premessa perché appunto non parliamo in astratto. Dobbiamo partire da questa consapevolezza: il virus ci ha rivelato delle verità esistenziali antropologiche. A mio avviso almeno due. La prima è che, appunto, siamo tutti connessi, ma non perché vogliamo connetterci, ma perché lo siamo per il respiro e questa relazione ci costituisce. E la seconda è che la vita e la morte sono due dimensioni inseparabili della nostra esistenza… Il virus ci ha dimostrato che la morte è una compagna di viaggio, quotidiana. Come dice il poeta Umberto Saba, «è il pensiero della morte che, infine, aiuta a vivere», perché è questo orizzonte che costituisce la nostra esistenza di viventi e mortali. Ora i cinque spunti.
Ripensare la fraternità
Fraternità è una parola intrinsecamente relazionale. L’individuo non ha fratelli; il figlio unico non ha fratelli. Dove si parla di fraternità si parla comunque di persone in relazione; una relazione molto articolata, perché non si tratta soltanto di una relazione orizzontale: fratello-sorella, fratello-fratello, sorella-sorella, ma con qualcuno altro da noi, e tuttavia, pur nella sua diversità, intimamente legato a noi. Fraternità è anche una parola relazionale nel senso verticale perché, se si è fratelli, significa che si è figli di qualcuno, che si è figli dello stesso genitore. C’è quindi un intreccio tra la relazionalità orizzontale, tra pari, e la relazionalità verticale, tra generazioni. Questo è un nodo fondamentale nella nostra epoca, in cui l’individualismo tende a diventare assoluto (ab-solutus) cioè sciolto dai legami.
E proprio in questo tempo di individualismo assoluto, la fraternità rischia di essere una parola scandalo, perché contrasta con la nostra ideologia. L’individualismo è, infatti, un’astrazione, perché è proprio la separazione della persona dalla rete delle relazioni che la costituiscono. Fraternità è poi una parola rivoluzionaria che dobbiamo reimparare a dire, nella consapevolezza di questo doppio nodo relazionale orizzontale e verticale.
Dire fraternità vuol dire genitorialità, vuol dire famiglia. E la famiglia è veramente un laboratorio dove si imparano cose che altrove ormai non si imparano più; dove si impara a capire che si è tutti diversi, perché nella famiglia si è tutti diversi – anche i gemelli sono diversi – e nello stesso tempo si è tutti ugualmente importanti, si è tutti ugualmente degni. Dove l’uguaglianza non è l’equivalenza, ma – uso un’espressione di Don Tonino Bello – è la convivialità delle differenze, che non è così irenica, così immediata, così naturale, ma che va continuamente conquistata. Quando questo riesce, regala veramente un senso di pienezza che altre esperienze non regalano. E comunque ci allena, ci abitua a convivere con i diversi.
Ambivalenza della fraternità
Il secondo spunto lo chiamerei così: la fraternità è una “opposizione polare”. Uso volutamente questa espressione di Romano Guardini per esprimere l’ambivalenza della fraternità. Perché non dobbiamo pensare ad una fraternità, a una famiglia da Mulino Bianco dove tutti sorridono, dove sempre tutti si vogliono bene, dove non ci sono sentimenti malevoli. Siamo, infatti, impastati di bene e di male, e questo impasto traspare in tutte le dimensioni della nostra esistenza, compresa quella della fraternità.
Che la fraternità sia ambivalente ce lo mostrano le Scritture, Antico Testamento e Nuovo Testamento. L’emblema della fraternità nel Vecchio Testamento sono Caino e Abele. «Sono forse io il custode di mio fratello»: è la frase che tutti noi ci diciamo per sgravarci dalle nostre responsabilità, sia dentro la famiglia che fuori, dai fratelli di sangue e dai fratelli di umanità. Questa frase è la premessa per l’uccisione, anche solo simbolica, attraverso la noncuranza, la negligenza verso i fratelli. È la frase chiave dell’incuria, che – come papa Francesco ci ricorda – è il contrario della cura ed è ciò che produce scarti nella società. La cura – una bellissima parola, forse un po’ abusata, e che andrebbe riscoperta – è il movimento contrario, cioè un movimento di coinvolgimento, di sollecitudine, di impegno verso l’altro, di attenzione prima di tutto, perché senza l’attenzione non ci possiamo prendere cura di nessuno. È davvero ricca la parola greca epimèleia, che significa cura e che ha proprio questi tre significati: di attenzione, di sollecitudine, e di impegno (quest’ultima è la dimensione più concreta e, se volete, anche politica della cura).
Nel Nuovo Testamento questa ambivalenza, secondo me, è espressa bene dalla parabola del “Padre misericordioso”. Pensiamo al primo figlio, che è quello che esegue il volere del padre, non tanto perché ci creda ma perché ha paura di trasgredire, e forse vuole averne dei vantaggi. Già qui c’è un’ambivalenza: non sempre si obbedisce perché si è convinti di qualche cosa, ma perché non si vogliono avere dei danni e delle perdite o perché si vogliono mantenere dei privilegi. Il fratello che esce di casa non è il discolo della famiglia, il figlio degenere, ma è in definitiva quello che si prende un rischio.
A proposito, a me piace molto il fatto che il padre non soltanto non gli dica: “No tu non vai, stai andando a perderti, a dissipare la tua vita”, ma gli dà la sua parte di eredità e – mi piace pensare – forse anche del denaro che gli servirà per correre questa avventura trasgressiva. Ebbene, io credo che questa sia una figura genitoriale molto matura e molto generativa. Perché per veramente mettere al mondo bisogna lasciare andare. Questa è una cosa che è molto difficile da capire sia per i genitori biologici e sia in tanti altri ambiti… come pure l’ambito ecclesiale. Se non taglio il cordone ombelicale con i miei figli li soffoco, impedisco di vivere la loro vita. Senza questa piccola morte, perché lasciare andare è una piccola morte (o grande, tante volte); senza questo ultimo gesto che dà senso a tutto il percorso, non si genera.
Questi due esempi, quello di Caino con la sua non curanza, e del primo figlio invidioso e geloso, sono le dinamiche che le Scritture ci suggeriscono per aiutarci anche a vivere le nostre quotidianità. Ecco, dobbiamo essere consapevoli che la fraternità non è assenza di tensione, non è assenza di conflitto. Anzi la fraternità è il luogo in cui una vicinanza così stretta fa emergere anche le nostre meschinità, le nostre fatiche, i nostri limiti.
A quel punto abbiamo due possibilità: o il fratricidio, o il trasformare questi limiti, questa tensione, questa conflittualità, in un laboratorio di gestione creativa dei conflitti per trasformarla in un’energia di rigenerazione dei rapporti. Il problema non è capire chi ha ragione, ma capirsi, capire le ragioni dell’altro anche quando non si è d’accordo. In questo senso papa Francesco ci invita a considerare la fraternità con tutto il suo carico di problematicità, conflittualità, come un laboratorio di trascendimento dei propri limiti e dei limiti della situazione.
Scrive papa Francesco in Fratelli tutti: «Sappiamo bene che “ogni volta che, come persone e comunità, impariamo a puntare più in alto di noi stessi e dei nostri interessi particolari, la comprensione e l’impegno reciproci si trasformano […] in un ambito dove i conflitti, le tensioni e anche quelli che si sarebbero potuti considerare opposti in passato, possono raggiungere un’unità multiforme che genera nuova vita”» (n. 245).
La fraternità è una unità multiforme che non cancella le differenze, ma che le valorizza, che genera nuova vita. È questa l’immagine che dobbiamo avere presente. Per questo, secondo me, l’immagine di fraternità, anche nel senso biologico, ma specialmente metaforico, è più utile di quella di comunità. Perché comunità tende a valorizzare una certa omogeneità interna, conformandoti a certi modelli, a un certo linguaggio, a determinati atteggiamenti, altrimenti sei fuori. Dalla fraternità non puoi essere fuori, perché sei e rimani sempre fratello anche se ti comporti male, sei fratello anche se rinneghi il padre e la madre.
CHIARA GIACCARDI